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  1. #1
    Omia Patria si bella e perduta
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    Contro l'Unione Europea prigione dei Popoli Per un'Europa di Nazioni libere, eguali e sovrane!
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    Predefinito La Grassa dopo la camomilla.

    Stemperati i toni della polemica (grazie a litri di camomilla), La Grassa ci spiega perché non ama le teorie sulla decrescita, perché la sua terza forza deve mettere al centro del suo programma (almeno tatticamente) la crescita e perché si è "irritato" contro Preve.
    La pace sia con noi......


  2. #2
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    Predefinito

    CONTRO IL NEOROMANTICISMO ECONOMICO (E SOCIALE)

    Sarebbe a mio avviso utile rimettere in lettura alcuni testi di Marx (a partire dal Manifesto del 1848) e lo scritto di Lenin contro il romanticismo economico. Il pensatore principale di tale corren-te, obiettivo delle critiche (rivolte ancor più ai suoi seguaci; ad es. in Russia i populisti o “amici del popolo”), è Sismondi, di cui non va sottovalutata comunque l’importanza. Ci si potrebbe, per altri versi, riferire anche a Proudhon, autore tuttavia nettamente meno acuto e interessante. Non appar-tiene a questa schiera, invece, il notevole Saint-Simon, che è assai più moderno e potrebbe essere considerato quasi un precursore delle tesi intorno al potere manageriale in quanto carattere tipico del capitalismo (in tal senso è più avanti di tanti marxisti, perfino dei giorni nostri, che altro non ve-dono del capitalismo se non il suo aspetto proprietario e l’estrazione di plusvalore/pluslavoro). E’ ovvio che rileggendo le critiche rivolte a Sismondi da Marx (che tacciò di reazionarietà quel tipo di pensiero) e di Lenin, è necessario non lasciarsi imbrigliare dalle loro specifiche argomenta-zioni, che risentono delle condizioni economico-sociali delle formazioni capitalistiche in cui i due rivoluzionari pensarono e agirono. Oggi, chiaramente, non esiste più l’artigiano in senso stretto, in quanto produttore di merci nella sua bottega con semplici strumenti e con il predominante lavoro personale, coadiuvato da pochi altri addetti, spesso gli stessi familiari. Egualmente dicasi per quanto riguarda la minuscola conduzione agricola su piccoli appezzamenti di terra propria e pur sempre con strumenti e lavoro in prevalenza personali e della famiglia. Non esiste più insomma quella pro-duzione mercantile semplice che, secondo Marx, fiorì brevemente nel periodo di transizione tra feu-dalesimo e capitalismo, trasformandosi velocemente in quest’ultimo a causa dei processi di “espro-priazione degli espropriatori”, cioè di centralizzazione del capitale susseguente alla concorrenza tra produttori di merci che condusse al successo di pochi e al fallimento di molti. Eppure ha ancora oggi senso parlare di romanticismo economico (con l’aggiunta del termine so-ciale) perché – pur in completamente mutate condizioni storiche e dopo un paio di secoli di svilup-po capitalistico industriale che ha radicalmente trasformato il mondo, rendendolo del tutto irricono-scibile nei suoi connotati tecnici, nei modi di vita, e relativamente alle sue strutture sociali e politi-che – le idee del “romanticismo” continuano a prodursi; certo anch’esse cambiate in profondità e difficilmente riconoscibili in base ad un approccio meramente “fenomenico” (“di superficie”). An-che la funzione di tali correnti di pensiero è trasformata. Un tempo, esse esprimevano la “nostalgia” del passato – e la paura, il timore, del futuro – di strati sociali travolti dallo sviluppo capitalistico. In questo senso, il “socialismo romantico” era reazionario, perché voleva frenare l’evoluzione storica, voleva arrestare la dinamica del capitale, protraendo all’infinito l’esistenza della piccola produzione mercantile. Ciò sarebbe stato intanto poco utile e anzi negativo, perché avrebbe bloccato la crescita (non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa) delle forze produttive, avrebbe arrestato l’avanzamento scientifico e tecnico, impedito la rottura delle limitate e asfittiche comunità localisti-che di quel tempo, protratto quello che Marx definiva “idiotismo rurale”, ostacolato quello che è in-vece stato l’esponenziale infittirsi dei viaggi e contatti – e la loro crescente velocità e frequenza – tra tutte le popolazioni del globo. Oltre a questo, era ormai del tutto impossibile, sulla base della produzione mercantile generalizzata, mantenere regolamentazioni corporative, proibendo la concor-renza che comportava la concentrazione della produzione e dei capitali, l’aumento delle dimensioni delle unità produttive con crescente introduzione di macchine e sistemi di macchine, ecc. Oggi, quei tentativi di arrestare l’evoluzione dei sistemi capitalistici non avrebbero più senso, nessuno potrebbe mai pensarci; solo qualche storico è in grado di ricostruire il clima di quelle epo-che lontane. I viaggi e i contatti tra le più distanti contrade e popolazioni sono la norma, il localismo è un fenomeno del tutto residuale e ultramarginale. L’avanzamento tecnologico è un dato di fatto e praticamente nessuno (qualche pazzo isolato lo si trova sempre in ogni epoca) intende porsi in un orizzonte che non contempli i computer e l’informatica, le telecomunicazioni; e fra poco la robotica e un po’ più avanti magari i viaggi interplanetari, e via dicendo. Il “romanticismo” odierno esprime ben altre paure – così ben evidenziate, in ogni successiva epoca dello sviluppo capitalistico (da quella meccanica a quella elettrica a quella informatica e robotica), dalla letteratura e poi dal cinema fantascientifico – e su queste fa leva per ottenere comunque vantaggi a favore delle classi dominan-ti; e non è un caso che perfino alcuni importanti personaggi, appartenenti agli strati più elevati di ta-li classi, partecipino a pieno titolo alla diffusione del “romanticismo” in questione, pagando pubbli-cazioni, film, spettacoli televisivi e schiere di intellettuali in giro a tenere seminari e conferenze, per paralizzare e deviare le possibili reazioni di massa contro il potere, distogliendo l’attenzione dalle strutture sociali della loro dominazione, vera causa delle sofferenze, dell’oppressione, dello sfrutta-mento, dei dominati. Di conseguenza, nell’epoca attuale il romanticismo economico-sociale non è fondamentalmente reazionario, non rappresenta in realtà un freno allo sviluppo. Tutto avanza comunque velocemente; i costumi e le abitudini, la mentalità collettiva, la morale, ecc. subiscono continue e veloci trasforma-zioni (certamente non in meglio, a mio avviso), in concomitanza con l’esponenziale e inarrestabile progresso della tecno-scienza, che molti disprezzano, criticano, sostenendo – e, sempre secondo la mia opinione, talvolta a ragione – che essa è causa di imbarbarimento, ma di cui tutti (salvo margi-nali e lamentevoli eccezioni) sfruttano le occasioni e le nuove possibilità apertesi. Certe correnti di pensiero “romantiche” non esprimono più, come un tempo (nella fase tutto sommato ancora iniziale dello sviluppo capitalistico), la presenza di vasti strati sociali ereditati dalla passata formazione so-ciale, bensì sono indice della “falsificazione” delle previsioni marxiane relativamente ai risultati “finali” della dinamica del capitale. Come ho fatto presente ormai molte volte, quest’ultima non ha condotto alla tendenzialmente netta scissione dicotomica della società: il piccolo gruppo di rentier ad un polo, e la gran massa dei lavoratori salariati (del braccio e della mente) all’altro polo. Abbiamo una società estremamente di-versificata (segmentata e stratificata) e in continua complessificazione (e complicazione). La fram-mentazione e dispersione dei frammenti nello “spazio sociale” (idealmente formato da segmenti e strati) è una dinamica provocata da processi di differente intensità e durata; ci sono periodiche grandi ondate di innovazioni, tra le quali si situano periodicità più brevi caratterizzate da minori on-de di “progresso”. Tutto questo movimento non è semplicemente impersonale e autopropulsivo co-me si vuol far credere, spesso con i riferimenti al “sistema” e alle sue “leggi”. Certo, esiste un si-stema ed esiste qualcosa di (assai vagamente) simile a delle leggi (vere leggi non sussistono proba-bilmente nemmeno in natura; oggi molti ne sono convinti). Tuttavia, le ondate innovative di diversa periodicità, ampiezza e forza, trovano – o anche creano – i soggetti che le realizzano; e le modalità di questa realizzazione rinviano al conflitto per il predominio, conflitto in cui non sono affatto tutti eguali, ma una minoranza è quella che veramente cavalca il cambiamento e ne gode i maggiori van-taggi in termini di conquista della preminenza. In questo convulso “progredire” – che fa del capitalismo una società particolarmente “calda” – ci sono parti sociali che regrediscono e decadono e altre che avanzano e prendono il davanti della scena in ogni nuova grande epoca dello sviluppo (ondata innovativa) della società. Per evitare che in questi periodici, ma continui, “strappi in avanti” si producano gravi lacerazioni e disgregazioni del tessuto sociale, occorre la presenza di una ideologia a duplice faccia, e i cui due suoi aspetti sia-no in reciproca simbiosi (siano le due facce della stessa medaglia): il lato del successo e della cre-scita di peso sociale in quanto merito (presunto) delle proprie (pretese) superiori capacità intelletti-ve e di veloce adattamento alle nuove condizioni; e il lato del relativo arretramento e diminuzione di rilevanza dei propri ruoli, processi attribuiti (per “consolarsi”) alla maledizione e fatalità legate al “mostruoso automa” del progresso tecnico-scientifico. L’importante è che tale ideologia renda impossibile la visibilità, l’individuazione, dello strato sociale (minoritario) costituito da quei “soggetti” che di fatto, tramite il loro conflitto per la supre-mazia (e le modalità “perverse” dello stesso), sono i portatori delle funzioni che danno impulso alle suddette ondate innovative. In questo modo, viene di fatto sterilizzata ogni volontà di reale trasfor-mazione della struttura sociale che vede il dominio di gruppi (ristretti) costituiti dagli agenti strate-gici del suddetto conflitto. La “lotta di classe” – che, nel marxismo, era considerata sempre più netta e irriducibile, di carattere rivoluzionario, poiché si supponeva la chiara scissione della società in due raggruppamenti (uno sempre meno numeroso, l’altro in continuo allargamento), con crescente visi-bilità dell’uno agli “occhi” dell’altro – diventa in realtà molto meno perspicua, nient’affatto rivolu-zionaria, quand’anche raggiunga alti livelli di acutezza. In realtà, non si tratta mai di lotta di classe – che presupporrebbe appunto lo scontro tra due classi decisive – ma di conflitto tra varie parti della società (segmenti e strati) per conquistare migliori posizioni nell’ambito della stessa che, nella sua evoluzione, è comunque sempre caratterizzata in senso capitalistico. E’ in quest’ambito, sommariamente delineato, che acquista significato il “neoromanticismo”. Non più semplicemente economico, bensì più generalmente sociale; ed esso rappresenta uno dei lati dell’ideologia di cui sopra: il lato della “consolazione” per coloro che si trovano in relativo arretra-mento – o che comunque conseguono un assai minor successo – nell’ambito delle periodiche (e di diversa periodicità) ondate innovative connesse all’acuirsi (in specie nelle epoche che definisco po-licentriche) del conflitto tra agenti dominanti per la supremazia. 2. Nella situazione sinteticamente appena descritta, il romanticismo economico presenta aspetti svariati e multiformi, ed è in genere orientato e patrocinato dai gruppi dominanti, poiché costituisce uno dei lati dell’ideologia che consente la loro preminenza nell’ambito della totalità sociale. Una egemonia che deve lasciar largo posto alla competizione (“stato d’animo” fondamentale per la ri-produzione capitalistica), e tuttavia anche allo sfogo delle frustrazioni dei segmenti e strati sociali in relativo calo di peso e importanza rispetto ai nuovi che emergono nelle periodiche ondate innovati-ve. L’egemonia non è più quella considerata da Gramsci in una società ancora agrario-industriale; è invece quella necessaria in una società a ormai netta prevalenza industriale e dei servizi, dove im-portanti non sono più le “alte” correnti culturali (e i “grandi intellettuali”), bensì l’articolarsi degli “specialismi” nel progressivo frammentarsi “a scatti” della società in seguito alle più volte citate ondate innovative. Per questo diventa assai più complicato individuare i connotati e sintetizzare le posizioni dei nuovi “romanticismi” (ormai al plurale). Prendiamone velocemente ad esempio uno che ha avuto nel nostro paese grande fortuna e rilevanza: quello sintetizzato dal “piccolo è bello”, oggi piuttosto démodé e criticato in “alto loco”. Non si è trattato di una ideologia originatasi dalla resistenza della piccola produzione mercantile all’avanzata della grande industria basata sulle macchine, bensì della forma specifica assunta dall’accumulazione del capitale nella trasformazione dell’Italia da società agrario-industriale a prevalentemente industriale. E’ in questa fase che si sono create le illusioni comuniste sul compattarsi degli operai in una classe fortemente maggioritaria, interessata alla tra-sformazione rivoluzionaria del capitalismo e in grado di realizzarla. La violenza della “lotta di clas-se” era in realtà solo il riflesso del forte disagio dei contadini che si andavano trasformando in ope-rai di fabbrica, con tutti i fenomeni conseguenti all’urbanesimo, alla concentrazione del lavoro sala-riato (di tipo esecutivo, privo di specializzazione) in aree ristrette e malsane, ecc. (per questi feno-meni è meglio rifarsi alla letteratura, e al cinema, che a certi trattati di spicciola sociologia). L’Italia ha anch’essa attraversato questo periodo (in specie negli anni ’60 e ’70 del secolo scor-so), in cui i comunisti e marxisti (me compreso) hanno pensato si andassero accumulando le condi-zioni di una possibile rivoluzione. Non solo questo non era vero, ma nel nostro paese certi fenomeni sono stati accompagnati, e alla fin fine socialmente attutiti, dal fatto che – nel mentre si sviluppava l’industria “fordista” (in specie metalmeccanica: automobili, elettrodomestici, ecc.), nel mentre le forze dette “operaie” (PCI, CGIL, ecc.), rimbambite dalla secolare credenza che la statizzazione fosse l’anticamera del socialismo, appoggiavano lo sviluppo dell’IRI, dell’industria di Stato (in fun-zione sedicente antimonopolistica) – le classi dominanti, avendo trovato la loro migliore espressio-ne politica nel centrosinistra di allora (DC-PSI), promuovevano appunto uno sviluppo diffuso della piccola imprenditoria ben adagiata e complementare rispetto alla grande, di cui costituiva (almeno per la maggior parte) il supporto, il cosiddetto “indotto”. Vi erano però anche le sedicenti produzio-ni di “nicchia” (da qualcuno spiritosamente ridefinite “di minchia”); e tutto l’insieme imprimeva
    comunque forte impulso ad una sorta di “autosfruttamento” (chi produceva pervaso dall’ideologia dell’essersi “messo in proprio” si prodigava ben oltre i normali orari e intensità del lavoro) e anche alla creatività del piccolo imprenditore, dando origine ad una serie di innovazioni (di prodotto e di processo) poi sfruttate dalle maggiori imprese (leader). Non si trattava però mai delle vere grandi ondate innovative sunnominate; solo modeste novità, comunque sufficienti ad incrementare la pro-duttività e la produzione, i consumi e l’ampiezza dei mercati, la creazione di profitti e dunque l’accumulazione capitalistica complessiva. Soprattutto – questa l’effettiva rilevanza del fenomeno – fu creato uno scudo (sociale) protettivo del grande capitale. Nessun comunista (e marxista) si accorse che le grandi lotte, sia contadine (bracciantili) che operaie (soprattutto nelle aree settentrionali di immigrazione dei contadini meri-dionali in marcia verso la condizione operaia), andavano progressivamente smussandosi contro una crescente massa sociale costituita di piccoli proprietari (il lavoro detto autonomo), mentre si forma-va nella grande industria una serie di non esigui strati di specialisti e manager di medio livello. La famosa marcia dei 40.000 quadri d’impresa, che nel 1980 segnò la sconfitta del movimento operaio alla Fiat, è stata un preciso simbolo oltre che segnale di un cambiamento decisivo che i miseri (e miserabili) resti dei comunisti e marxisti si rifiutano ancor oggi di vedere. Tale cambiamento, per-durante ormai da più di vent’anni, ha però prodotto anche la progressiva usura del “piccolo è bello”, il calo d’importanza – a fini di stabilità sociale non meno che di sviluppo economico grazie al sud-detto “autosfruttamento” – della diffusione di un ceto lavoratore piccolo-proprietario, all’interno del quale si sono andati producendo crescenti fenomeni di stratificazione nettamente diversificata quan-to a livelli di reddito, a status sociale, ecc. Siamo in qualche modo ad un passaggio cruciale, incardinati oggi in questa Unione Europea che non rappresenta per nulla, come si è riusciti ideologicamente a far credere alla maggioranza della popolazione, un’ancora di salvezza per noi (è anzi l’esatto contrario, pur se non avrebbe più senso a questo punto battersi per la nostra uscita da un simile baraccone e immondezzaio). Del resto, se l’appartenenza alla UE non ci aiuta gran che, bisogna ben dire che noi siamo ad essa ormai omoge-nei, solo con tutti i suoi “vizi” portati all’ennesima potenza. La grande impresa statale è sempre stata in Italia un supporto di quella privata (paradigmatiche le Acciaierie di Cornigliano Ligure che fornivano materia prima sottocosto alla Fiat), salvo alcuni “gioielli”, come l’ENI di Mattei che funzionava con tutte le regole dell’efficienza e della dirigenza manageriale di una qualsiasi grande impresa (indipendentemente dalla forma giuridica della pro-prietà). Le “privatizzazioni” delle imprese pubbliche, a partire soprattutto dagli anni ’90, non hanno perciò cambiato nella sostanza la complessiva struttura della grande industria italiana. Il problema vero è costituito dalla sua irreversibile decadenza poiché essa è formata da grandi imprese di settori che non sono più quelli della nuova ondata innovativa (come, nel dopoguerra, furono quelli fordisti, ad es. il metalmeccanico). Oggi, incredibilmente, la subordinazione dell’Italia all’egemonia impe-riale statunitense è ancora maggiore di quella esistente nelle disastrose condizioni susseguenti ad una guerra in fondo persa (malgrado le giravolte dell’ultima ora). Probabilmente gli equilibri inter-nazionali esistenti tra il 1945 e il 1989-91, che si riflettevano su quelli interni, lasciavano qualche piccolo margine di autonomia e di sviluppo autoctono con trasformazione profonda della struttura economica e sociale dell’Italia d’anteguerra (quella cui meglio si adattavano le analisi gramsciane). Il crollo del campo “socialista” e la dissoluzione dell’URSS, liberando le potenti forze “rinnegatri-ci” accumulatesi nel PCI in tanti anni di reiterate abiure, permise il cambio di regime in Italia con la formazione della destra e della sinistra post “mani pulite”, da me già analizzate e criticate più volte per cui mi esimo dallo spenderci qui troppe parole. Sono queste forze politiche a garantire una su-bordinazione agli USA tale da impedire lo sviluppo di grandi imprese nei settori più innovativi e strategicamente rilevanti (salvo i soliti casi rari). Aggiungo solo che non può esservi alcun dubbio sul fatto – colto da pochissimi, fra cui Preve e il sottoscritto ne Il Teatro dell’assurdo (fine ’94, inizio ’95), e ancor oggi ignorato da quasi tutti (salvo Cossiga) – che il sunnominato cambio di regime fu promosso dagli USA e si basava, nelle intenzioni iniziali, sulla possibilità di stabilire la propria egemonia imperiale tramite i rinnegati del comunismo (oggi diessini), così come si fece in seguito, per ondate successive, in Georgia e Ukrai-na (con le rivoluzioni “arancione”, per fortuna largamente rifluite), nelle repubbliche centroasiati-che, ecc. Attualmente, destra e sinistra sembrano differenziarsi nettamente quanto a servilismo filo-USA (e filo-Israele), con la sinistra che finge maggiore autonomia; ma solo perché destra e sinistra si ricollegano a settori diversi dell’imperialismo americano. La sinistra non ha affatto maggiore di-gnità e senso nazionale della destra; è solo anti-Bush perché mira a porsi in posizione di vantaggio qualora avvenisse tra due anni il cambio di “amministrazione” nelle presidenziali statunitensi. In de-finitiva, la sinistra coadiuva l’inganno – perpetrato anche da squallidi personaggi tipo un Michael Moore (o il nostro Negri) – secondo cui l’imperialismo americano sarebbe soltanto una politica per-seguita da questa presidenza, politica orientata dall’attuale strategia particolarmente aggressiva. Ancora una volta si constata che i “sinistri” (in specie estremi), e certi falsi critici dell’imperialismo americano (pardon, dell’Impero senza specificazioni!), sono quasi più infidi e pe-ricolosi della destra o della sinistra detta riformista, perché spargono illusioni su una possibile rige-nerazione di quella che resta ancor oggi la potenza egemone centrale del sistema capitalistico mon-diale; e che non abbandonerà certo spontaneamente simile posizione – legata a motivi strutturali, non a mere scelte politiche – pur se adatterà i suoi tatticismi alle mutevoli condizioni internazionali. Certi critici riprendono, con modalità ancora più torbide nonché superficiali, le vecchie tesi di autori come il “borghese” Hobson e il “rinnegato” Kautsky, per i quali l’imperialismo era solo una politica dovuta alla temporanea prevalenza dei gruppi capitalistici “più arretrati”. Sarebbe sufficiente la pre-valenza dei “più moderni” ed ecco che l’imperialismo, e oggi le tendenze egemoniche globali statu-nitensi, andrebbero “in soffitta”. Attenti a certi pensatori e a certi politici: alcuni sono solo confusi e superficiali, altri invece subdoli e ingannatori, e si trincerano dietro un linguaggio populista roboan-te e “radicale”, ma assolutamente inconsistente e privo sia di rigore scientifico che di pregnanza po-litica. 3. Torniamo però all’Italia dell’epoca odierna e ai suoi lineamenti strutturali. Una grande indu-stria tendenzialmente decotta o comunque attiva per lo più in settori non di punta, non relativi alle branche della più recente ondata innovativa. Ovviamente, non è che queste branche manchino del tutto; alcune imprese di eccellenza, quali la solita ENI e la Finmeccanica e alcune altre, ci sono. Tuttavia, esse non sono veramente integrate nel sistema complessivo, i loro gruppi dirigenti non fanno parte dell’establishment al momento dominante; in Italia, logicamente, poiché sul piano in-ternazionale quest’ultimo non è per nulla autonomo rispetto all’egemonia americana. La dipendenza (meglio detto: subdominanza) italiana, su cui non mi diffondo in questa sede, è caratterizzata dal predominio del grande capitale finanziario – anch’esso legato e subordinato alla finanza del paese centralmente preminente – il quale usa la sua influenza politica per piegare gli apparati di Stato ad una azione di sostanziale “rapina”. Non si tratta, sia chiaro, della classica estrazione di plusvalore, secondo i meccanismi individua-ti da Marx, poiché quest’ultima non è affatto un furto, bensì la forma “storicamente specifica” (ca-pitalistica) dello sfruttamento (ottenimento di pluslavoro) dei dominati da parte dei dominanti, pro-cesso caratterizzante ogni formazione sociale finora esistita. Abbiamo invece a che fare con un me-ro trasferimento di una parte del reddito (già prodotto) e con il suo accentramento verso il vertice della piramide sociale, ottenuto tramite il funzionamento degli apparati finanziari e di quelli statali (comunque “pubblici”, compresi quelli “locali”), complessamente intrecciati fra loro. Non è sempli-ce descrivere come tutta la “baracca” funzioni, ma comunque il risultato finale è la subdominanza di gruppi capitalistici che garantiscono la subordinazione italiana agli USA, in quanto pedina di un più complesso gioco geopolitico che attualmente conduce tutti i subdominanti europei sotto la premi-nenza del paese egemone centrale. Tale gioco ha bisogno per il suo svolgimento, nei paesi denomi-nati appunto subdominanti (per non confonderli con quelli di autentica dipendenza): a) del predo-minio del capitale finanziario che, pur tra complicati intrecci, vede il ponte di comando situato negli USA; b) della sussistenza di una grande industria che non può però lanciarsi massicciamente verso i settori di eccellenza (che toglierebbero spazio a quelli americani), limitando la sua attività a quelli della passata epoca di sviluppo (ad es., ancora l’industria automobilistica, e metalmeccanica in ge-nere), settori che debbono allora essere “pubblicamente” assistiti per non implodere, creando pro-blemi all’economia complessiva di questi paesi subdominanti, con effetti che poi si riverbererebbe-ro negativamente anche su quello predominante e sulla sua egemonia globale. Nella nuova situazione che si è venuta a creare – fra l’altro con l’istituzione della moneta comu-ne europea, che ha messo fine alle svalutazioni della lira come mezzo di sopravvivenza e sviluppo del lavoro autonomo, del minuscolo imprenditore – quest’ultimo è entrato in situazione di difficoltà, di “arrancamento”. Si tenta di non farlo crollare, ma è ovvio che progressivamente ci si avvicina al punto in cui non si potrà più alimentarlo a dovere. I dominanti – quelli della centralità della finanza in labile alleanza (e sordo contrasto di interessi) con gruppi industriali non di punta – hanno dismes-so il “romanticismo” connesso al “piccolo è bello”; si inneggia adesso alle virtù dell’impresa media (non mai quella di grandi dimensioni, l’unica che potrebbe dare decisivo impulso ai nuovi settori di eccellenza). Naturalmente, di questa impresa media vengono esaltate le capacità innovative (in po-chi casi d’avanguardia), l’apertura verso i mercati globali, lo staff manageriale integrato in una “classe medio-alta” internazionalizzata per la lingua parlata, per le abitudini contratte, per i posti che frequenta, ecc. Una “classe” che in realtà copia tutti i peggiori tic di quella più alta (della finan-za e della grande industria “asfittica”) e si sente, anche culturalmente, legata a quella dominante sta-tunitense. In realtà, questa middle class (nei fatti, più alta che media!) non ha proprio nulla a che vedere con qualsiasi forma di “romanticismo”; crede generalmente nel progresso tecnico, nella sua funzione manageriale che si fonda su di un forte avanzamento specialistico (e su più fronti). Le medie imprese sono però in Italia 4000; mentre le partite IVA, i lavoratori autonomi, supera-no i sei milioni. La grande finanza e i settori industriali bisognosi di assistenza pubblica puntano ormai a “pelare” questi ultimi, non tanto per questioni di debito pubblico e deficit – che rappresen-tano la solita copertura ideologica delle malversazioni e “rapine” effettuate nei confronti di tali ceti – quanto per la necessità di sostenere in qualche modo i gruppi grande-imprenditoriali decotti, di manovrare per fusioni e concentrazioni (o scorpori fittizi quando ciò occorra per esigenze tattiche) soprattutto nel settore finanziario, tenuto conto della competizione in atto tra i subdominanti (euro-pei e italiani) e delle contropartite da dare ai predominanti centrali onde mantenere in piedi i rappor-ti di forza geopolitici attuali. Si tratta di asciugare di un bel po’ il reddito del lavoro autonomo, del resto ormai molto differenziato tra i suoi vari strati, senza più nemmeno l’ideologia galvanizzante di un tempo. Ci si riesce momentaneamente mettendo i salariati contro gli autonomi. In realtà però, come dimostrano le indagini sul voto operaio (che è andato in misura sorprendente verso destra), ci si riesce al momento tramite un’alleanza (tattica e di non ampio respiro) tra i grandi blocchi finan-ziari e le grandi imprese industriali (quelle bisognose di assistenza pubblica), da una parte, e gli ap-parati sindacali (cooptati nel potere dai subdominanti) che controllano una buona quota del lavoro salariato, dall’altra; e tuttavia, anche quest’ultima appare in fase di “scontentezza” crescente. In realtà, si è al presente ben lontani dalla possibilità di costituire dei veri blocchi sociali, che siano formati dall’alleanza tra più strati della popolazione, tenuti insieme da una forte ideologia di identificazione, di creduta comune appartenenza. Lo scollamento appare invece notevole; anche la destra, nei suoi tentativi di rappresentare il crescente disagio e malcontento (vicino alla rabbia) del sedicente “ceto medio” – si tratta invece, lo ripeto, di lavoro autonomo, ormai molto diversificato in tanti strati con livelli di reddito nettamente differenti – non ottiene (per fortuna) gran successo; ha recentemente organizzato una indubbiamente vasta mobilitazione con manifestazione, ma ha poi dimostrato di non possedere la minima idea di come gestire la situazione. Il centro-sinistra (che va dall’ultradestra Udeur ai sedicenti radicali che “indossano” ancora la denominazione di comunisti) è più o meno nelle stesse condizioni; è avvantaggiato dall’avere l’appoggio della grande finanza e della grande imprenditoria industriale decotta, ma tiene in piedi l’insieme solo tramite la corruzione, le clientele, i favoritismi, i plurimi rivoletti di denaro sprecato in varie direzioni: comprese quelle
    verso stampa, editoria, cinema e una miriade di associazioni “culturali” (senza cultura), ambientali-ste, assistenziali, di centri sociali, di piccole e inefficienti attività di servizio, ecc. Il vero collante del “baraccone” è il marcio dilagante, sempre più putrido e dispendioso di soldi pubblici (nel men-tre si tuona sulla necessità di ridurre la spesa pubblica per pensioni e sanità, onde alleviare il famoso debito, il deficit, ecc.). 4. In definitiva, manca ormai da tempo (dall’epoca della fine della prima Repubblica) un vero collante ideologico (in positivo) che tenga insieme più gruppi sociali sotto l’egemonia di date fra-zioni dei subdominanti italiani. Per questo non si è mai veramente transitati alla seconda repubblica; scarsa è la coesione sociale, non vi sono più progetti strategici, per quanto magari miserrimi. Nella sfera economica abbiamo le sanguisughe della GFeID (grande finanza e industria decotta); in quella politica gli attuali schieramenti di destra e sinistra, esito disastroso del ricambio di regime (orientato dagli USA) iniziato con l’operazione “mani pulite” e continuato in mezzo a convulsioni, mutamento di nome dei partiti, inarrestabile processo di loro scissione e riaccorpamento, incessanti cambi di “casacca” anche a titolo individuale, ecc. Il degrado velocissimo, lo sbriciolamento politico-culturale, il galleggiamento nella me…lma, cui stiamo assistendo, si spiegano solo con la totale perdita di una qualsiasi presa ideologica da parte di scandalose lobbies di tipo mafioso che mostrano alla luce del Sole la loro totale assenza di moralità e il perseguimento di interessi che sono soltanto i loro. Fenomeni del genere avvengono anche negli altri paesi europei (un’area complessivamente in decadenza); tuttavia, da noi essi sono più evidenti e segnalano un corrompimento estremo degli af-fari, della politica, della cultura. Solo alcuni altri paesi dell’Europa orientale (ex “socialisti”) tengo-no forse il nostro passo veloce verso il pantano. Possiamo dunque prevedere un periodo assai lungo, e difficilmente reversibile, di totale incapa-cità egemonica dei gruppi subdominanti italiani, agenti ai vertici delle varie sfere sociali. Come o-perano allora tali gruppi onde resistere il più possibile nelle loro posizioni di preminenza? Non sono in grado di svolgere una positiva funzione di coesione dei vari segmenti e strati sociali, o almeno di una loro consistente parte, attraverso l’azione ideologica. L’unica alternativa è quella di impedire che sorgano contro di loro determinati organismi in grado di raccogliere il diffuso malessere popo-lare, di dargli la forma necessaria a innescare un’azione dirompente nei confronti di “classi” premi-nenti ma non più veramente dirigenti. Da una parte abbiamo il formarsi di quella middle class (più alta che media) di cui si è già parlato; un ceto sociale in definitiva esile sia come consistenza nume-rica, ma soprattutto incapace di rappresentare un esempio e un traino per altri segmenti e strati, poi-ché si tratta di un corpo sostanzialmente estraneo al più complessivo tessuto sociale nazionale, per quanto questo sia lacerato e consunto. Il vero impedimento al coagulo di forze in grado di sbreccia-re il potere dei subdominanti – lasciando per il momento sullo sfondo le rispettive probabilità di successo di una “rivoluzione” dentro o contro il capitale – è rappresentato dal diffondersi di una ve-ra e propria costellazione di “neoromanticismi”, che qui non analizzo limitandomi ad una succinta elencazione. Abbiamo le “teorie” (sto usando un termine pomposo per “stati d’animo” confusi e velleitari) della decrescita e della sfiducia nei confronti della disprezzata tecno-scienza, stati d’animo che a volte osano spingersi fino a propositi di “sviluppo sostenibile” (dizione assai generica dove ci può stare di tutto). Contrariamente a quello che alcuni pensano (ivi compreso l’amico Preve), tali cor-renti di pensiero non sono da criticare (benevolmente) soltanto perché non prendono in considera-zione i problemi relativi all’esercizio di una autentica opposizione alla predominanza americana, che esige la padronanza di strumenti “di potenza”. Questa necessità è soltanto una parte del proble-ma; importante, ma meno di quanto non lo sia un fatto assai più decisivo. Da simili posizioni scatu-riscono attività politiche di programmatico minoritarismo, prive della possibilità di influenzare e trascinare dietro di sé il grosso delle popolazioni dei paesi capitalistici avanzati: tipo quella italiana, ed europea in genere, con la conseguenza, sempre più visibile, dello scivolamento progressivo delle nostre società verso la subordinazione ai progetti di preminenza globale statunitense, sia che questi ultimi vengano portati avanti con le attuali strategie fortemente aggressive o, un domani, con altre più flessibili e “avvolgenti”. La critica verso tali “teorie” deve quindi essere assai aspra e senza mezzi termini. A scanso di equivoci, sia chiaro che non c’entra nulla il disinteresse per le questioni del dissesto e degrado ambientale, ecc., su cui quando avrò tempo preciserò meglio la mia posizio-ne. Intanto, però, critico duramente chi maschera dietro le preoccupazioni per tale degrado un atteg-giamento tendente a sviare l’attenzione dalla ben attuale degenerazione politica e sociale, dal mara-sma creato dai nostri subdominanti ormai in piena crisi di egemonia. Le tesi della decrescita sono però solo una delle numerose forme di neoromanticismo dei tempi nostri, tutte particolarmente fastidiose e molto squallide (povero Lenin se avesse dovuto avere a che fare con queste invece che con quella degli “amici del popolo”). Ricordo velocemente le chiacchie-re – in cui erano particolarmente versati i “rifondaroli” prima di divenire molto “istituzionali” – sui “movimenti” e “il Movimento dei movimenti”; poi quelle sull’economia solidale, sulle banche eti-che, sulle organizzazioni (fraudolente) che amministrano aiuti ai diseredati del fu terzo mondo (vere e proprie elemosine, molte delle quali dirottate chissà dove). Non parliamo dei social forum e altre riunioni per la “salvezza del mondo”, dove centinaia di intellettuali, grandi e piccoli, vanno a “far vetrina”, girando il mondo 365 giorni l’anno; e non so chi paga loro i viaggi, la ristorazione e l’alloggio (e sono convinto che i più famosi, e venditori di fumo, godranno anche di non modesti cachet). E dove mettiamo le “moltitudini” che si ribellano, nella testa di chi racconta tali frottole, all’Impero (che forse è quello di “guerre stellari”, tanto distante è dalla strutturazione geopolitica del mondo reale odierno)? Più serie appaiono almeno alcune (non tutte le) correnti del “volontaria-to”; l’importante è però che non si creda di sopperire con ciò alla presente carenza di teoria e prassi tese ad un radicale anticapitalismo e antiegemonismo (americano). Purtroppo, a fronte di questi ambienti politici e intellettuali letteralmente truffaldini – e che dai loro inganni e raggiri, fatti di idee torbide e fumose, traggono finanziamenti non esigui da parte dell’establishment privo di egemonia di cui si è detto – stanno i comunisti e marxisti “duri e puri”, quelli che ancora credono nella “Classe”, rancorosi e sempre in lite fra loro, in continua scissione persino da se stessi. O i terzomondisti, sempre “fedeli nei secoli”. E infine i pacifisti, i cultori della non violenza, che consentono a furbastri come il nostro attuale Ministro degli Esteri di fare un figu-rone, dimostrando alla grande maggioranza della popolazione quanto lui è “concreto” e “pragmati-co”, di fronte a velleitari e inconcludenti chiacchieroni: alcuni sicuramente in buona fede, altri au-tentici mascalzoni che recitano il “controcanto” rispetto ai “realisti” delle “missioni di pace”, non contrastate “nemmeno da Cina e Russia” (tornerò presto nel blog su questa demagogica uscita del “velista” che naviga agli Esteri). Non si può essere benevoli verso tutta questa genia che passa per “sinistra radicale” o anche “e-strema” e perfino “rivoluzionaria”. In un’epoca storica, in cui i gruppi dominanti di quest’area in decadenza che è l’Europa, ma soprattutto in questo nostro paese del tutto dissestato, sono ormai all’asfissia per quanto riguarda la presa egemonica, in cui quindi non vi sono affatto reali blocchi sociali orientati ideologicamente da effettivi vertici dirigenti, quest’accozzaglia caotica e informe di neoromantici e di dogmatici difensori del Verbo, pur esigua e infinitamente minoritaria, svolge la funzione di impedire la nascita dei primi “nuclei della trasformazione” (con l’obiettivo finale, e cer-to non prossimo, di abbattimento e sradicamento di queste nostre indecenti “classi” di subdominanti nelle diverse sfere sociali), creando così le condizioni del vero e attuale degrado – che è quello poli-tico e culturale – e consentendo quindi il protrarsi del predominio di “classi” (immerse nella palude della putredine e del ristagno, sociale più ancora che semplicemente economico), marcio fin dalle fondamenta, pur se si è entrati in una fase di crescente disagio e malcontento, conseguenti al peg-gioramento delle condizioni di vita dei più. Questi “sinistri estremi” – mi riferisco solo ai dirigenti politici e intellettuali, non all’insieme di “coloro che seguono” – non sono semplicemente “individui che sbagliano”, tutt’al più da neutraliz-zare. Si tratta invece delle prime trincee di difesa dei subdominanti italiani, arrivati alla più comple-ta carenza di capacità egemonica, quindi di formazione di un blocco sociale che dia stabilità al loro potere. Queste trincee debbono essere spianate, perché dopo di esse si incontra, nella maggioranza della popolazione, il malcontento, il sempre più difficile “tirare avanti”, la sensazione di essere in-cessantemente turlupinati dai cosiddetti “poteri forti”; esiste quindi qualche possibilità – una volta franata l’azione “deviante” compiuta dagli attuali “falsi critici”, che impedisce la formazione di ef-fettive organizzazioni (non “movimenti”) in grado di svolgere una autentica attività di trasforma-zione, adeguata alle condizioni dell’oggi – di procedere verso i bastioni, traballanti e marciti, di un potere certo opulento e pingue, ma indebolito dalla sua corruzione e inconsistenza di idee e di cultu-ra. I “sinistri estremi”, portatori dei “neoromanticismi” o del dogmatismo cristallizzato, sono quanto meno “oggettivamente” un ostacolo sulla via del cambiamento e del logoramento del presente bloc-co di (puro) potere finanziario-politico: che li foraggia infatti tramite mille canali (e non con solo denaro, ma con “onori” istituzionali e accademici, editoriali e massmediatici, ecc.). E sappiamo be-ne che, una volta “perso il tram della Storia”, subentra l’inedia, la rassegnazione, l’“arrangiarsi” in-dividualistico dell’“ognuno per sé”. Sono conscio del fatto che la maggioranza degli influenzati dai neoromanticismi e dal dogmati-smo sono animati dalle migliori intenzioni. Se così non fosse, non continuerei a tenere contatti so-prattutto con appartenenti a tali settori. La buona fede non cambia però i dati della situazione, e non può esimere dalle critiche contro dei nemici ideologici, e fra i più pericolosi. Essi influenzano una minoranza, è vero, e anche piccola; ma si tratta proprio di quella minoranza che potrebbe dar vita ai primi nuclei della lotta contro i subdominanti in crisi di egemonia. Quindi, questi dirigenti politici e gruppetti di intellettuali verminosi e infidi, che sono i “cattivi maestri” (e lo sono solo in tal senso) diffusori dei neoromanticismi e del dogmatismo, vanno apertamente combattuti e sputtanati (perché sono anche dei “venduti” di prima grandezza). Bisogna “passarli a fil di spada” (in senso metafori-co), senza di che non si riuscirà a liberare il campo per la costruzione delle prime “avanguardie” in grado di ripensare radicalmente nuove teorie e prassi anticapitalistiche, nonché di creare una più va-sta opinione contro la supremazia – di tipo imperiale e quasi neocoloniale – del complesso politico-finanziario statunitense, quello oggi predominante. 24 gennaio 2007

  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da Sandokan80 Visualizza Messaggio
    Stemperati i toni della polemica (grazie a litri di camomilla), La Grassa ci spiega perché non ama le teorie sulla decrescita, perché la sua terza forza deve mettere al centro del suo programma (almeno tatticamente) la crescita e perché si è "irritato" contro Preve.
    La pace sia con noi......

  4. #4
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    Da Ripensaremarx...



    PUNTI DA EVIDENZIARE
    di Gianfranco La Grassa

    Non vorrei apparire maniacale, ma intendo tornare brevemente sullo scritto da poco consegnato al sito, quello sul(i) “(neo)romanticismo(i). Credo che quest’ultimo sia abbastanza chiaro; in esso ho però voluto, pur in sintesi, accoppiare considerazioni teoriche e riferimenti alla situazione attuale (talvolta persino soltanto italiana). Vorrei qui evidenziare alcuni punti – non nuovi per carità – su cui mi piacerebbe insistere nella discussione anche in futuro.

    1) Innanzitutto, come ho ormai sostenuto innumerevoli volte e tuttavia credo sia utile ricordarlo spesso, la dinamica capitalistica – non quella più recente, ma proprio in generale, cioè relativa al modo di produzione capitalistico, in quanto oggetto teorico che tenta di cogliere gli aspetti cruciali della formazione sociale secondo l’analisi iniziata da Marx e continuata in base alla sua prospettiva – non conduce, nemmeno tendenzialmente, alla scissione della società in due classi fondamentali e nettamente antagoniste fra loro, con tutto quello che ne consegue com’è ben noto ai marxisti e non solo a loro. Man mano che tale formazione sociale si sviluppa, si produce una incessante frammentazione in tanti raggruppamenti che possono, per semplicità teorica, essere trattati quali segmenti (movimento di divisione “in orizzontale”) e strati (divisione “in verticale”).
    Tale dinamica è incessante, ma si condensa in periodici “salti” (o “scatti” o “gradini”) dovuti ad ondate innovative susseguenti all’intensa competizione che caratterizza le varie sfere sociali: economica in primo luogo (essendo la “concorrenza” carattere precipuo del capitalismo), politica e ideologico-culturale (il conflitto in tali sfere era quello tipico delle formazioni sociali che precedono la capitalistica). Quando si parla di ondate innovative, non ci si riferisce dunque solo alla prima sfera, non si intende parlare di tali processi così come ne parlò ad es. Schumpeter. Le ondate in oggetto sono inoltre di differente intensità e ampiezza, e si susseguono con diverse periodicità; ovviamente, almeno in linea generale, le maggiori ondate sono fra loro più distanziate nel tempo (pensiamo alle varie, almeno tre-quattro, “rivoluzioni industriali”) e, nel periodo fra l’una e l’altra, si verificano via via le minori (la cui puntuale specificazione non è per nulla semplice ed univoca; sto parlando in termini assai generali).
    Essendo data (come ipotesi teorica) tale dinamica del capitale, ne consegue l’importanza decisiva, ai fini del “dominio di classe”, di quel fattore denominato egemonia (in un significato vicino, ma non eguale, a quello di Gramsci), che è strettamente legato alla formazione di “blocchi sociali”, ognuno costituito da più segmenti e (particolarmente rilevanti per il dominio in questione) strati, fra loro “compattati” mediante storicamente specifiche ideologie (o formazioni ideologico-culturali). Se tuttavia il movimento del capitale non è quello pensato da Marx e da tutti i marxisti (quello tendenzialmente dicotomico), bensì conduce alla, sempre tendenziale, dispersione – per salti o scatti in base alle ondate innovative – di vari raggruppamenti sociali (appunto i segmenti e gli strati), il concetto di egemonia dovrà essere meglio studiato e articolato rispetto a quello gramsciano. Nello scritto sul “neoromanticismo” ho intanto, velocemente, accennato a due lati dell’ideologia di aggregazione egemonica dei segmenti e strati in blocchi sociali:
    quello che si riferisce ai (e serve a compattare i) segmenti e strati che nascono, o si rafforzano, a causa delle successive ondate innovative (in specie quelle di maggior momento e che si susseguono con più ampi intervalli temporali fra loro) con le conseguenti periodiche, e più o meno radicali, trasformazioni della struttura dei rapporti sociali;
    quello che investe i segmenti e strati che, nell’ambito dei periodi in cui si “sollevano” tali nuove ondate, si indeboliscono (talvolta entrano addirittura in fase di scomparsa), arretrano o tengono con difficoltà le posizioni, ecc.
    Il primo lato dell’ideologia egemonica è di stampo “positivistico” (in senso lato), esprime la fiducia nel futuro e l’entusiasmo per le novità. Soprattutto, però, deve comportare la convinzione degli appartenenti ai segmenti e strati interessati di non essere semplicemente portatori di (“soggetti” per) tali novità, ma di esserne i veri propulsori, anzi gli artefici primi; insomma, di essere gli autentici innovatori (come certi gruppi di imprenditori nel modello schumpeteriano relativo alla sfera economica). Il secondo lato dell’egemonia serve invece a “consolare” i perdenti o comunque quelli che arrancano, che tengono con fatica il “passo con i tempi”. Questi “soggetti” debbono essere aiutati a sfuggire alla depressione, alla sensazione di sconfitta, all’autoincolparsi di essere i responsabili della propria disfatta o quanto meno delle difficoltà crescenti cui si va incontro, in ogni caso della diminuzione del proprio peso sociale. L’ideologia assolve il suo compito di mantenere questi segmenti e strati sotto l’egemonia dei dominanti soltanto se li aiuta a gettare le colpe sul “fato cinico e baro”, su di un progresso “mostruoso” trattato da mero regresso (in tutti i sensi e proprio pensato quale arretramento generale della “civiltà”), ecc. ecc. Ed è qui che si innesta la funzione dei “neoromanticismi” e dei ceti intellettuali, ben remunerati dai dominanti, per diffonderli.

    2) Un punto decisivo – per l’Europa in generale, ma in modo particolare per il nostro paese – mi sembra la constatazione di una ormai forse irreversibile carenza di capacità egemonica da parte delle nostre classi dominanti (ma non più veramente dirigenti), inette in fatto di strategia e dedite solo a tattiche miserevoli di mera sopravvivenza, con la ben nota mentalità così ben espressa dal Principe di Salina nel Gattopardo: per classi dominanti, ormai finite “storicamente” (degli zombies), tirare avanti per un cinquantennio (ma oggi credo assai meno) equivale all’eternità.
    Malgrado noi ci siamo opposti – e non rinnego nulla, nella forma e nella sostanza, di quella opposizione – ai dominanti nel dopoguerra italiano, non si può disconoscere che essi, fino alla svolta del 1992-93, hanno in realtà esercitato una funzione egemonica, pur se via via più squallida e illanguidita. I punti forti di tale egemonia, a livello dei mutamenti strutturali che sostenevano una certa ideologia, furono lo sviluppo dell’industria fordista ma, ancor più, il formarsi di una gran massa costituita dal cosiddetto lavoro autonomo (spesso solo formalmente tale), quello poi denominato anche “delle partite IVA”. Naturalmente, solo un attento studio storico, che non spetta a me fare, metterebbe bene in luce i molteplici aspetti di simili cambiamenti strutturali, la politica seguita per realizzarli, l’ideologia(e) che ne costituì il supporto ma anche il risultato, ecc.
    A me sembra chiaro – e anche qui sarebbe necessaria una seria indagine storica, retta ovviamente da opportune ipotesi teoriche, intorno al “crollo” del “socialismo” (che cosa questo fosse e il perché del suo fallimento), alla situazione geopolitica globale venutasi a creare in seguito ad esso, alle sue conseguenze particolari nel nostro paese (“mani pulite”, fine della prima Repubblica, ecc. ecc.) – che si è progressivamente logorata (almeno in grandissima parte) l’attitudine egemonica dei dominanti italiani in particolare, e di quelli europei in generale (anche se in misura minore, soprattutto per quanto concerne i principali paesi dell’area). L’autonomia, già scarsa, dei nostri dominanti (cui premetto da tempo, non a caso, il “sub”) è praticamente azzerata rispetto ai predominanti statunitensi; al di là dei contorcimenti della sinistra che tenta di dimostrare una sostanziale (ma invece solo formale) maggiore indipendenza nazionale rispetto alla destra (quella ufficiale, quella “istituzionale”).
    La caduta di capacità egemonica si esprime nel profondo degrado culturale e politico della presente epoca, parallelo allo stradominio del capitale finanziario e di quella che ho per semplicità indicato come industria decotta (in sintesi: GFeID). L’analisi della cultura odierna, del suo imbarbarimento, dell’appiattimento da essa prodotto a livello di massa – un appiattimento in perfetta simbiosi con la “produzione” di una crescente animosità e conflittualita tra gli spezzoni e strati dei dominati (base di quel divide et impera che facilita i compiti dei dominanti) – va condotta a partire dalla consapevolezza che tale “effetto” ha come “causa”, appunto, il venir meno dell’esercizio di egemonia da parte dei gruppi dominanti (ma non più dirigenti); un esaurirsi che si presenta nella doppia veste della pochezza di tali dominanti nella sfera economica, dove non si ha vero sviluppo (che non è mera crescita, del resto anch’essa carente), e dell’inettitudine di quelli attivi nella sfera politica, affatto disinteressati alla costituzione di “sfere di influenza” nel mondo. Tutti i (sub)dominanti di questo tipo sono ormai concentrati solo sul piccolo cabotaggio nell’ambito della (pre)dominanza del paese centrale e della sua sfera di influenza (globale).
    Se non vi è più abilità egemonica – la quale, quando esisteva, era perciò tesa ad esercitare una effettiva direzione che non può prescindere da un sistema di valori (politici e culturali) di una certa ampiezza – questi (sub)dominanti operano soltanto con l’intento di sbriciolare vieppiù la società, di coadiuvare la dinamica di frammentazione (e dispersione dei frammenti) tipica della formazione sociale capitalistica. A questo punto, nessuno dei due lati dell’egemonia (ideologica) sopraindicati funziona più “a dovere”. La pretesa middle class (più alta che media), composta di manager e “specialisti”, ecc., si “internazionalizza” in misura crescente, ma nel senso di cadere progressivamente sotto l’ombrello culturale (a partire da quello linguistico per finire al “politicamente corretto”) dei (pre)dominanti centrali. La “gran massa” degli altri strati e segmenti viene consegnata al “non pensiero”, all’assenza di problematicità, al conformismo, al piattume più basso e volgare. Poiché sussistono però sempre, in ogni epoca storica, almeno piccole schiere di non consenzienti, di “ribelli”, di quelli che insistono a voler pensare con la propria testa, ecc., si cerca di fornire loro – utilizzando un ceto intellettuale per la massima parte corrotto e venduto (o comprato, a seconda dell’angolo di visuale), con una minoranza di “onest’uomini”, però “troppo colti” e “rarefatti” per non essere addetti alla “aristocrazia del pensiero” – strumenti ideali che li sviino dalla modernità, dai continui scatti o gradini di una dinamica capitalistica che procede per ondate innovative.
    In definitiva, i (sub)dominanti non esercitano più egemonia (a duplice faccia), ma più semplicemente spargono veleni politico-ideologici per impedire il formarsi di autentiche opposizioni ai loro progetti di accrescimento del potere (subordinato ai predominanti), provocando così il disfacimento dell’intero tessuto sociale. Alcuni di loro (pochi) sanno che si tratta di un “tirare avanti”, che non potrà durare indefinitamente, poiché anche nella società (e nella politica) esiste l’horror vacui; e prima o poi “qualcosa” (e “qualcuno”) verrà a riempire il vuoto. Tuttavia, i (sub)potenti odierni ripetono il già surricordato ragionamento del Principe di Salina.
    Non è mia intenzione sostenere – e, se sono stato frainteso, si tenga conto adesso di quanto dico – che chi, come noi, ha intenzione di svolgere un’autentica critica, possibilmente “in avanti”, dei nostri (sub)dominanti dovrebbe dedicare la parte principale del suo tempo a confutare le tesi dei “ritardatari”, di coloro che deviano i dominati (quelli che almeno vogliono pensare e ribellarsi) verso i vicoli ciechi dell’antimodernismo. Ci mancherebbe altro; non sono questi gli ideologi di maggior impatto negativo, attivi nel tentativo di sbriciolare i raggruppamenti sociali e di attutire le eventuali spinte ribellistiche. Il nostro più alto impegno deve essere impiegato ad analizzare la strutturazione del potere dei dominanti sia in “casa nostra”, sia nella sua articolazione geopolitica mondiale. Semplicemente, non dimentichiamo l’esistenza di questi settori antimodernisti. In una situazione in cui i (sub)dominanti non sono più atti a produrre vera egemonia, ma semplicemente lavorano in negativo per impedire il costituirsi di nuclei d’“avanguardia” in conflitto con il loro (sub)dominio, non bisogna nemmeno dimenticare – senza affatto farne l’obiettivo principale della critica – i settori che ho sinteticamente definito “neoromantici”. Tutto lì. Si tratta di un semplice piccolo complemento rispetto all’impegno da dedicare alla confutazione dei “postmodernisti”, di quelli “tanto all’avanguardia” da voler costituire uno spesso scudo protettivo dei nostri (sub)dominanti affinché questi si dedichino, il più tranquillamente possibile, alle loro attività di servizio nell’ambito della sfera di influenza imperiale statunitense.

    3) Nel mio intervento sull’intervista di Preve al blog, ho citato due lunghi ed inequivocabili passi di Marx (dal Capitolo VI inedito e dal Libro III de Il Capitale), da cui si evince con nettezza che, per il fondatore della teoria “scientifica” (che tale almeno pretendeva di essere) del comunismo, la classe operaia è il lavoratore collettivo “dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”. E’ stato successivamente Kautsky, il reale fondatore del marxismo in quanto formazione ideologica, a ridurre la classe in questione al solo insieme degli operai di fabbrica (i lavoratori salariati di tipo esecutivo impiegati nell’industria). Dal 1968 in poi, si è cercato di spiegare via via, con l’onnicomprensiva e dunque generica e inutilizzabile categoria della “proletarizzazione crescente”, l’assimilazione di ogni spezzone del lavoro salariato esecutivo (nel commercio e servizi in genere), e perfino degli specialisti e tecnici vari, alla classe operaia in senso proprio. Si è fatto un enorme calderone; il “proletariato” è cresciuto enormemente di dimensioni (alla guisa della “Cosa” nell’omonimo film di Carpenter), ma solo nella testa, ormai “scoppiata”, di gruppetti di “marxisti” sempre più scemi e sempre più isolati e inconsistenti (se sono così animoso verso questi mentecatti o imbroglioni, è perché anch’io, nella mia giovane età, ho pensato simili idiozie; pur se solo in parte, e per fortuna me ne sono allontanato ancora in tempo per non rimbecillire in modo irreversibile come gli avanzi “marxisti” odierni; consiglio a tutti i giovani, con idee anticapitalistiche, di “gettarli subito nel cesso e di tirare l’acqua”. Marx non ha comunque molto a che vedere con la maggior parte di quelli che ne parlano a vanvera da ormai parecchi anni).
    La cosiddetta classe operaia ha avuto una sua radicale funzione nelle prime fasi della “accumulazione capitalistica”, poiché quest’ultima non era semplice reinvestimento di plusvalore, bensì essenzialmente trasformazione della struttura dei rapporti sociali, passaggio dalla condizione del contadino o dell’artigiano (o anche dell’operaio manifatturiero, ancora in possesso parziale dei saperi relativi alle varie produzioni dell’epoca) all’operaio della grande industria basata su sistemi di macchine; un operaio che, ben prima del taylorismo-fordismo, era stato spogliato di ogni savoir faire relativo a questo o quel mestiere. Tale trasformazione è innanzitutto avvenuta in una situazione di miseria e di sofferenze inenarrabili per milioni e milioni di individui, con l’effettiva creazione di un “esercito industriale”, ecc. Si tratta di una trasformazione che è avvenuta con scarti temporali notevoli da paese a paese, iniziando dall’Inghilterra; oggi ad es. sta avvenendo, pur se in forme del tutto diverse che andrebbero assai meglio studiate di quanto al momento non si faccia, in Cina e India, e in altri paesi minori (dove si stanno svolgendo processi sociali non molto assimilabili a quelli della prima accumulazione in Europa e negli USA).
    Man mano che si è passati da questa prima accumulazione capitalistica (con la trasformazione sociale appena considerata) alla riproduzione, in qualche modo “stabilizzata”, del cosiddetto modo di produzione specificamente capitalistico, la classe operaia in senso stretto (quella pensata da Kautsky, e dal marxismo, quale reale soggetto della trasformazione del capitalismo in comunismo) è diventata un semplice spezzone della società di forma capitalistica: inizialmente, quello maggioritario, poi nemmeno più questo. In ogni caso, tale pretesa classe, come ogni altro ambito della società in questione, è stata investita dalla dinamica di frammentazione e dispersione dei frammenti, che anche in tal caso è stata a lungo contrastata da una specifica ideologia – inizialmente “comunistica” e magari “marxistica”, poi via via, sempre a partire dal primo paese capitalistico (l’Inghilterra), di tipo sindacale e di “riformismo” politico – in grado di darle un senso di “comune appartenenza”. Quest’ultimo è però ormai in via di crescente sbriciolamento, con la netta evidenziazione di come questa parte della società non sia una classe, bensì un insieme di spezzoni di lavoro salariato del tipo più dipendente ed esecutivo sempre meno omogenei fra loro.
    Pensiamo, per fare degli esempi, al tipico lavoratore edile addetto alle più semplici mansioni; o a quello che cura gli “scambi” in ferrovia; o a qualcuno che svolge compiti elementari nei reparti di selleria dell’industria automobilistica; e via dicendo. Non semplicemente si tratta di lavori in continua diminuzione numerica, ormai ridotti all’osso, ma non hanno nemmeno omogeneità fra loro, non creano “oggettivamente” alcuna mentalità (tanto meno una “coscienza di classe”) comune fra i loro portatori. All’inizio dell’accumulazione capitalistica (formazione della primissima “classe” operaia; classe in senso improprio), collettive condizioni di miseria, di bassi salari, di abitazione (urbana), ecc. – unite però all’ideologia “amministrata” da specifiche organizzazioni “di classe” quali sindacati e poi partiti detti “operai”, gradualmente divenuti pezzi decisivi degli apparati politico-ideologici dei gruppi dominanti – hanno creato il collante di questa presunta classe (nel suo significato marxista). Tutto questo si è però perso da tempo; e anche dove si sono attualmente create condizioni solo apparentemente simili – come già detto, ad es., in Cina e India – la situazione è invece del tutto diversa, in particolare quella relativa alla funzione “coagulante” dell’ideologia; per cui, alla fine della fase attuale di intensa accumulazione (trasformazione della struttura dei rapporti sociali), avremo in quei paesi delle formazioni sociali, magari dette ancora capitalistiche (in specie per l’importanza decisiva delle imprese e del mercato nella loro struttura), ma assai differenti da quelle che così denominiamo nel nostro “occidente capitalistico”.

    4) Quanto appena detto apre alle considerazioni conclusive (per il momento, cioè solo di questo breve scritto). O noi siamo in grado di porci nell’ottica del ripensamento dell’analisi sociale – ma prima ancora (un prima logico, non cronologico) delle categorie da utilizzare in quest’ultima – oppure non riusciremo mai ad individuare quali potrebbero essere gli eventuali “soggetti” di una trasformazione del capitalismo in “qualcosa d’altro”; francamente, voler predire fin d’ora che si tratterà di una società comunista – quando ormai il vecchio paradigma di tale trasformazione, fondato sulla classe operaia è andato a farsi benedire, e il comportamento umano, sia interindividuale che tra gruppi sociali (di varia ampiezza), non lascia presagire affatto una solidarietà e cooperazione collettive – è da semplici dementi. Possiamo desiderare il comunismo, possiamo cercare di immaginare quale organizzazione dovrebbe avere per essere tale, possiamo predicarlo come “salvezza del genere umano”; se però sosteniamo (per rassicurare qualche debole di mente) che il comunismo verrà certamente, e magari è anche prossimo, allora o siamo mascalzoni o deficienti.
    Qualcuno continua a ritenere che il sottoscritto veda la trasformazione della società soltanto come portato della conflittualità tra dominanti. Da cosa nasca un simile fraintendimento, non lo so. Quel tipo di conflittualità modifica semplicemente la società capitalistica nell’ambito di se stessa, e ha quale conseguenza precipua il ben noto sviluppo ineguale dei vari capitalismi (dei diversi gruppi capitalistici all’interno di un dato sistema e dei differenti sistemi capitalistici su scala mondiale), con l’alternarsi di quelle epoche che ho denominato mono e policentriche. Secondo il mio punto di vista, in queste ultime (dette anche imperialistiche) la lotta intercapitalistica (interdominanti) è talmente acuta da aprire, nei leniniani “anelli deboli” (cioè in determinati punti delle rete costituita dai rapporti tra vari gruppi e tra sistemi capitalistici), fratture, strappi, lacerazioni gravi che si estendono al tessuto sociale d’insieme (ivi compresi, dunque, i rapporti tra dominanti e dominati), aprendo così la strada ad attività rivoluzionarie, cioè di radicale mutamento di quella data totalità sociale. Il risultato di tali attività, però, non solo non è tassativamente la transizione al comunismo, ma spesso nemmeno è il mero tentativo di uscire dal capitalismo in una “qualche direzione”; più semplicemente, quest’ultimo viene modificato in profondità e con radicalità, attribuendo la direzione della società (e l’eventuale egemonia complessiva) a nuovi gruppi pur sempre capitalistici e tuttavia nettamente diversi – anzi acerrimi nemici – dei precedenti. In tal senso, ho avanzato la tesi delle rivoluzioni dentro il capitale (che non sono comunque né modesti cambiamenti della struttura né semplici “rivoluzioni passive”).
    In definitiva, il conflitto interdominanti, nell’ambito di una data fase o epoca della formazione capitalistica, non è l’unica, né la principale molla del cambiamento; crea solo, quando si acutizza, le condizioni di un “passaggio”, spesso assai stretto, attraverso cui si mettono in ogni caso in movimento anche i dominati, ed è solo allora che si verificano le modificazioni più radicali; non sempre però effettivamente contro il capitale, perché non è affatto deciso in anticipo, e con matematica certezza (tipica dei dogmatici del marxismo), quali gruppi dirigenti egemonizzeranno i movimenti (che, da soli, non decidono nulla, come invece pensano altri “deboli pensatori” pur sempre esistenti “a sinistra”, che è oggi il vero “buco nero” del pensiero razionale) e quali sbocchi ne risulteranno. Mi auguro di aver scritto in italiano decente e dunque di non essere ulteriormente frainteso.
    C’è magari un altro punto che meriterebbe di essere accennato, ma per oggi basta e avanza. In qualche prossimo intervento nel blog, riprenderemo semmai il discorso. Tuttavia, i punti qui sunteggiati mi sembrano da discutere se si vuole dare un minimo contributo all’avanzamento di una teoria sociale che si riprenda dallo choc della batosta subita – mi dispiace dirlo: meritatamente – dal sedicente comunismo del XX secolo. Quanto ai marxisti – parlo di quelli che sono partiti da Marx, perché i punti di arrivo sono oggi pari ad n elevato all’ennesima potenza – hanno negli ultimi anni accumulato una tale serie di scemenze (o, forse, di mascalzonate ben pagate dalle vecchie classi dominanti ormai in crisi di egemonia) di cui non è nemmeno pensabile fare l’elenco.

  5. #5
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    Finalmente ho un po' di minuti per parlare di questo tema...

    Citazione Originariamente Scritto da Sandokan80 Visualizza Messaggio
    Oggi, chiaramente, non esiste più l’artigiano in senso stretto, in quanto produttore di merci nella sua bottega con semplici strumenti e con il predominante lavoro personale, coadiuvato da pochi altri addetti, spesso gli stessi familiari.


    Assolutamente in disaccordo. Se i nostri pensatori riuscissero ad abbandonare per un attimo i loro panni "cittadini", capirebbero che di artigiani ne esistono eccome! Basta farsi una passeggiata. Nella stessa Roma iper-capitalista dei supermercati abbiamo delle stupende botteghe artigiane, come calzolai, fabbri, falegnami...
    Apriamo gli occhi, ché la realtà va studiata prima di parlare.

    Egualmente dicasi per quanto riguarda la minuscola conduzione agricola su piccoli appezzamenti di terra propria e pur sempre con strumenti e lavoro in prevalenza personali e della famiglia.
    Assolutamente in disaccordo anche su questo. Basterebbe farsi un giro per la splendida Toscana o in Emilia Romagna, ma anche nelle zone tuscolane del Lazio... Mi sembra che non si conosca la realtà e si tenda ad astrarre guardando solo ciò che fa comodo al discorso "sviluppista"...

    Non esiste più insomma quella pro-duzione mercantile semplice che, secondo Marx, fiorì brevemente nel periodo di transizione tra feu-dalesimo e capitalismo, trasformandosi velocemente in quest’ultimo a causa dei processi di “espro-priazione degli espropriatori”, cioè di centralizzazione del capitale susseguente alla concorrenza tra produttori di merci che condusse al successo di pochi e al fallimento di molti.
    A me sembra che i piccoli artigiani ci siano eccome e che, al contrario di quel che pensano gli sviluppisti, vadano sostenuti, perché è l'unico tipo di economia che ci può portare oltre il capitalismo, specialmente quello finanziario delle banche centrali!

    Eppure ha ancora oggi senso parlare di romanticismo economico (con l’aggiunta del termine so-ciale) perché – pur in completamente mutate condizioni storiche e dopo un paio di secoli di svilup-po capitalistico industriale che ha radicalmente trasformato il mondo, rendendolo del tutto irricono-scibile nei suoi connotati tecnici, nei modi di vita, e relativamente alle sue strutture sociali e politi-che – le idee del “romanticismo” continuano a prodursi; certo anch’esse cambiate in profondità e difficilmente riconoscibili in base ad un approccio meramente “fenomenico” (“di superficie”). An-che la funzione di tali correnti di pensiero è trasformata. Un tempo, esse esprimevano la “nostalgia” del passato – e la paura, il timore, del futuro – di strati sociali travolti dallo sviluppo capitalistico.
    Attenzione, che andando avanti di questo passo, ci troveremo a legittimare il capitalismo come funzionale alla società comunista e socialista, cosa che, a mio avviso, ci porterebbe completamente (e di nuovo...) fuori strada...

    In questo senso, il “socialismo romantico” era reazionario, perché voleva frenare l’evoluzione storica, voleva arrestare la dinamica del capitale, protraendo all’infinito l’esistenza della piccola produzione mercantile.
    Qui c'è un problema di fondo: si parla di "evoluzione storica"... A questo punto continuiamo l'evoluzione storica che vede un mondo di capitale finanziario, con tanti "bei" centri commerciali, bombe a grappolo in mezzo mondo per risanare l'economia del tardo-capitalismo statunitense e così via... Ma per favoreee!! Sarò pure reazionario, ma preferisco mille volte la piccola economia legata al primario ed al secondario che quella del terziario avanzato, in cui non si produce più nulla di effettivo e si specula solo sui risparmi della gente!

    Ciò sarebbe stato intanto poco utile e anzi negativo, perché avrebbe bloccato la crescita (non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa) delle forze produttive, avrebbe arrestato l’avanzamento scientifico e tecnico, impedito la rottura delle limitate e asfittiche comunità localisti-che di quel tempo, protratto quello che Marx definiva “idiotismo rurale”, ostacolato quello che è in-vece stato l’esponenziale infittirsi dei viaggi e contatti – e la loro crescente velocità e frequenza – tra tutte le popolazioni del globo.
    Posso accettare il discorso che fa La Grassa sull'avanzamento scientifico (anche se resto convinto che non tutte le scoperte scientifiche portino il bene della Comunità umana ed animale), ma di quale crescita qualitativa parla?!
    Rompere le "limitate e asfittiche comunità localistiche di quel tempo"... A me risulta che l'Uomo ha sempre viaggiato e non s'è mai chiuso a riccio creando questo tipo di comunità... Mah...
    "Idiotismo rurale"... Ovviamente nessuno propone il ritorno al passato "mitico", peraltro mai effettivamente esistito, ma di sicuro uno STOP chiaro e semplice al continuo spostamento in avanti (o indietro?!) della nostra produzione capitalistica... A questo porta la decrescita.
    Il fatto che lo sviluppo abbia portato i contatti ad infittirsi, mi può star bene, ma il discorso sulla velocità già mi lascia perplesso, perché, se portato alle sue estreme conseguenze, porterebbe all'accettazione del sistema attuale, fatto di TAV TGV, etc...

  6. #6
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    Oltre a questo, era ormai del tutto impossibile, sulla base della produzione mercantile generalizzata, mantenere regolamentazioni corporative, proibendo la concor-renza che comportava la concentrazione della produzione e dei capitali, l’aumento delle dimensioni delle unità produttive con crescente introduzione di macchine e sistemi di macchine, ecc.
    Era impossibile? Eppure nella nostra fase capitalistica quelle regolamentazioni "corporative" ci sono sempre - in forma diversa, ma sempre presente -. Basterebbe solo analizzare la realtà sindacale italiana... Io sono proprio contro la concorrenza nella produzione... Le macchine devono servire a migliorare la nostra vita, non a distruggerla!

    Oggi, quei tentativi di arrestare l’evoluzione dei sistemi capitalistici non avrebbero più senso, nessuno potrebbe mai pensarci; solo qualche storico è in grado di ricostruire il clima di quelle epo-che lontane.
    Ma sì dai, allora buttiamoci tutti nelle braccia del capitalismo e il gioco è fatto...

    I viaggi e i contatti tra le più distanti contrade e popolazioni sono la norma, il localismo è un fenomeno del tutto residuale e ultramarginale.
    Peccato che la maggior parte dei viaggi siano di massa e contro quel turismo responsabile (o sostenibile) che quelli come me propongono e stimolano. Anche il turismo dovrebbe uscire dalla logica capitalistica per poter essere intelligente e utile, non nel senso economico, ma culturale.

    L’avanzamento tecnologico è un dato di fatto e praticamente nessuno (qualche pazzo isolato lo si trova sempre in ogni epoca) intende porsi in un orizzonte che non contempli i computer e l’informatica, le telecomunicazioni; e fra poco la robotica e un po’ più avanti magari i viaggi interplanetari, e via dicendo.
    L'avanzamento tecnologico è importante solo se contribuisce a migliorare la vita, non a distruggerla. In questo caso, io sono un fiero assertore del NO alle MANIPOLAZIONI GENETICHE, che magari piacciono al nostro La Grassa, per via della bontà del progresso sempre e comunque.

    Il “romanticismo” odierno esprime ben altre paure – così ben evidenziate, in ogni successiva epoca dello sviluppo capitalistico (da quella meccanica a quella elettrica a quella informatica e robotica), dalla letteratura e poi dal cinema fantascientifico – e su queste fa leva per ottenere comunque vantaggi a favore delle classi dominan-ti; e non è un caso che perfino alcuni importanti personaggi, appartenenti agli strati più elevati di ta-li classi, partecipino a pieno titolo alla diffusione del “romanticismo” in questione, pagando pubbli-cazioni, film, spettacoli televisivi e schiere di intellettuali in giro a tenere seminari e conferenze, per paralizzare e deviare le possibili reazioni di massa contro il potere, distogliendo l’attenzione dalle strutture sociali della loro dominazione, vera causa delle sofferenze, dell’oppressione, dello sfrutta-mento, dei dominati.
    Non è che si capisca bene dove voglia andare a parare...

    Di conseguenza, nell’epoca attuale il romanticismo economico-sociale non è fondamentalmente reazionario, non rappresenta in realtà un freno allo sviluppo. Tutto avanza comunque velocemente; i costumi e le abitudini, la mentalità collettiva, la morale, ecc. subiscono continue e veloci trasforma-zioni (certamente non in meglio, a mio avviso), in concomitanza con l’esponenziale e inarrestabile progresso della tecno-scienza, che molti disprezzano, criticano, sostenendo – e, sempre secondo la mia opinione, talvolta a ragione – che essa è causa di imbarbarimento, ma di cui tutti (salvo margi-nali e lamentevoli eccezioni) sfruttano le occasioni e le nuove possibilità apertesi.
    Ma infatti dobbiamo utilizzare in senso rivoluzionario le scoperte scientifiche, ma non certo per farci distruggere dalle stesse!!! Ma è così difficile da capire?!

    Certe correnti di pensiero “romantiche” non esprimono più, come un tempo (nella fase tutto sommato ancora iniziale dello sviluppo capitalistico), la presenza di vasti strati sociali ereditati dalla passata formazione so-ciale, bensì sono indice della “falsificazione” delle previsioni marxiane relativamente ai risultati “finali” della dinamica del capitale. Come ho fatto presente ormai molte volte, quest’ultima non ha condotto alla tendenzialmente netta scissione dicotomica della società: il piccolo gruppo di rentier ad un polo, e la gran massa dei lavoratori salariati (del braccio e della mente) all’altro polo. Abbiamo una società estremamente di-versificata (segmentata e stratificata) e in continua complessificazione (e complicazione). La fram-mentazione e dispersione dei frammenti nello “spazio sociale” (idealmente formato da segmenti e strati) è una dinamica provocata da processi di differente intensità e durata; ci sono periodiche grandi ondate di innovazioni, tra le quali si situano periodicità più brevi caratterizzate da minori on-de di “progresso”. Tutto questo movimento non è semplicemente impersonale e autopropulsivo co-me si vuol far credere, spesso con i riferimenti al “sistema” e alle sue “leggi”. Certo, esiste un si-stema ed esiste qualcosa di (assai vagamente) simile a delle leggi (vere leggi non sussistono proba-bilmente nemmeno in natura; oggi molti ne sono convinti). Tuttavia, le ondate innovative di diversa periodicità, ampiezza e forza, trovano – o anche creano – i soggetti che le realizzano; e le modalità di questa realizzazione rinviano al conflitto per il predominio, conflitto in cui non sono affatto tutti eguali, ma una minoranza è quella che veramente cavalca il cambiamento e ne gode i maggiori van-taggi in termini di conquista della preminenza.
    Punto apprezzabile e condivisibile.

    In questo convulso “progredire” – che fa del capitalismo una società particolarmente “calda” – ci sono parti sociali che regrediscono e decadono e altre che avanzano e prendono il davanti della scena in ogni nuova grande epoca dello sviluppo (ondata innovativa) della società. Per evitare che in questi periodici, ma continui, “strappi in avanti” si producano gravi lacerazioni e disgregazioni del tessuto sociale, occorre la presenza di una ideologia a duplice faccia, e i cui due suoi aspetti sia-no in reciproca simbiosi (siano le due facce della stessa medaglia): il lato del successo e della cre-scita di peso sociale in quanto merito (presunto) delle proprie (pretese) superiori capacità intelletti-ve e di veloce adattamento alle nuove condizioni; e il lato del relativo arretramento e diminuzione di rilevanza dei propri ruoli, processi attribuiti (per “consolarsi”) alla maledizione e fatalità legate al “mostruoso automa” del progresso tecnico-scientifico. L’importante è che tale ideologia renda impossibile la visibilità, l’individuazione, dello strato sociale (minoritario) costituito da quei “soggetti” che di fatto, tramite il loro conflitto per la supre-mazia (e le modalità “perverse” dello stesso), sono i portatori delle funzioni che danno impulso alle suddette ondate innovative. In questo modo, viene di fatto sterilizzata ogni volontà di reale trasfor-mazione della struttura sociale che vede il dominio di gruppi (ristretti) costituiti dagli agenti strate-gici del suddetto conflitto.
    Ho provato a rileggere il passaggio, ma non l'ho capito... Help me...

    La “lotta di classe” – che, nel marxismo, era considerata sempre più netta e irriducibile, di carattere rivoluzionario, poiché si supponeva la chiara scissione della società in due raggruppamenti (uno sempre meno numeroso, l’altro in continuo allargamento), con crescente visi-bilità dell’uno agli “occhi” dell’altro – diventa in realtà molto meno perspicua, nient’affatto rivolu-zionaria, quand’anche raggiunga alti livelli di acutezza.
    Finora è stato così...

    In realtà, non si tratta mai di lotta di classe – che presupporrebbe appunto lo scontro tra due classi decisive – ma di conflitto tra varie parti della società (segmenti e strati) per conquistare migliori posizioni nell’ambito della stessa che, nella sua evoluzione, è comunque sempre caratterizzata in senso capitalistico. E’ in quest’ambito, sommariamente delineato, che acquista significato il “neoromanticismo”. Non più semplicemente economico, bensì più generalmente sociale; ed esso rappresenta uno dei lati dell’ideologia di cui sopra: il lato della “consolazione” per coloro che si trovano in relativo arretra-mento – o che comunque conseguono un assai minor successo – nell’ambito delle periodiche (e di diversa periodicità) ondate innovative connesse all’acuirsi (in specie nelle epoche che definisco po-licentriche) del conflitto tra agenti dominanti per la supremazia.
    Praticamente sarebbero "Neoromantici" tutti i dominati... Certo che, se GLG continua a non parlarci mai dei dominati, mi sa che sarò difficile parlare di rivoluzione e terze forze...

    2. Nella situazione sinteticamente appena descritta, il romanticismo economico presenta aspetti svariati e multiformi, ed è in genere orientato e patrocinato dai gruppi dominanti, poiché costituisce uno dei lati dell’ideologia che consente la loro preminenza nell’ambito della totalità sociale. Una egemonia che deve lasciar largo posto alla competizione (“stato d’animo” fondamentale per la ri-produzione capitalistica), e tuttavia anche allo sfogo delle frustrazioni dei segmenti e strati sociali in relativo calo di peso e importanza rispetto ai nuovi che emergono nelle periodiche ondate innovati-ve.
    ...eh sì, parla proprio dei dominati come "neoromantici"...

    L’egemonia non è più quella considerata da Gramsci in una società ancora agrario-industriale; è invece quella necessaria in una società a ormai netta prevalenza industriale e dei servizi, dove im-portanti non sono più le “alte” correnti culturali (e i “grandi intellettuali”), bensì l’articolarsi degli “specialismi” nel progressivo frammentarsi “a scatti” della società in seguito alle più volte citate ondate innovative.
    Questo è giustissimo!

    Per questo diventa assai più complicato individuare i connotati e sintetizzare le posizioni dei nuovi “romanticismi” (ormai al plurale). Prendiamone velocemente ad esempio uno che ha avuto nel nostro paese grande fortuna e rilevanza: quello sintetizzato dal “piccolo è bello”, oggi piuttosto démodé e criticato in “alto loco”. Non si è trattato di una ideologia originatasi dalla resistenza della piccola produzione mercantile all’avanzata della grande industria basata sulle macchine, bensì della forma specifica assunta dall’accumulazione del capitale nella trasformazione dell’Italia da società agrario-industriale a prevalentemente industriale.
    ...ah, perché l'Italia sarebbe una società prevalentemente industriale?! Mah...

    E’ in questa fase che si sono create le illusioni comuniste sul compattarsi degli operai in una classe fortemente maggioritaria, interessata alla tra-sformazione rivoluzionaria del capitalismo e in grado di realizzarla. La violenza della “lotta di clas-se” era in realtà solo il riflesso del forte disagio dei contadini che si andavano trasformando in ope-rai di fabbrica, con tutti i fenomeni conseguenti all’urbanesimo, alla concentrazione del lavoro sala-riato (di tipo esecutivo, privo di specializzazione) in aree ristrette e malsane, ecc. (per questi feno-meni è meglio rifarsi alla letteratura, e al cinema, che a certi trattati di spicciola sociologia).
    Ineccepibile...

  7. #7
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    L’Italia ha anch’essa attraversato questo periodo (in specie negli anni ’60 e ’70 del secolo scor-so), in cui i comunisti e marxisti (me compreso) hanno pensato si andassero accumulando le condi-zioni di una possibile rivoluzione. Non solo questo non era vero, ma nel nostro paese certi fenomeni sono stati accompagnati, e alla fin fine socialmente attutiti, dal fatto che – nel mentre si sviluppava l’industria “fordista” (in specie metalmeccanica: automobili, elettrodomestici, ecc.), nel mentre le forze dette “operaie” (PCI, CGIL, ecc.), rimbambite dalla secolare credenza che la statizzazione fosse l’anticamera del socialismo, appoggiavano lo sviluppo dell’IRI, dell’industria di Stato (in fun-zione sedicente antimonopolistica) – le classi dominanti, avendo trovato la loro migliore espressio-ne politica nel centrosinistra di allora (DC-PSI), promuovevano appunto uno sviluppo diffuso della piccola imprenditoria ben adagiata e complementare rispetto alla grande, di cui costituiva (almeno per la maggior parte) il supporto, il cosiddetto “indotto”. Vi erano però anche le sedicenti produzio-ni di “nicchia” (da qualcuno spiritosamente ridefinite “di minchia”); e tutto l’insieme imprimeva
    comunque forte impulso ad una sorta di “autosfruttamento” (chi produceva pervaso dall’ideologia dell’essersi “messo in proprio” si prodigava ben oltre i normali orari e intensità del lavoro) e anche alla creatività del piccolo imprenditore, dando origine ad una serie di innovazioni (di prodotto e di processo) poi sfruttate dalle maggiori imprese (leader). Non si trattava però mai delle vere grandi ondate innovative sunnominate; solo modeste novità, comunque sufficienti ad incrementare la pro-duttività e la produzione, i consumi e l’ampiezza dei mercati, la creazione di profitti e dunque l’accumulazione capitalistica complessiva.


    Tutto abbastanza condivisibile, ma nello scritto sulla Terza Forza, non dice espressamente di sostenere l'ENI, etc.?! Allora non è cambiato niente... Boh?!

    Soprattutto – questa l’effettiva rilevanza del fenomeno – fu creato uno scudo (sociale) protettivo del grande capitale. Nessun comunista (e marxista) si accorse che le grandi lotte, sia contadine (bracciantili) che operaie (soprattutto nelle aree settentrionali di immigrazione dei contadini meri-dionali in marcia verso la condizione operaia), andavano progressivamente smussandosi contro una crescente massa sociale costituita di piccoli proprietari (il lavoro detto autonomo), mentre si forma-va nella grande industria una serie di non esigui strati di specialisti e manager di medio livello. La famosa marcia dei 40.000 quadri d’impresa, che nel 1980 segnò la sconfitta del movimento operaio alla Fiat, è stata un preciso simbolo oltre che segnale di un cambiamento decisivo che i miseri (e miserabili) resti dei comunisti e marxisti si rifiutano ancor oggi di vedere.
    Non tutti...

    Tale cambiamento, per-durante ormai da più di vent’anni, ha però prodotto anche la progressiva usura del “piccolo è bello”, il calo d’importanza – a fini di stabilità sociale non meno che di sviluppo economico grazie al sud-detto “autosfruttamento” – della diffusione di un ceto lavoratore piccolo-proprietario, all’interno del quale si sono andati producendo crescenti fenomeni di stratificazione nettamente diversificata quan-to a livelli di reddito, a status sociale, ecc. Siamo in qualche modo ad un passaggio cruciale, incardinati oggi in questa Unione Europea che non rappresenta per nulla, come si è riusciti ideologicamente a far credere alla maggioranza della popolazione, un’ancora di salvezza per noi (è anzi l’esatto contrario, pur se non avrebbe più senso a questo punto battersi per la nostra uscita da un simile baraccone e immondezzaio).
    Interessanti le premesse storico economiche - come sempre -, ma inaccettabile la proposizione per cui non avrebbe senso uscire dalla UE...

    Del resto, se l’appartenenza alla UE non ci aiuta gran che, bisogna ben dire che noi siamo ad essa ormai omoge-nei, solo con tutti i suoi “vizi” portati all’ennesima potenza. La grande impresa statale è sempre stata in Italia un supporto di quella privata (paradigmatiche le Acciaierie di Cornigliano Ligure che fornivano materia prima sottocosto alla Fiat), salvo alcuni “gioielli”, come l’ENI di Mattei che funzionava con tutte le regole dell’efficienza e della dirigenza manageriale di una qualsiasi grande impresa (indipendentemente dalla forma giuridica della pro-prietà). Le “privatizzazioni” delle imprese pubbliche, a partire soprattutto dagli anni ’90, non hanno perciò cambiato nella sostanza la complessiva struttura della grande industria italiana.
    Peccato che ci si dimentica di scrivere che la privatizzazione ha portato alla costituzione delle imprese multinazionali ed all'abbandono dell'industria italiana... Nazionalizzare è l'unico passo per riprendere in mano la nostra economia!

    Il problema vero è costituito dalla sua irreversibile decadenza poiché essa è formata da grandi imprese di settori che non sono più quelli della nuova ondata innovativa (come, nel dopoguerra, furono quelli fordisti, ad es. il metalmeccanico). Oggi, incredibilmente, la subordinazione dell’Italia all’egemonia impe-riale statunitense è ancora maggiore di quella esistente nelle disastrose condizioni susseguenti ad una guerra in fondo persa (malgrado le giravolte dell’ultima ora).
    Gli U.S.A. applicarono benissimo la loro teoria capitalistica, con l'operazione "Marshall"... Oggi ne paghiamo ancora le conseguenze, nonostante ci abbia effettivamente parato il culo all'epoca...

    Probabilmente gli equilibri inter-nazionali esistenti tra il 1945 e il 1989-91, che si riflettevano su quelli interni, lasciavano qualche piccolo margine di autonomia e di sviluppo autoctono con trasformazione profonda della struttura economica e sociale dell’Italia d’anteguerra (quella cui meglio si adattavano le analisi gramsciane). Il crollo del campo “socialista” e la dissoluzione dell’URSS, liberando le potenti forze “rinnegatri-ci” accumulatesi nel PCI in tanti anni di reiterate abiure, permise il cambio di regime in Italia con la formazione della destra e della sinistra post “mani pulite”, da me già analizzate e criticate più volte per cui mi esimo dallo spenderci qui troppe parole. Sono queste forze politiche a garantire una su-bordinazione agli USA tale da impedire lo sviluppo di grandi imprese nei settori più innovativi e strategicamente rilevanti (salvo i soliti casi rari).
    Quali sarebbero questi casi?

    Aggiungo solo che non può esservi alcun dubbio sul fatto – colto da pochissimi, fra cui Preve e il sottoscritto ne Il Teatro dell’assurdo (fine ’94, inizio ’95), e ancor oggi ignorato da quasi tutti (salvo Cossiga) – che il sunnominato cambio di regime fu promosso dagli USA e si basava, nelle intenzioni iniziali, sulla possibilità di stabilire la propria egemonia imperiale tramite i rinnegati del comunismo (oggi diessini), così come si fece in seguito, per ondate successive, in Georgia e Ukrai-na (con le rivoluzioni “arancione”, per fortuna largamente rifluite), nelle repubbliche centroasiati-che, ecc. Attualmente, destra e sinistra sembrano differenziarsi nettamente quanto a servilismo filo-USA (e filo-Israele), con la sinistra che finge maggiore autonomia; ma solo perché destra e sinistra si ricollegano a settori diversi dell’imperialismo americano. La sinistra non ha affatto maggiore di-gnità e senso nazionale della destra; è solo anti-Bush perché mira a porsi in posizione di vantaggio qualora avvenisse tra due anni il cambio di “amministrazione” nelle presidenziali statunitensi. In de-finitiva, la sinistra coadiuva l’inganno – perpetrato anche da squallidi personaggi tipo un Michael Moore (o il nostro Negri) – secondo cui l’imperialismo americano sarebbe soltanto una politica per-seguita da questa presidenza, politica orientata dall’attuale strategia particolarmente aggressiva.
    Molto bene!

    Ancora una volta si constata che i “sinistri” (in specie estremi), e certi falsi critici dell’imperialismo americano (pardon, dell’Impero senza specificazioni!), sono quasi più infidi e pe-ricolosi della destra o della sinistra detta riformista, perché spargono illusioni su una possibile rige-nerazione di quella che resta ancor oggi la potenza egemone centrale del sistema capitalistico mon-diale; e che non abbandonerà certo spontaneamente simile posizione – legata a motivi strutturali, non a mere scelte politiche – pur se adatterà i suoi tatticismi alle mutevoli condizioni internazionali. Certi critici riprendono, con modalità ancora più torbide nonché superficiali, le vecchie tesi di autori come il “borghese” Hobson e il “rinnegato” Kautsky, per i quali l’imperialismo era solo una politica dovuta alla temporanea prevalenza dei gruppi capitalistici “più arretrati”. Sarebbe sufficiente la pre-valenza dei “più moderni” ed ecco che l’imperialismo, e oggi le tendenze egemoniche globali statu-nitensi, andrebbero “in soffitta”. Attenti a certi pensatori e a certi politici: alcuni sono solo confusi e superficiali, altri invece subdoli e ingannatori, e si trincerano dietro un linguaggio populista roboan-te e “radicale”, ma assolutamente inconsistente e privo sia di rigore scientifico che di pregnanza po-litica.
    Bravo!!!

  8. #8
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    3. Torniamo però all’Italia dell’epoca odierna e ai suoi lineamenti strutturali. Una grande indu-stria tendenzialmente decotta o comunque attiva per lo più in settori non di punta, non relativi alle branche della più recente ondata innovativa.
    Sicuramente obsoleta, visto che continua a puntare su produzioni che in Cina costano un terzo, come nel settore automobilistico...

    Ovviamente, non è che queste branche manchino del tutto; alcune imprese di eccellenza, quali la solita ENI e la Finmeccanica e alcune altre, ci sono. Tuttavia, esse non sono veramente integrate nel sistema complessivo, i loro gruppi dirigenti non fanno parte dell’establishment al momento dominante; in Italia, logicamente, poiché sul piano in-ternazionale quest’ultimo non è per nulla autonomo rispetto all’egemonia americana. La dipendenza (meglio detto: subdominanza) italiana, su cui non mi diffondo in questa sede, è caratterizzata dal predominio del grande capitale finanziario – anch’esso legato e subordinato alla finanza del paese centralmente preminente – il quale usa la sua influenza politica per piegare gli apparati di Stato ad una azione di sostanziale “rapina”. Non si tratta, sia chiaro, della classica estrazione di plusvalore, secondo i meccanismi individua-ti da Marx, poiché quest’ultima non è affatto un furto, bensì la forma “storicamente specifica” (ca-pitalistica) dello sfruttamento (ottenimento di pluslavoro) dei dominati da parte dei dominanti, pro-cesso caratterizzante ogni formazione sociale finora esistita. Abbiamo invece a che fare con un me-ro trasferimento di una parte del reddito (già prodotto) e con il suo accentramento verso il vertice della piramide sociale, ottenuto tramite il funzionamento degli apparati finanziari e di quelli statali (comunque “pubblici”, compresi quelli “locali”), complessamente intrecciati fra loro.
    Analisi perfetta.

    Non è sempli-ce descrivere come tutta la “baracca” funzioni, ma comunque il risultato finale è la subdominanza di gruppi capitalistici che garantiscono la subordinazione italiana agli USA, in quanto pedina di un più complesso gioco geopolitico che attualmente conduce tutti i subdominanti europei sotto la premi-nenza del paese egemone centrale. Tale gioco ha bisogno per il suo svolgimento, nei paesi denomi-nati appunto subdominanti (per non confonderli con quelli di autentica dipendenza): a) del predo-minio del capitale finanziario che, pur tra complicati intrecci, vede il ponte di comando situato negli USA; b) della sussistenza di una grande industria che non può però lanciarsi massicciamente verso i settori di eccellenza (che toglierebbero spazio a quelli americani), limitando la sua attività a quelli della passata epoca di sviluppo (ad es., ancora l’industria automobilistica, e metalmeccanica in ge-nere), settori che debbono allora essere “pubblicamente” assistiti per non implodere, creando pro-blemi all’economia complessiva di questi paesi subdominanti, con effetti che poi si riverbererebbe-ro negativamente anche su quello predominante e sulla sua egemonia globale. Nella nuova situazione che si è venuta a creare – fra l’altro con l’istituzione della moneta comu-ne europea, che ha messo fine alle svalutazioni della lira come mezzo di sopravvivenza e sviluppo del lavoro autonomo, del minuscolo imprenditore – quest’ultimo è entrato in situazione di difficoltà, di “arrancamento”. Si tenta di non farlo crollare, ma è ovvio che progressivamente ci si avvicina al punto in cui non si potrà più alimentarlo a dovere. I dominanti – quelli della centralità della finanza in labile alleanza (e sordo contrasto di interessi) con gruppi industriali non di punta – hanno dismes-so il “romanticismo” connesso al “piccolo è bello”; si inneggia adesso alle virtù dell’impresa media (non mai quella di grandi dimensioni, l’unica che potrebbe dare decisivo impulso ai nuovi settori di eccellenza).
    Ottima analisi, ma pessima conclusione. Non concordo affatto sull'ipotesi della grande industria per venir fuori dalla stagnazione e dalla situazione i dominazione da parte degli USA. Non foss'altro per la completa assenza di materie prime per la grande industria produttiva, che comunque vanno importate....

    Naturalmente, di questa impresa media vengono esaltate le capacità innovative (in po-chi casi d’avanguardia), l’apertura verso i mercati globali, lo staff manageriale integrato in una “classe medio-alta” internazionalizzata per la lingua parlata, per le abitudini contratte, per i posti che frequenta, ecc. Una “classe” che in realtà copia tutti i peggiori tic di quella più alta (della finan-za e della grande industria “asfittica”) e si sente, anche culturalmente, legata a quella dominante sta-tunitense. In realtà, questa middle class (nei fatti, più alta che media!) non ha proprio nulla a che vedere con qualsiasi forma di “romanticismo”; crede generalmente nel progresso tecnico, nella sua funzione manageriale che si fonda su di un forte avanzamento specialistico (e su più fronti). Le medie imprese sono però in Italia 4000; mentre le partite IVA, i lavoratori autonomi, supera-no i sei milioni. La grande finanza e i settori industriali bisognosi di assistenza pubblica puntano ormai a “pelare” questi ultimi, non tanto per questioni di debito pubblico e deficit – che rappresen-tano la solita copertura ideologica delle malversazioni e “rapine” effettuate nei confronti di tali ceti – quanto per la necessità di sostenere in qualche modo i gruppi grande-imprenditoriali decotti, di manovrare per fusioni e concentrazioni (o scorpori fittizi quando ciò occorra per esigenze tattiche) soprattutto nel settore finanziario, tenuto conto della competizione in atto tra i subdominanti (euro-pei e italiani) e delle contropartite da dare ai predominanti centrali onde mantenere in piedi i rappor-ti di forza geopolitici attuali. Si tratta di asciugare di un bel po’ il reddito del lavoro autonomo, del resto ormai molto differenziato tra i suoi vari strati, senza più nemmeno l’ideologia galvanizzante di un tempo. Ci si riesce momentaneamente mettendo i salariati contro gli autonomi. In realtà però, come dimostrano le indagini sul voto operaio (che è andato in misura sorprendente verso destra), ci si riesce al momento tramite un’alleanza (tattica e di non ampio respiro) tra i grandi blocchi finan-ziari e le grandi imprese industriali (quelle bisognose di assistenza pubblica), da una parte, e gli ap-parati sindacali (cooptati nel potere dai subdominanti) che controllano una buona quota del lavoro salariato, dall’altra; e tuttavia, anche quest’ultima appare in fase di “scontentezza” crescente. In realtà, si è al presente ben lontani dalla possibilità di costituire dei veri blocchi sociali, che siano formati dall’alleanza tra più strati della popolazione, tenuti insieme da una forte ideologia di identificazione, di creduta comune appartenenza. Lo scollamento appare invece notevole; anche la destra, nei suoi tentativi di rappresentare il crescente disagio e malcontento (vicino alla rabbia) del sedicente “ceto medio” – si tratta invece, lo ripeto, di lavoro autonomo, ormai molto diversificato in tanti strati con livelli di reddito nettamente differenti – non ottiene (per fortuna) gran successo; ha recentemente organizzato una indubbiamente vasta mobilitazione con manifestazione, ma ha poi dimostrato di non possedere la minima idea di come gestire la situazione. Il centro-sinistra (che va dall’ultradestra Udeur ai sedicenti radicali che “indossano” ancora la denominazione di comunisti) è più o meno nelle stesse condizioni; è avvantaggiato dall’avere l’appoggio della grande finanza e della grande imprenditoria industriale decotta, ma tiene in piedi l’insieme solo tramite la corruzione, le clientele, i favoritismi, i plurimi rivoletti di denaro sprecato in varie direzioni: comprese quelle
    verso stampa, editoria, cinema e una miriade di associazioni “culturali” (senza cultura), ambientali-ste, assistenziali, di centri sociali, di piccole e inefficienti attività di servizio, ecc. Il vero collante del “baraccone” è il marcio dilagante, sempre più putrido e dispendioso di soldi pubblici (nel men-tre si tuona sulla necessità di ridurre la spesa pubblica per pensioni e sanità, onde alleviare il famoso debito, il deficit, ecc.).


    Ottimo e commovente...peccato che abbia messo in mezzo un po' troppi aspetti alla fine (quando parla delle associazioni sovvenzionate)...

  9. #9
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    4. In definitiva, manca ormai da tempo (dall’epoca della fine della prima Repubblica) un vero collante ideologico (in positivo) che tenga insieme più gruppi sociali sotto l’egemonia di date fra-zioni dei subdominanti italiani. Per questo non si è mai veramente transitati alla seconda repubblica; scarsa è la coesione sociale, non vi sono più progetti strategici, per quanto magari miserrimi. Nella sfera economica abbiamo le sanguisughe della GFeID (grande finanza e industria decotta); in quella politica gli attuali schieramenti di destra e sinistra, esito disastroso del ricambio di regime (orientato dagli USA) iniziato con l’operazione “mani pulite” e continuato in mezzo a convulsioni, mutamento di nome dei partiti, inarrestabile processo di loro scissione e riaccorpamento, incessanti cambi di “casacca” anche a titolo individuale, ecc. Il degrado velocissimo, lo sbriciolamento politico-culturale, il galleggiamento nella me…lma, cui stiamo assistendo, si spiegano solo con la totale perdita di una qualsiasi presa ideologica da parte di scandalose lobbies di tipo mafioso che mostrano alla luce del Sole la loro totale assenza di moralità e il perseguimento di interessi che sono soltanto i loro. Fenomeni del genere avvengono anche negli altri paesi europei (un’area complessivamente in decadenza); tuttavia, da noi essi sono più evidenti e segnalano un corrompimento estremo degli af-fari, della politica, della cultura. Solo alcuni altri paesi dell’Europa orientale (ex “socialisti”) tengo-no forse il nostro passo veloce verso il pantano. Possiamo dunque prevedere un periodo assai lungo, e difficilmente reversibile, di totale incapa-cità egemonica dei gruppi subdominanti italiani, agenti ai vertici delle varie sfere sociali. Come o-perano allora tali gruppi onde resistere il più possibile nelle loro posizioni di preminenza? Non sono in grado di svolgere una positiva funzione di coesione dei vari segmenti e strati sociali, o almeno di una loro consistente parte, attraverso l’azione ideologica. L’unica alternativa è quella di impedire che sorgano contro di loro determinati organismi in grado di raccogliere il diffuso malessere popo-lare, di dargli la forma necessaria a innescare un’azione dirompente nei confronti di “classi” premi-nenti ma non più veramente dirigenti. Da una parte abbiamo il formarsi di quella middle class (più alta che media) di cui si è già parlato; un ceto sociale in definitiva esile sia come consistenza nume-rica, ma soprattutto incapace di rappresentare un esempio e un traino per altri segmenti e strati, poi-ché si tratta di un corpo sostanzialmente estraneo al più complessivo tessuto sociale nazionale, per quanto questo sia lacerato e consunto. Il vero impedimento al coagulo di forze in grado di sbreccia-re il potere dei subdominanti – lasciando per il momento sullo sfondo le rispettive probabilità di successo di una “rivoluzione” dentro o contro il capitale – è rappresentato dal diffondersi di una ve-ra e propria costellazione di “neoromanticismi”, che qui non analizzo limitandomi ad una succinta elencazione. Abbiamo le “teorie” (sto usando un termine pomposo per “stati d’animo” confusi e velleitari) della decrescita e della sfiducia nei confronti della disprezzata tecno-scienza, stati d’animo che a volte osano spingersi fino a propositi di “sviluppo sostenibile” (dizione assai generica dove ci può stare di tutto).
    Come sempre, ottim epremesse ed analisi, pessima conclusione!
    Mi sa che GLG non ha idea di cosa sia la teoria della decrescita o, meglio, LE teorie della decrescita!!

    Contrariamente a quello che alcuni pensano (ivi compreso l’amico Preve), tali cor-renti di pensiero non sono da criticare (benevolmente) soltanto perché non prendono in considera-zione i problemi relativi all’esercizio di una autentica opposizione alla predominanza americana, che esige la padronanza di strumenti “di potenza”. Questa necessità è soltanto una parte del proble-ma; importante, ma meno di quanto non lo sia un fatto assai più decisivo. Da simili posizioni scatu-riscono attività politiche di programmatico minoritarismo, prive della possibilità di influenzare e trascinare dietro di sé il grosso delle popolazioni dei paesi capitalistici avanzati: tipo quella italiana, ed europea in genere, con la conseguenza, sempre più visibile, dello scivolamento progressivo delle nostre società verso la subordinazione ai progetti di preminenza globale statunitense, sia che questi ultimi vengano portati avanti con le attuali strategie fortemente aggressive o, un domani, con altre più flessibili e “avvolgenti”. La critica verso tali “teorie” deve quindi essere assai aspra e senza mezzi termini. A scanso di equivoci, sia chiaro che non c’entra nulla il disinteresse per le questioni del dissesto e degrado ambientale, ecc., su cui quando avrò tempo preciserò meglio la mia posizio-ne. Intanto, però, critico duramente chi maschera dietro le preoccupazioni per tale degrado un atteg-giamento tendente a sviare l’attenzione dalla ben attuale degenerazione politica e sociale, dal mara-sma creato dai nostri subdominanti ormai in piena crisi di egemonia. Le tesi della decrescita sono però solo una delle numerose forme di neoromanticismo dei tempi nostri, tutte particolarmente fastidiose e molto squallide (povero Lenin se avesse dovuto avere a che fare con queste invece che con quella degli “amici del popolo”).
    O mamma miaaa!!! Ma stiamo scherzando!?! Ma ha mai visto quante sono le associazioni che promuovono la decrescita e che si muovono in questo ambito, pur non sapendolo?! Muovono centinaia di migliaia di persone!!! Pensate a tutti i gruppi di volontariato vicine all'ambientalismo! Basterebbe solo spingere un po' più in là tali teorie, per portarle alla completa rinuncia del capitalismo ed alla presa di coscienza per un futuro socialista e comunista!!! Non riesco a rimanere calmo quando leggo analisi perfette e conclusioni errate...

  10. #10
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    Ricordo velocemente le chiacchie-re – in cui erano particolarmente versati i “rifondaroli” prima di divenire molto “istituzionali” – sui “movimenti” e “il Movimento dei movimenti”; poi quelle sull’economia solidale, sulle banche eti-che, sulle organizzazioni (fraudolente) che amministrano aiuti ai diseredati del fu terzo mondo (vere e proprie elemosine, molte delle quali dirottate chissà dove). Non parliamo dei social forum e altre riunioni per la “salvezza del mondo”, dove centinaia di intellettuali, grandi e piccoli, vanno a “far vetrina”, girando il mondo 365 giorni l’anno; e non so chi paga loro i viaggi, la ristorazione e l’alloggio (e sono convinto che i più famosi, e venditori di fumo, godranno anche di non modesti cachet). E dove mettiamo le “moltitudini” che si ribellano, nella testa di chi racconta tali frottole, all’Impero (che forse è quello di “guerre stellari”, tanto distante è dalla strutturazione geopolitica del mondo reale odierno)? Più serie appaiono almeno alcune (non tutte le) correnti del “volontaria-to”; l’importante è però che non si creda di sopperire con ciò alla presente carenza di teoria e prassi tese ad un radicale anticapitalismo e antiegemonismo (americano). Purtroppo, a fronte di questi ambienti politici e intellettuali letteralmente truffaldini – e che dai loro inganni e raggiri, fatti di idee torbide e fumose, traggono finanziamenti non esigui da parte dell’establishment privo di egemonia di cui si è detto – stanno i comunisti e marxisti “duri e puri”, quelli che ancora credono nella “Classe”, rancorosi e sempre in lite fra loro, in continua scissione persino da se stessi. O i terzomondisti, sempre “fedeli nei secoli”. E infine i pacifisti, i cultori della non violenza, che consentono a furbastri come il nostro attuale Ministro degli Esteri di fare un figu-rone, dimostrando alla grande maggioranza della popolazione quanto lui è “concreto” e “pragmati-co”, di fronte a velleitari e inconcludenti chiacchieroni: alcuni sicuramente in buona fede, altri au-tentici mascalzoni che recitano il “controcanto” rispetto ai “realisti” delle “missioni di pace”, non contrastate “nemmeno da Cina e Russia” (tornerò presto nel blog su questa demagogica uscita del “velista” che naviga agli Esteri). Non si può essere benevoli verso tutta questa genia che passa per “sinistra radicale” o anche “e-strema” e perfino “rivoluzionaria”.
    Sebbene abbia una qualche ragione nelle critiche muove a questa gentaglia, non si può buttare al vento l'esperienza di milioni di persone all'interno di tali associazioni. Dovremmo farne tesoro ed entrarci in contatto, per costituire quella rete di consenso di cui abbiamo tutti bisogno per far politica. Ma di questo, il buon GLG se sbatte allegramente, impegnato a vedere i movimenti dei dominanti e dei subdominanti e tralasciando completamente i dominati...

    In un’epoca storica, in cui i gruppi dominanti di quest’area in decadenza che è l’Europa, ma soprattutto in questo nostro paese del tutto dissestato, sono ormai all’asfissia per quanto riguarda la presa egemonica, in cui quindi non vi sono affatto reali blocchi sociali orientati ideologicamente da effettivi vertici dirigenti, quest’accozzaglia caotica e informe di neoromantici e di dogmatici difensori del Verbo, pur esigua e infinitamente minoritaria, svolge la funzione di impedire la nascita dei primi “nuclei della trasformazione” (con l’obiettivo finale, e cer-to non prossimo, di abbattimento e sradicamento di queste nostre indecenti “classi” di subdominanti nelle diverse sfere sociali), creando così le condizioni del vero e attuale degrado – che è quello poli-tico e culturale – e consentendo quindi il protrarsi del predominio di “classi” (immerse nella palude della putredine e del ristagno, sociale più ancora che semplicemente economico), marcio fin dalle fondamenta, pur se si è entrati in una fase di crescente disagio e malcontento, conseguenti al peg-gioramento delle condizioni di vita dei più. Questi “sinistri estremi” – mi riferisco solo ai dirigenti politici e intellettuali, non all’insieme di “coloro che seguono” – non sono semplicemente “individui che sbagliano”, tutt’al più da neutraliz-zare. Si tratta invece delle prime trincee di difesa dei subdominanti italiani, arrivati alla più comple-ta carenza di capacità egemonica, quindi di formazione di un blocco sociale che dia stabilità al loro potere. Queste trincee debbono essere spianate, perché dopo di esse si incontra, nella maggioranza della popolazione, il malcontento, il sempre più difficile “tirare avanti”, la sensazione di essere in-cessantemente turlupinati dai cosiddetti “poteri forti”; esiste quindi qualche possibilità – una volta franata l’azione “deviante” compiuta dagli attuali “falsi critici”, che impedisce la formazione di ef-fettive organizzazioni (non “movimenti”) in grado di svolgere una autentica attività di trasforma-zione, adeguata alle condizioni dell’oggi – di procedere verso i bastioni, traballanti e marciti, di un potere certo opulento e pingue, ma indebolito dalla sua corruzione e inconsistenza di idee e di cultu-ra. I “sinistri estremi”, portatori dei “neoromanticismi” o del dogmatismo cristallizzato, sono quanto meno “oggettivamente” un ostacolo sulla via del cambiamento e del logoramento del presente bloc-co di (puro) potere finanziario-politico: che li foraggia infatti tramite mille canali (e non con solo denaro, ma con “onori” istituzionali e accademici, editoriali e massmediatici, ecc.). E sappiamo be-ne che, una volta “perso il tram della Storia”, subentra l’inedia, la rassegnazione, l’“arrangiarsi” in-dividualistico dell’“ognuno per sé”. Sono conscio del fatto che la maggioranza degli influenzati dai neoromanticismi e dal dogmati-smo sono animati dalle migliori intenzioni. Se così non fosse, non continuerei a tenere contatti so-prattutto con appartenenti a tali settori. La buona fede non cambia però i dati della situazione, e non può esimere dalle critiche contro dei nemici ideologici, e fra i più pericolosi. Essi influenzano una minoranza, è vero, e anche piccola; ma si tratta proprio di quella minoranza che potrebbe dar vita ai primi nuclei della lotta contro i subdominanti in crisi di egemonia. Quindi, questi dirigenti politici e gruppetti di intellettuali verminosi e infidi, che sono i “cattivi maestri” (e lo sono solo in tal senso) diffusori dei neoromanticismi e del dogmatismo, vanno apertamente combattuti e sputtanati (perché sono anche dei “venduti” di prima grandezza). Bisogna “passarli a fil di spada” (in senso metafori-co), senza di che non si riuscirà a liberare il campo per la costruzione delle prime “avanguardie” in grado di ripensare radicalmente nuove teorie e prassi anticapitalistiche, nonché di creare una più va-sta opinione contro la supremazia – di tipo imperiale e quasi neocoloniale – del complesso politico-finanziario statunitense, quello oggi predominante. 24 gennaio 2007
    Pur condividendo la critica radicale alla gentaglia da lui descritta, non accetto di certo il discorso generale che ha fatto GLG, secondo il quale quelli come me sarebbero affetti da "neoromanticismo economico-sociale".

    Bisognerebbe star davvero all'interno delle situazioni per poterle giudicare e a me non sembra che lui ci stia, perché quello che scrive è fuori dalla realtà attuale, a ben vedere. Ottime le analisi sulle alte sfere del potere. Meno buone quelle sulla realtà quotidiana. Pessimi i risultati cui arriva, senza peraltro dare consigli per una via d'uscita...ma sì, tanto dei dominati chi se ne frega?!

 

 
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