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    Dalla parte del torto!
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    Predefinito Dibattito sulla decrescita

    Manifesto del doposviluppo di Serge Latouche

    La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale. Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel mondo(il numero speciale della rivista "L'Ecologiste", Defaire le developpement, refaire le mondeII, n°,inverno 2001-2002, fa il punto sulla questione).
    Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell'economia e sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive dunque nel più amppio movimento dell'International Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD) e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro così cominciato.ll movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall'economicismo
    e, dall'altro, quelli che militano per un problematico "altro" sviluppo (o una non meno problematica "altra" globalizzazione).
    A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria "decostruzione" del pensiero economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc.
    Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale. Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande successo del colloquio di La ligne d'horizon , "Défaire le développement, refaire le monde", che si è tenuto presso l'UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze.

    Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti

    Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere che l'espansione della produzione e del consumo. La parola d'ordine della rete è dunque "Resistenza e Dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello sviluppo.

    Illusioni e rovine dello sviluppo

    L'attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.
    Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è - come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione che la segue - un'opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. È lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc.
    Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario, in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che possiede in comune con l'avventura occidentale del decollo dell'economia così come si è organizzata dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione capitalistico.
    Gli antagonisti di "classe" sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori" comuni ampiamente condivisi: il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante.
    Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde.
    Sono legati alla storia dell'Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia mondiale ci trascina. Il doposviluppo è al contempo postcapitalismo e postmodernità.

    I nuovi aspetti dello sviluppo

    Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equi…senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo, dell'etnosviluppo!
    Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in discussione l'accumulazione capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere.
    È l'eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo. Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992,è un tale "fai da te" concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.
    Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell'espertocrazia volontarista non ha più successo, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un miraggio.

    Oltre lo sviluppo

    Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. È parlare della situazione di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque, per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità.
    Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale. L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire nuove culture.
    Questo obiettivo può essere chiamato l'humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khaldn, swadeshi-sarvo-daya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i toucouleurs, o in altro modo.
    L'importante è esprimere la rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo. Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. È solo nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il doposviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.

    Decrescere e abbellire

    La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità.
    La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.
    Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio.
    Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.
    La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale.Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita.
    In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di crescita negativa! Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una "Società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare. Ispirandosi alla Carta su "consumi e stili di vita" proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto in un programma di sei "R":Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.Questi sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile.
    Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere cambiati.Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori.Per Ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare gli oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.
    Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C'è ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia.
    La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l'esercizio della cittadinanza.
    Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo della loro Storia dalla colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale.
    La riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all'esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all'agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può assumere per loro la costruzione del doposviluppo.
    In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria…) Il rischio è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e in particolare l'immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Penano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema. Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.

    Sopravvivere localmente

    Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, LETS e SEL(rispettivamente: Local Exchange Trading System,Gran Bretagna, e Systemes d'echanges locaux,Francia, sistemi di scambi locali di beni e servizi che non ricorrono al denaro, come le Banche del tempo),autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme di queste iniziative.
    Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato all'inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è e dev'essere diverso dal mercato mondializzato. È questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e approfondire una vera società autonoma ai margini dell'economia dominante.
    Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l'universo dove di muove e deve muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete dei "collegati" è la base del successo. L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è il segreto del successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. È questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.
    Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata e dell'esclusione massiccia dei perdenti.
    Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni di Bretton Woods,ha cacciato dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa è spesso una condizione di sopravvivenza. I "naufraghi dello sviluppo", abbandonati a loro stessi,condannati nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un'altra vita.
    Questa seconda forma dell'altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché l'autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi "fai da te" della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente, gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch'essi sono spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgusto… Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti che François Partant attribuiva alla sua proposta centrale:"dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui ritengono di aver bisogno"(François Partant ,La ligne d'horizon,Découverte,Paris,1988,p.206).
    Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per condurre la battaglia del buon senso.
    Sinistra Nazionale!

  2. #2
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    Maurizio Pallante

    Che cos’è la decrescita

    5 dicembre 2006



    Per capire cosa sia la decrescita, e come possa costituire il fulcro di un paradigma culturale capace di o-rientare sia le scelte di politica economica, sia le scelte esistenziali, è necessario in via preliminare fare chiarezza su cosa è la crescita economica. Generalmente si crede che la crescita economica consista nel-la crescita dei beni materiali e immateriali che un sistema economico e produttivo mette a disposizione di una popolazione nel corso di un anno. In realtà l’indicatore che si utilizza per misurarla, il prodotto interno lordo, si limita a calcolare, e non potrebbe fare diversamente, il valore monetario delle merci, cioè dei prodotti e dei servizi scambiati con denaro. Il concetto di bene e il concetto di merce non sono equivalenti. Non tutti i beni sono merci e non tutte le merci sono beni.

    La frutta e la verdura coltivate in un orto familiare per autoconsumo sono beni qualitativamente molto migliori della frutta e della verdura acquistate al supermercato. Ma non passano attraverso una interme-diazione mercantile, per cui non sono merci. Soddisfano il bisogno di nutrirsi in modi più sani e più gu-stosi dei loro equivalenti prodotti per essere commercializzati, non sono stati prodotti con veleni e pro-dotti di sintesi chimica, non hanno impoverito l’humus, non hanno contribuito a inquinare le acque, ma fanno diminuire il prodotto interno lordo perché chi autoproduce la propria frutta e verdura non ha bi-sogno di andarla a comprare. In una società fondata sulla crescita, dove a ogni piè sospinto tutti la in-vocano come il fine delle attività economiche e produttive, il suo comportamento è asociale.

    Percorrendo un tragitto in automobile si consuma una certa quantità della merce carburante. Quindi si contribuisce alla crescita del prodotto interno lordo. Se per percorrere lo stesso tragitto si trovano inta-samenti e si sta in coda, il consumo della merce carburante cresce; di conseguenza, il prodotto interno lordo cresce di più. Ma occorre più tempo per arrivare dove si vuole arrivare, aumentano i disagi e la fatica del viaggio, aumentano le emissioni di anidride carbonica e di inquinanti in atmosfera, i costi indi-viduali e collettivi, ambientali e sociali. La maggior quantità della merce benzina consumata negli intasa-menti automobilistici non è un bene. Eppure ogni volta che si sta fermi in coda a respirare gas di scarico si contribuisce ad accrescere il benessere collettivo e, di conseguenza, il proprio. Si agisce in modo so-cialmente virtuoso. Se poi, in conseguenza della maggiore stanchezza e dei maggiori rischi derivanti da-gli intasamenti si verificano incidenti, la riparazione o la sostituzione delle automobili incidentate e i ri-coveri ospedalieri fanno crescere ulteriormente il prodotto interno lordo, ma difficilmente si troverebbe un economista coerente al punto di considerare beni i maggiori consumi di merci che ne derivano.

    Se, dunque, il prodotto interno lordo misura il valore monetario delle merci e non prende in considera-zione i beni, la decrescita indica soltanto una diminuzione della produzione di merci. Non dei beni. Anzi, la de-crescita può anche essere indotta da una crescita di beni autoprodotti in sostituzione di merci equivalenti. Poiché molte merci non sono beni e molti beni non sono merci, la decrescita può diventare il fulcro di un nuovo pa-radigma culturale e un obbiettivo politico se si realizza come una diminuzione della produzione di merci che non sono beni e un incremento della produzione di beni che non sono merci. Questo processo è in grado di apporta-re miglioramenti altrimenti non ottenibili alla qualità della vita e degli ecosistemi. Una decrescita guidata in questa direzione, una recessione ben temperata, per usare un’espressione di Élemire Zolla, racchiude in-trinsecamente un fattore di felicità. Vive felicemente chi si propone di avere sempre maggiori quantità di merci, anche se non sono beni, e spende tutta la vita per questo obbiettivo? Non vive più felicemente chi rifiuta le merci che non sono beni e sceglie i beni di cui ha bisogno in base alla loro qualità e utilità effettiva, lavorando di meno per dedicare più tempo ai suoi affetti? Vive felicemente chi vive in una so-cietà che si propone di produrre sempre maggiori quantità di merci, anche se non sono beni, e sacrifica a questo obbiettivo la qualità dell’aria, delle acque e dei suoli? Non vive più felicemente chi vive in una società che antepone il bene della qualità ambientale alla crescita della produzione di merci che non so-no beni?

    L’annullamento della distinzione tra il concetto di bene e il concetto di merce è il fondamento su cui si basa il paradigma culturale della crescita. Se i beni si identificano con le merci, la crescita della produ-zione di merci comporta per definizione un aumento della disponibilità di beni e, quindi, un aumento del benessere. Il passaggio preliminare da compiere per costruire il paradigma culturale della decrescita è ripristinare questa distinzione. Altrimenti la decrescita si identifica con la rinuncia, con una riduzione del benessere, con un ritorno al passato. Mentre invece è scelta, miglioramento della qualità della vita, proiezione nel futuro. Chi, se non un asceta, potrebbe desiderare una riduzione del proprio benessere? Riuscirebbe mai la rinuncia diventare un valore condiviso a livello di massa? Se si continua impropria-mente a pensare che le merci si identifichino con i beni e che la decrescita consista in una diminuzione dei consumi, senza capire che si realizza smettendo di acquistare merci che non sono beni e incremen-tando l’autoproduzione di beni in sostituzione di merci che non lo sono, che quel meno si può ottenere attraverso un più che è anche un meglio, il paradigma culturale della crescita non solo continua ad avere una desiderabilità fondata su un bluff e ad alimentare luoghi comuni del tipo «indietro non si torna», ma riaffiora inconsapevolmente anche in alcune categorie concettuali che si utilizzano per criticarlo. Per e-sempio, nei concetti di povertà e ricchezza.

    Nel paradigma culturale della crescita, l’indicatore della ricchezza è il denaro. Se i beni si identificano con le merci, si è tanto più ricchi quanto maggiore è la quantità di merci che si possono acquistare. La soglia della povertà assoluta, su cui convengono sia la Banca mondiale, sia le Organizzazioni non go-vernative, è un reddito monetario giornaliero inferiore ai due dollari. Per chi ha chiara la distinzione tra beni e merci, con un reddito monetario giornaliero inferiore ai due dollari si è poveri solo se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere. Solo se si dipende totalmente dalle merci per la propria so-pravvivenza. Ma se una gran parte di ciò che serve per vivere si autoproduce sotto forma di beni, due dollari possono bastare per comprare il resto. Una famiglia con pochi soldi che produce la frutta e la verdura con cui si nutre è più ricca e autonoma di una famiglia con più soldi che deve comprarle. Nel tenore di vita della prima un aumento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli non ha alcuna incidenza. Nel tenore di vita della seconda comporta una riduzione della capacità d’acquisto e, quindi, della disponibili-tà di prodotti alimentari. In caso di riduzione delle forniture di fonti fossili, chi ha un modesto conto in banca ma un po’ di bosco da coltivare per ricavarne la legna necessaria a scaldarsi, è più ricco di chi ha un conto in banca molto maggiore ma deve comprare l’energia di cui ha bisogno e, tutt’al più, può farsi convertire il capitale in banconote da bruciare nel caminetto. Anche prendendole di piccolo taglio per avere più carta possibile, non riuscirebbe comunque a riscaldarsi altrettanto. Nel paradigma culturale della decrescita l’indicatore della ricchezza non è il reddito monetario, cioè la quantità delle merci che si possono acquistare, ma la disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni esistenziali. È povero chi non può mettere a tavola i pomodori di cui necessita, non chi non ha il denaro per comprarli.

    Il paradigma della crescita è intrinseco alla produzione di merci, mentre è estraneo alla produzione di beni. Se si coltivano pomodori per autoconsumo, non ha senso coltivarne più piante di quante servano per il proprio fabbisogno. Se se ne coltivasse qualcuna in più, si farebbe del lavoro in più senza nessuna utilità. Perseguire la crescita producendo beni sarebbe soltanto segno di scarsa intelligenza. Se invece si coltivano pomodori per venderli e ricavarne un reddito monetario, più se ne coltivano, maggiore è il reddito che si ottiene. In questo caso sarebbe segno di scarsa intelligenza non produrne più che si può. Se si producono beni finalizzati al proprio fabbisogno, non è necessario avere macchinari sempre più potenti e produttivi da sostituire in continuazione con altri macchinari ancora più potenti e produttivi, che sono invece indispensabili se si producono merci da vendere. Non è necessario avere quantità sem-pre maggiori di energia e di protesi chimiche, né intervenire sulla struttura della materia con le biotec-nologie e con la fisica atomica. Se si producono beni si agisce con misura, nella rigorosa accezione ma-tematica del termine, che costituisce il fondamento della musica e della geometria, i due sistemi in cui Pitagora vedeva misticamente riflesse le leggi che regolano l’ordine dell’universo. La produzione di merci implica invece la dismisura, quell’atteggiamento mentale che i greci chiamavano hybris, in cui rav-visavano la rottura dell’ordine che regola la vita e la fonte di ogni tragedia.

    Un sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo ha bisogno di sostituire pro-gressivamente i beni (che non lo fanno crescere) con le merci (che lo fanno crescere), inducendo a cre-dere che queste sostituzioni costituiscano miglioramenti della qualità della vita e condannando alla damnatio nominis chi non le effettua. Chi produce beni non ricava denaro dalla sua attività e non può comprare merci, mentre chi smette di produrre beni per produrre merci riceve in cambio un compenso monetario con cui può acquistare merci in sostituzione dei beni che non produce più. Se si è convinti che il denaro sia la misura della ricchezza, questo passaggio diventa desiderabile e si identifica con il progresso, anche se in realtà comporta peggioramenti nelle condizioni di vita. Cosa ha motivato i flussi migratori dalle campagne alle città che hanno accompagnato e accompagnano la crescita del prodotto interno lordo, se non l’identificazione della ricchezza col denaro? Eppure la frutta e la verdura autopro-dotte sono qualitativamente molto migliori della frutta e della verdura prodotte industrialmente e acqui-state al supermercato; l’aria delle campagne è più sana dell’aria delle città; le case coloniche sono più confortevoli di minuscoli appartamenti in palazzoni di periferia affacciati su stradoni di scorrimento; il frigorifero è inutile per chi può cogliere ogni giorno i frutti di stagione nel proprio orto frutteto.

    Le attività che producono beni non sono nemmeno considerate lavorative e non vengono conteggiate nelle statistiche del lavoro. Sono considerate lavorative soltanto le attività svolte in cambio di denaro. Il concetto di lavoro è stato ridotto al concetto di occupazione ed è stato contestualmente svincolato dal concetto di utilità. Chi produce merci totalmente inutili (per esempio i pupazzi vestiti da Babbo Natale che un numero crescente di poveri di spirito appende alle ringhiere dei balconi da novembre a gennaio) rientra nella categoria degli occupati, dal momento che in cambio della sua attività riceve un reddito monetario con cui può comprare merci e nella duplice veste di produttore e consumatore fa crescere il prodotto interno lordo. Invece le casalinghe, o i superstiti produttori agricoli che dedicano la maggior parte del loro tempo all’autoproduzione di beni limitandosi a scambiare con denaro soltanto le ecce-denze, non rientrano nella categoria degli occupati perché non ricavano un reddito monetario dal loro lavoro e non contribuiscono alla crescita del prodotto interno lordo. Pertanto, anche se svolgono attivi-tà straordinariamente utili, non sono considerati lavoratori.

    Un sistema economico libero dall’obbligo della crescita non deve sostituire progressivamente la produ-zione di beni per autoconsumo con la produzione di merci, ma continua a produrre sotto forma di beni tutto ciò che prodotto sotto forma di merce comporterebbe peggioramenti qualitativi, limitandosi a produrre sotto forma di merce soltanto ciò che non può essere autoprodotto sotto forma di bene. Un vasetto di yogurt comprato, prima di raggiungere la mensa del consumatore percorre qualche migliaio di chilometri, quindi contribuisce alla crescita dei consumi di fonti fossili e dell’effetto serra; produce tre tipologie di rifiuto: carta, plastica e alluminio; ha bisogno di sostanze conservanti che spesso uccidono i fermenti lattici riducendo il suo valore nutrizionale; incorpora nel prezzo di vendita oltre i costi di tra-sporto e confezionamento, i costi di produzione industriale, di intermediazione commerciale e pubblici-tari. Uno yogurt autoprodotto non deve essere trasportato, non produce rifiuti, è ricchissimo di fermen-ti lattici vivi e, non richiedendo nessun costo oltre quello del latte, ha un prezzo inferiore di due terzi. Contribuisce alla decrescita del prodotto interno lordo, ma è qualitativamente migliore, migliora la qua-lità ambientale riducendo le emissioni climalteranti e i rifiuti, richiede meno denaro per soddisfare lo stesso fabbisogno alimentare e, di conseguenza, permette di lavorare meno e di avere più tempo per sé. La decrescita indotta dall’autoproduzione dei beni è fattore di felicità. Per quale motivo si dovrebbe preferire comprare lo yogurt e smettere di autoprodurlo, come accade nelle società fondate sulla cresci-ta economica?

    La quantità dei beni che si possono vantaggiosamente autoprodurre in sostituzione delle merci che li hanno sostituiti è molto superiore a quanto una mente plasmata dalla cultura della crescita riesca a im-maginare. In particolare, la maggior parte dei servizi alla persona che si possono prestare per amore nell’ambito dei rapporti familiari non sono nemmeno paragonabili qualitativamente allo stesso tipo di servizi prestati in cambio di denaro. Tuttavia una propaganda martellante ha fatto credere che il loro af-fidamento a personale specializzato li migliorasse e, nel contempo, migliorasse la vita di chi invece di prestarli direttamente e gratuitamente ai suoi familiari dedicasse lo stesso tempo a produrre merci per avere in cambio il denaro necessario a comprarli da chi li presta in sua vece, che a sua volta, impegnan-do il proprio tempo in un lavoro salariato, deve girare una parte della retribuzione per pagare chi forni-sce sotto forma di merce ai suoi familiari gli stessi servizi che non ha più tempo di svolgere direttamen-te e gratuitamente. Presentata come una liberazione attraverso il lavoro, questa spirale ha solo la fun-zione di accrescere la produzione di merci attraverso un peggioramento della vita di tutti i soggetti coinvolti.

    Tuttavia, anche liberando dalla mercificazione tutti i beni che si possono vantaggiosamente autoprodur-re e tutti i servizi che si possono fornire gratuitamente per amore, non sarebbe auspicabile né possibile perseguire un’autosufficienza assoluta. Ma non tutto ciò che non si può autoprodurre può essere soltan-to comprato sotto forma di merce in cambio di denaro. In tutte le epoche storiche e in tutti i luoghi del mondo dove si sono formati stabilmente gruppi umani a partire dai nuclei familiari, insieme agli scambi mercantili e all’autoproduzione sono state realizzate forme di scambio non mercantili basate sul dono e sulla reciprocità. Seppure in assenza di regole scritte, gli scambi non mercantili si sono dovunque fonda-ti su tre principi: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di restituire più di quanto si è rice-vuto. Pertanto, la dinamica del dono e del controdono crea legami sociali. In questa sfera rientrano il dono del tempo, delle capacità professionali, della disponibilità umana, dell’attenzione, della solidarietà, ma non il baratto, che ha dato origine agli scambi mercantili. La parola comunità è composta da due pa-role latine: la preposizione cum, che significa con e indica un legame, e il nome munus, che significa do-no. La comunità è un raggruppamento umano unito da forme di scambio non mercantili.

    Se le società fondate sulla crescita del prodotto interno lordo non possono non sostituire in continua-zione i beni autoprodotti e gli scambi fondati sul dono e la reciprocità con merci equivalenti inducendo a credere che questi spostamenti siano fattori di progresso, una società libera da questo vincolo econo-mico e mentale, da questa camicia di forza, ridimensiona gli scambi mercantili a ciò che non può essere più vantaggiosamente autoprodotto e scambiato sotto forma di dono. La sua struttura produttiva può essere paragonata a una figura geometrica composta da tre cerchi concentrici. Il cerchio interno rappre-senta l’area dell’autoproduzione di beni e servizi. La prima corona circolare l’area degli scambi fondati sul dono e la reciprocità. La corona circolare esterna l’area degli scambi mercantili. In essa le filiere più corte sono più interne e le merci si dispongono progressivamente verso l’esterno man mano che au-mentano le intermediazioni commerciali e la distanza tra i luoghi in cui sono prodotte e i luoghi in cui vengono consumate. Le società fondate sulla crescita allargano progressivamente questa area rosic-chiando il terreno alle altre due. Una società fondata sulla decrescita estende le due aree interne ridi-mensionando la terza.

    Nelle società agricole la produzione di beni prevale sulla produzione di merci e la compravendita ha un ruolo complementare. Il loro prodotto interno lordo tende pertanto a rimanere statico. Le società indu-striali sono invece caratterizzate dalla prevalenza della produzione di merci sulla produzione di beni e il loro prodotto interno lordo cresce in continuazione. Nel loro sistema di valori, che misura il benessere con la ricchezza monetaria, ciò testimonia la superiorità della civiltà industriale sulla civiltà contadina e delle società occidentali, in cui la civiltà industriale si è sviluppata, su tutte le altre. Mutuando il concetto di sviluppo dalla biologia, le società industriali occidentali fondate sulla crescita considerano sottosviluppate, cioè povere, ma anche a uno stadio inferiore di civiltà, le società in cui il prodotto interno lordo non cre-sce; in via di sviluppo le società in cui la prevalente produzione di beni viene progressivamente sostituita da una sempre più estesa produzione di merci, e quindi sono avviate sulla strada della crescita; sviluppate le società in cui prevale la produzione di merci e il prodotto interno lordo cresce. In questo quadro i programmi di sviluppo per far uscire dalla povertà i popoli poveri consistono nella trasformazione di eco-nomie prevalentemente fondate sulla produzione di beni in economie prevalentemente fondate sulla produzione di merci. Se vengono elaborati dagli organismi finanziari internazionali, mirano ad allargare la sfera dei produttori e consumatori di merci per favorire la crescita del prodotto interno lordo a livello mondiale; se vengono elaborati da organismi non governativi, anche quando sono dettati da motivazio-ni umanitarie sottendono l’implicita valutazione che le società industriali occidentali fondate sulla cresci-ta sono modelli più evoluti da imitare.

    In realtà i programmi di sviluppo aggravano la povertà dei popoli poveri anche quando realizzano in-crementi del loro reddito pro capite, perché distruggono le economie di sussistenza, quindi la possibilità di soddisfare i bisogni vitali con la produzione di beni, senza consentire un loro inserimento concorren-ziale nel mercato mondiale, dove i paesi sviluppati esercitano una incontrastabile supremazia tecnologi-ca e finanziaria. Solo ristrette oligarchie, che posseggono le grandi estensioni di terreno e i capitali ne-cessari a effettuare gli investimenti, riescono ad accrescere i loro profitti, per cui gli incrementi del red-dito nazionale che ne derivano hanno lo stesso valore della statistica di Trilussa sul mezzo pollo a testa risultante tra una persona che ne mangia uno intero e un’altra che non mangia niente. Per di più, l’inserimento delle produzioni agricole nel mercato mondiale richiede il passaggio dalla biodiversità alla monocultura delle specie più produttive, impoverendo progressivamente la fertilità dei suoli e accre-scendo la dipendenza dalla chimica, cioè dalla necessità di acquistare prodotti tecnologici dai paesi indu-strializzati. Il passaggio dalla produzione di beni alla produzione di merci è una trappola da cui i paesi sottosviluppati non riescono a liberarsi se non ritornando, con molta fatica, a un’economia di sussistenza, alle conoscenze, alle tecnologie, ai rapporti sociali, ai valori, alla cultura su cui si è fondata nel corso dei secoli e su cui, con le necessarie implementazioni, può continuare a fondarsi in futuro. Le sirene dello sviluppo cantano alle orecchie dei popoli poveri nell’interesse dei popoli ricchi, anche quando assumo-no i toni suadenti delle organizzazioni umanitarie. Sono i popoli ricchi, e il meccanismo della crescita su cui sono impostate le loro economie, ad aver bisogno di un numero crescente di persone che non pos-sano fare nient’altro che vendere e comprare per vivere, di un numero crescente di persone provviste di un reddito monetario a cui vendere le crescenti eccedenze delle loro merci, di un numero crescente di persone che producano a prezzi stracciati le merci di cui hanno bisogno le loro economie per continua-re a crescere, di un numero crescente di persone che abbandonino le loro specificità culturali per uni-formarsi ai valori della crescita. Anche se di primo acchito può sembrare un paradosso, solo una eco-nomia fondata sulla decrescita consente ai popoli poveri di uscire dalla povertà.

    Un sistema economico fondato sulla crescita del prodotto interno lordo è innovatore per necessità in-trinseca. Per accrescere l’offerta di merci ha bisogno di continue innovazioni di processo finalizzate a incrementare la produttività, cioè le quantità prodotte da ogni occupato nell’unità di tempo. Per accre-scere la domanda ha bisogno di continue innovazioni di prodotto finalizzate a rendere obsolete in tem-pi sempre più brevi le merci acquistate, in modo da abbreviare i tempi di sostituzione. Entrambe le in-novazioni dipendono fondamentalmente dagli sviluppi della tecnologia, che a loro volta dipendono da-gli sviluppi della ricerca scientifica, anche se nelle innovazioni di processo hanno un ruolo decisivo le innovazioni organizzative e nelle innovazioni di prodotto hanno un ruolo altrettanto importante le in-novazioni estetiche. Maggiori sono le innovazioni, più rapida è la loro successione, maggiore è la cresci-ta della produzione e del consumo di merci. In un sistema economico che misura la crescita del benes-sere con la crescita del prodotto interno lordo, l’innovazione diventa un valore in sé. Si identifica col concetto di miglioramento. Poiché le innovazioni cambiano di continuo la situazione esistente, la di-sponibilità al cambiamento assume un ruolo centrale nel sistema dei valori condivisi. Diventa una pub-blica virtù. Viceversa, la resistenza nei confronti dei cambiamenti e delle innovazioni diventa un vizio da sradicare, una manifestazione di chiusura mentale da ridicolizzare, un atteggiamento d’altri tempi senza diritto di cittadinanza in una società proiettata verso il futuro. Nuovo è bello, migliore, più evoluto. Vecchio è brutto, peggiore, più arretrato. Di conseguenza il nuovo deve sostituire il vecchio. Ma per de-finizione il nuovo non dura. Diventa vecchio all’apparire di un nuovo più nuovo. Più rapidamente il nuovo diventa vecchio e viene sostituito da un più nuovo, maggiore è il progresso. Innovazione, cresci-ta e progresso sono tre modi di raccontare da tre punti di vista convergenti la storia umana come un co-stante avanzamento verso il meglio.

    La destra e la sinistra, in tutte le configurazioni che hanno assunto nel corso della storia, dalle più mo-derate alle più estremiste, sono due varianti di un identico paradigma culturale che ha come capisaldi la crescita, l’innovazione e il progresso. Accomunate dallo stesso sistema di valori, le differenze che le di-stinguono consistono nelle politiche da adottare per favorirne al meglio la realizzazione e nelle modalità di ripartirne i vantaggi tra gli attori sociali che col loro lavoro consentono di realizzarli. La destra sostie-ne che il mercato e la concorrenza sono gli strumenti migliori per favorire lo sviluppo delle innovazioni e la crescita economica. La sinistra ritiene che l’intervento statale sia indispensabile per guidare le inno-vazioni e la crescita economica verso obbiettivi che armonizzino gli interessi individuali col benessere collettivo. Il pre-requisito è che la torta cresca, altrimenti non ce n’è per nessuno, e il mercato opportu-namente indirizzato è lo strumento migliore per farla crescere, ma se si lasciasse al mercato anche il compito di dividerne le fette, i più forti lascerebbero ai più deboli solo quanto basta per sopravvivere. Affinché il progresso economico diventi fattore di un progresso sociale generalizzato, la politica ha il compito di fare in modo che le fette siano suddivise con maggiore equità. Ma se le fette si ripartiscono più equamente, ribatte la destra, si accresce la quota di reddito destinata ai consumi e si riducono gli in-vestimenti in innovazioni tecnologiche, per cui la torta cresce di meno e le fette più grandi di una torta che resta più piccola diventano più piccole delle fette più piccole di una torta che diventa sempre più grande. Non è successo così nei paesi del socialismo reale? Ma adesso che hanno imparato la lezione e hanno scoperto i vantaggi del mercato, le loro economie crescono più delle altre. Un popolo è ricco so-lo se ci sono i ricchi. Solo se ci sono classi più potenti che hanno il diritto di ritagliarsi fette di torta più grandi. Un’economia più produttiva è meno equa, un’economia più equa è meno produttiva. La destra è dunque più innovativa e progressista della sinistra, anche se la sinistra pretende di possedere in esclusiva queste connotazioni. E se l’obbiettivo comune è la crescita, la destra parte in vantaggio.

    Nessuno a destra e a sinistra nutre il minimo dubbio sull’utilità e la necessità della crescita economica. La crescita è il primo punto di ogni programma politico. Un postulato che non ha bisogno di dimostra-zione. Come ogni organismo vivente deve respirare, così l’economia deve crescere. Se non cresce è sin-tomo che sta male. La parola decrescita è stata persino bandita dal vocabolario. Al suo posto si usa la lo-cuzione crescita negativa, che sarebbe come definire gioventù negativa l’età di un centenario. Una mancanza di logica esibita senza pudore, di per sé solo ridicola, se non fosse l’espressione verbale del rifiuto di ca-pire che una crescita infinita non è possibile in un mondo che, per quanto grande, non ha una disponi-bilità infinita di risorse da trasformare in merci, né una capacità infinita di assorbire i rifiuti generati dai processi di produzione e dalle merci nel corso e al termine della loro vita. Eppure la competizione poli-tica tra destra e sinistra, tra tutte le destre e tutte le sinistre apparse nella storia, si è sempre incentrata sulle rispettive capacità di far crescere l’economia più della parte avversa. La crescita della produzione è l’obbiettivo degli imprenditori, dei sindacati e della finanza. La crescita dei consumi l’aspettativa delle popolazioni. Nel sistema dei valori su cui si fondano le società industriali il più si è identificato e conti-nua a identificarsi col meglio, anche se progressivamente diminuiscono la sua utilità e aumentano i disa-gi che crea. I danni sono come nascosti da un velo che impedisce di vederli. Le guerre per il controllo dei giacimenti petroliferi, lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari e i cambia-menti climatici in corso non vengono messi in relazione con l’incremento dei consumi di fonti fossili necessari a sostenere la crescita della produzione e dei consumi. Come se niente fosse, la destra e la si-nistra, tutte le varianti attuali della destra e della sinistra, continuano a mettere la crescita al centro dei loro programmi politici. Sostenere la necessità della decrescita significa pertanto collocarsi al di fuori di questa dialettica e rimettere in discussione il paradigma culturale che ha caratterizzato le società occi-dentali dalla rivoluzione industriale a oggi. Un obbiettivo che richiede uno sforzo di elaborazione im-mane, a cui sono chiamati tutti coloro che, a partire da una percezione anche soggettiva delle sofferenze che il fare finalizzato a fare di più crea alla vita, a tutte le forme di vita e alla terra in quanto organismo vi-vente, intendono contribuire a restituire al lavoro la sua intrinseca connotazione di fare bene finalizzato a migliorare la qualità della vita in tutte le forme che essa assume, ben sapendo che solo in questo modo si può migliorare anche la qualità della vita della specie umana.

    La crescita della produzione di merci consuma quantità crescenti di materie prime e di energia. La cre-scita del consumo di merci produce quantità crescenti di rifiuti. In un sistema economico fondato sulla crescita, la produzione è un’attività finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve, allo stato di merci. Le innovazioni di processo hanno la funzione di acce-lerare i tempi di percorrenza della prima parte del tragitto, da risorsa a merce; le innovazioni di prodotto hanno la funzione di accelerare i tempi di percorrenza della seconda parte del tragitto, da merce a rifiu-to. Quanto più breve è la durata del percorso, tanto maggiore è la crescita del prodotto interno lordo. Il senso ultimo dello sviluppo scientifico e tecnologico finalizzato alla crescita del prodotto interno lordo è la produzione di quantità sempre maggiori di rifiuti in tempi sempre più brevi. In termini più generali è l’applicazione della razionalità a uno scopo irrazionale e ha come risultato finale la devastazione del mondo. La ricerca del nuovo come valore in sé incrementa il consumo di risorse, accresce le varie for-me di inquinamento ambientale, toglie alle generazioni future il necessario per vivere, ingigantisce pro-gressivamente le discariche e alimenta con sempre maggiore abbondanza gli inceneritori. Il progresso fondato sui progressi scientifici e tecnologici finalizzati ad accrescere la produzione di merci scandisce le tappe di avvicinamento della specie umana alla rottura degli equilibri fisico-chimici-biologici che ne hanno consentito l’evoluzione e lo sviluppo.

    In un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita del prodotto interno lordo le innovazioni tecnologiche sono finalizzate ad accrescere la produttività, ovvero le quantità prodotte da ogni produt-tore nell’unità di tempo, indipendentemente dalle conseguenze che possano derivarne in termini di e-saurimento delle risorse, di crescita dei rifiuti e di impatto ambientale. In un sistema economico e pro-duttivo finalizzato alla decrescita le innovazioni tecnologiche sono finalizzate alla riduzione del consu-mo di risorse e di energia, della produzione di rifiuti e dell’impatto ambientale per unità di bene prodot-to. Chi si pone l’obbiettivo della decrescita non ha pregiudizi antiscientifici o antitecnologici, come insi-nuano i paladini della crescita. La decrescita non richiede meno tecnologia della crescita, ma uno sviluppo tecnologico diversamente orientato. Le innovazioni tecnologiche di cui ha bisogno nell’edilizia non sono fina-lizzate a ricoprire in tempi sempre più brevi superfici sempre più vaste di superficie terrestre con una crosta di materiali inorganici, come accade nei sistemi fondati sulla crescita, ma a costruire edifici ben coibentati allo scopo di ridurre tendenzialmente a zero il fabbisogno di energia per la climatizzazione. Per costruire un edificio che non ha bisogno dell’impianto di riscaldamento per mantenere una tempe-ratura interna di 20 gradi con una temperatura esterna di 20 gradi sotto zero ci vuole più tecnologia di quella che occorre a costruire una casa che consumi 20 litri di gasolio al metro quadrato all’anno, come fanno in media gli edifici costruiti nel dopoguerra in Italia. Ma un edificio che ha bisogno di una minore quantità di energia contribuisce a ridurre il prodotto interno lordo. Tutte le innovazioni tecnologiche che riducono l’impronta ecologica, ovvero la quantità di superficie terrestre necessaria a ogni individuo per ricavare le risorse di cui ha bisogno, consentendo al contempo la loro rigenerazione, comportano una decrescita economica che contribuisce a migliorare la qualità degli ambienti e la vita degli esseri umani. Una decrescita felice.

    La crescita ha bisogno di esseri umani incapaci di tutto. Solo chi non sa fare nulla deve comprare tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. Chi non sa fare nulla è assolutamente dipendente dalle merci. Il para-digma culturale della crescita implica l’impoverimento culturale degli esseri umani. Il paradigma cultura-le della decrescita, riducendo l’incidenza delle merci nella soddisfazione dei bisogni esistenziali e poten-ziando l’autoproduzione di beni, richiede lo sviluppo e la diffusione di un sapere finalizzato al saper fare che rende più autonomi e liberi. Il paradigma culturale della crescita comporta il disprezzo del lavoro manuale e lo relega ad attività di rango inferiore. Il paradigma culturale della decrescita comporta una rivalutazione del lavoro manuale e artigianale, il superamento del lavoro parcellizzato, una ricomposi-zione unitaria del sapere contro la super-specializzazione che fa perdere la visione d’insieme di ciò che si fa, la riunificazione del sapere come si fanno le cose (cultura scientifica) con la ricerca del senso per cui si fanno (cultura umanistica).

    Le città sono luoghi in cui l’autoproduzione di beni e la prestazione non mercificata di servizi alla per-sona trovano difficoltà difficilmente sormontabili. In città si deve comprare tutto ciò che serve per vi-vere, per cui tutte le attività lavorative sono esclusivamente finalizzate a ricavare denaro. Chi vive in cit-tà non può fare altro che produrre merci per poter comprare merci. Le città sono luoghi di mercifica-zione totale. La copertura di superfici crescenti con materiali inorganici impedisce l’autoproduzione di cibo. Interminabili file di autotreni carichi di derrate alimentari le raggiungono ogni mattina. Flotte di aerei cargo le riforniscono di cibi provenienti dall’altra parte del mondo. Miriadi di furgoni carichi di ogni tipo di merci le attraversano a tutte le ore del giorno e della notte. La predominanza assoluta di rapporti commerciali e competitivi cancella ogni forma di solidarietà e collaborazione tra chi vi abita. I rapporti sociali si fondano sulla reciproca diffidenza e indifferenza che caratterizzano le relazioni tra chi vende e chi compra. Confusi nella folla gli individui sono soli. Le famiglie che abitano nello stesso pa-lazzo si salutano appena e spesso non si conoscono. Negli appartamenti condominiali sono limitate le possibilità di effettuare la conservazione dei prodotti agricoli e le trasformazioni che molti di essi ri-chiedono per diventare alimenti, eccettuata la preparazione dei pasti. Le unità abitative a misura di fa-miglie mononucleari non consentono nemmeno di fornire quei servizi alla persona che venivano svolti sotto forma di dono nelle famiglie allargate, specialmente nei confronti delle fasce d’età più bisognose d’assistenza: i bambini e gli anziani. Oltre al cibo, agli oggetti e ai servizi, nelle città occorre comprare anche l’otium, che assume quasi esclusivamente le forme degli svaghi e dei divertimenti massificati. I modi per compensare i disagi sempre più gravi causati dalla loro incessante espansione sono sempre più cari. Gli spostamenti al loro interno tanto più costosi quanto più diventano faticosi e lenti. I mezzi di trasporto che si incolonnano nelle loro strade le avvolgono in una fitta cappa di gas di scarico e le op-primono con un ininterrotto rumore di fondo. Eppure non c’è piano regolatore che non preveda per definizione ulteriori espansioni. Nell’anno 2006 i residenti nelle aree urbane hanno superato la metà del-la popolazione mondiale e continuano a crescere. Le più grandi di esse superano i 20 milioni di abitanti e si avviano verso i 30. Ma se questa crescita si arrestasse, non crescerebbe più il numero di coloro che devono comprare sotto forma di merci tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere e si ridurrebbe la cre-scita del prodotto interno lordo. Le città sono escrescenze tumorali che devastano il corpo di Gaia, in-crostandolo di materiali inorganici e di rifiuti. Solo la decrescita può riportare alla fisiologia questa pato-logia. La rivalutazione dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili, della solidarietà e della dimen-sione comunitaria, implica un ampio processo di de-urbanizzazione.

    La crescita economica procede con una forza intrinseca, sfuggita al controllo degli apprendisti stregoni che l’hanno messa in moto e la venerano come dispensatrice di benessere e felicità. Se si costruiscono sempre maggiori quantità di sempre più potenti macchine movimento terra, occorre venderle. Se si ac-quistano occorre metterle in funzione. Se si mettono in funzione devastano porzioni di territorio sem-pre più vaste. Se si producono sempre maggiori quantità di cemento occorre venderle. Se si acquistano si utilizzano per coprire di materiale inorganico superfici sempre più vaste. Se si costruiscono macchina-ri industriali sempre più potenti occorre venderli. Se si acquistano occorre metterli in funzione. Se si mettono in funzione, consumano quantità sempre maggiori di energia e di materie prime per produrre in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci che in tempi sempre più brevi diventano rifiuti. Ma se tutto ciò che si produce non si vendesse, occorrerebbe ridurre la produzione. Di conse-guenza diminuirebbero i profitti e occorrerebbe licenziare i lavoratori salariati in esubero. Se diminuis-sero i profitti e i salari, diminuirebbe la capacità complessiva di comprare, la domanda di merci si ridur-rebbe, occorrerebbe produrre ancora meno, si ridurrebbero ulteriormente i profitti e i salari. Si avvite-rebbe una spirale recessiva con effetti devastanti. La società fondata sulla produzione di merci non può non cre-scere. Ma la crescita economica si scontra ormai con i limiti fisici del pianeta, con la sua disponibilità di risorse e la sua capacità di metabolizzare i rifiuti. La crescita sarà fermata da Gaia. Se ne vedono già se-gnali inquietanti. Non restano che la rassegnazione o la rimozione del problema? No. Ognuno può to-gliere il proprio consenso alla crescita adottando comportamenti quotidiani improntati alla decrescita. Se non c’è nessuna forza in grado di fermare questo treno lanciato a folle velocità verso il precipizio, un numero sufficientemente alto di individui responsabili può smontare per tempo, bullone dopo bullone, il tratto dei binari che ancora gli rimane davanti.

    Per arrestare la crescita e trasformarla in decrescita basta ridurre la domanda di merci. Poiché nessuno può obbligare qualcuno a comprare qualcosa, i consumatori hanno nelle loro mani un’arma molto po-tente, soprattutto in considerazione del fatto che nei paesi industrializzati la crescita dei consumi è or-mai sostenuta dall’inutile. Per superare questa difficoltà oggettiva, i costi sostenuti dai produttori per convincere i consumatori a comprare le loro merci sono una quota sempre più rilevante dei costi di produzione totali. E quando il canto delle sirene pubblicitarie non basta a far perdere la testa per cose di cui non si ha bisogno, o non servono a niente, si inoculano nel tessuto sociale dosi massicce di idiozia rivestendo di una presunta valenza etica l’atto dell’acquistare, indipendentemente da ciò che si acquista. «Per far crescere l’economia e ridurre la disoccupazione bisogna rilanciare i consumi», sentenziano gli economisti. Buy something, traducono i pubblicitari. Comprate qualcosa. Non importa cosa. All’attuale livello di crescita non si lavora più per produrre qualcosa che serva, ma si deve comprare qualcosa che non serve per poter continuare a produrre.

    Socrate andava di tanto in tanto al mercato per vedere quanto fosse grande il numero delle cose di cui non aveva bisogno. Senza essere Socrate, chi ha un po’ di rispetto per la sua intelligenza e vuole contri-buire a fermare la crescita tumorale del prodotto interno lordo non può che proporsi il buy nothing come stile di vita. Nel paradigma culturale della decrescita la sobrietà è uno dei valori fondanti, che non a caso il paradigma culturale della crescita ha ridicolizzato, derubricandola a taccagneria. Ma la sua valenza po-sitiva rischia di rimanere appannata se viene confusa con l’ascetismo o con un atteggiamento di rinuncia motivata da più nobili e alti motivi: per non esaurire le risorse, per ridurre l’inquinamento, per non sot-trarre il necessario ai poveri, per valorizzare la dimensione spirituale dell’uomo, per sostituire le merci ad uso individuale con merci ad uso collettivo. La sobrietà non è rinuncia, ma una scelta di vita che fa stare me-glio non solo chi la pratica, ma la specie umana nel suo insieme. Chi confonde il benessere col tantoavere accumula soltanto frustrazioni e insoddisfazioni. Non vive bene. Nella società che ha raggiunto i mas-simi livelli del consumismo materialista, gli Stati Uniti, metà della popolazione fa uso sistematicamente di psicofarmaci. A chi invece si limita a utilizzare con sobrietà quanto serve per vivere senza restrizioni né sprechi, rimane il tempo per dedicarsi alle sue esigenze spirituali. Chi non si limita ad essere un transi-to di cibo, per ripetere le parole di Leonardo da Vinci, può raggiungere più elevati livelli di realizzazione umana, rispondere a bisogni esistenziali più profondi, vivere più intensamente e ripetere con Baudelaire: Ho più ricordi che se avessi vissuto mille anni.

    La sobrietà non è solo uno stile di vita, ma anche una guida per orientare la ricerca scientifica e le inno-vazioni tecnologiche a ottenere di più con meno. È la capacità di saper distinguere il più dal meglio, la quantità dalla qualità. La costruzione di edifici in grado di assicurare il benessere col minimo consumo di risorse, la progettazione di oggetti fatti per durare nel tempo, la riparazione invece della sostituzione, il riciclaggio e la riutilizzazione delle materie prime di cui sono fatti. Sebbene l’adozione di uno stile di vita basato sulla sobrietà abbia una valenza politica intrinseca perché contribuisce a una riduzione della domanda, tuttavia non esime da un impegno politico finalizzato a orientare le scelte pubbliche in base allo stesso criterio. I cittadini consapevoli della necessità di ridurre i rifiuti per ragioni etico-ambientali, non possono non impegnarsi politicamente affinché le pubbliche amministrazioni prendano le decisioni necessarie a realizzare un’efficace sistema di raccolta differenziata, riuso e riciclaggio. Ma le scelte delle pubbliche amministrazioni ispirate a criteri di sobrietà non possono ottenere risultati significativi senza la partecipazione consapevole dei cittadini. I cittadini che decidono di usare i mezzi pubblici per ridurre l’inquinamento da traffico non possono non impegnarsi politicamente per indurre le pubbliche ammi-nistrazioni a porre limitazioni alla circolazione automobilistica e potenziare le reti di trasporto collettivo. La sobrietà può essere perseguita come scelta di benessere individuale, ma se si traduce in proposte e scelte politiche, i suoi benefici diventano incomparabilmente maggiori.

    La sobrietà però non basta. È condizione necessaria, ma non sufficiente per la decrescita. Consente di ridurre il consumo di merci, ma se non si affianca all’autoproduzione e allo scambio non mercantile di beni non libera dalla necessità di acquistare sotto forma di merci tutto ciò che serve per vivere. Se ci si limita a comprare meno merci, si contribuisce soltanto a ridurre, o anche a invertire, la crescita del pro-dotto interno lordo, ma non a modificare il suo ruolo di parametro del benessere. Si cambia solo il valo-re delle tacche lungo lo stesso asse graduato, ma non si ridisegna l’asse. L’autoproduzione e gli scambi non mercantili di beni non solo possono contribuire in maniera determinante alla decrescita, ma libera-no più radicalmente dall’onnimercificazione l’immaginario collettivo, la conoscenza, i rapporti sociali, i criteri di interpretazione della realtà. Non si limitano a rallentare la velocità con cui la crescita sta por-tando la specie umana verso un precipizio senza ritorno, ma guidano in un’altra direzione il suo cammi-no.

    L’autoproduzione e gli scambi non mercantili di beni riscoprono e valorizzano elementi del passato che, pur contenendo potenzialità di futuro non ancora utilizzate, sono stati abbandonati in nome della mo-dernità e del progresso. In questo senso si inscrivono nel contesto di una cultura conservatrice. Ma non per questo costituiscono un’alternativa alle innovazioni. Consentono invece di scegliere quali di esse abbia-no una reale potenzialità di futuro. Di distinguere, per usare le parole di Pasolini, il vero dal falso progresso. In questo senso si inscrivono nel contesto di una cultura autenticamente progressista. Dal versante del passato ripropongono, per esempio, il sapere e il saper fare elaborati nell’unica attività umana davvero indispen-sabile: la produzione, la trasformazione e la conservazione degli alimenti. Un patrimonio che è necessa-rio riscoprire e valorizzare dopo gli anni dell’oblio in cui è stato condannato dal paradigma della cresci-ta. Ma consentono anche di implementarlo orientando gli sviluppi scientifici e le innovazioni tecnologi-che alla sempre più piena realizzazione del concetto espresso con la parola agricoltura, che deriva dalle parole latine ager «terreno coltivato», e cultura, derivante a sua volta dal verbo colere «aver cura, onorare, rispettare, abbellire», la stessa radice della parola cultus, la venerazione che si deve alla divinità. Nel ver-sante del futuro, l’autoproduzione e lo scambio non mercantile di beni caratterizzano le tecnologie che hanno le maggiori potenzialità di ridurre l’impatto ambientale e il consumo di risorse dei processi di produzione: l’informatica e l’energia. Gli sviluppi del software libero, che ha ormai superato tecnologi-camente i sistemi operativi mercantili, sono stati ottenuti mettendo in rete gratuitamente sotto forma di doni reciproci le successive implementazioni elaborate da una comunità virtuale liberamente costituitasi. Le energie rinnovabili, per raggiungere i massimi livelli efficienza e ridurre al minimo i loro specifici im-patti ambientali, dovranno svilupparsi in impianti di piccola taglia finalizzati all’autoconsumo, collegati in una rete di piccole reti locali dove si possa realizzare lo scambio reciproco delle eccedenze. La stessa metodologia dell’agricoltura di sussistenza, dove in ogni podere si produce un po’ di tutto e si vende il surplus, ma anche la stessa struttura della rete informatica.

    La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti; distingue-re la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruo-lo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viver-ci al meglio.

 

 

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