I tanti olocausti che non si vogliono ricordare
La sopravissuta ( e piuttosto bene: dalla foto dimostra una cinquantina d’anni) alla sioà Daniela Segre , intervistata dal Corriere della Sera sulla giornata ( che dura in realtà tutto l’anno) della memoria , ha dichiarato che bisogna evitare che la Storia sia in mano al potere e si avveri così l’incubo di Orwell. Non poteva dire meglio , salvo aggiungere che l’incubo di Orwell lo stiamo già vivendo alla grande. In Italia, come già in altri paesi d’Europa, sta per essere messa in atto la “lex Mastella” : la galera per reati di opinione.
150 storici ( tra cui alcuni ebrei) hanno condannato la legge Mastella propugnata dal fanatico sionista e filo comunista ( già direttore dell’Unità) oltre che maggiordomo della grande finanza in America , Furio Colombo .
Di Mastella il suo compare democristiano Cossiga ha scritto ( Corriere della Sera) “ avrebbe dato la tessera del suo partito a chiunque, anche ad un ex brigatista rosso”. E’ di questa pasta di uomini che sono fatti i governi europei. Pronti a qualunque bassezza pur di aumentare la loro fettina di potere. Mastella in verità li sopravanza quasi tutti: a lui quindi spetta il meritato onore di diventare il boia di quanto osassero “avere dei dubbi” sull’unica cosa al mondo su cui è totalmente vietato avere dei dubbi: la cosiddetta ( da qualche tempo, ordini superiori ) “sioà” .
Per la verità i revisionisti non hanno mai negato che vi fossero persecuzioni, anche gravissime, contro gli ebrei. Hanno negato l’esistenza delle camere a gas. E’ cosa molto diversa.
Hanno detto ( e con parecchie argomentazioni in numerosi libri) che le camere a gas come sono state descritte non potevano funzionare. Magari si tratta di argomentazioni fasulle.
Ma dobbiamo dire che in genere le loro argomentazioni sono coperte solo da insulti di stampo staliniano ma mai vengono elencate contro prove. Perlomeno stando ai processi verbali di taluni processi che abbiamo avuto occasione di leggere. Si noti: la contestazione delle camere a gas non significa negare l’esistenza della persecuzione anti ebraica, ne l’essenza criminale della stessa, come di altre persecuzioni nella storia ( la parte più intollerabile dell’olocaustica è peraltro la pretesa dell’unicità, una pretesa assurdamente razzista, come se una vittima ebrea forse diversa dalla vittima di un’altra razza): significa solo contestare l’uso e l’esistenza di camere a gas. In effetti gli americani fecero morire – dopo la guerra – almeno 800.000 prigionieri di guerra tedeschi, senza alcun bisogno di complicate camere a gas ( si legga il libro, mai contestato, del canadese Bacque, “Altre perdite” Ed Mursia, libro peraltro fatto sparire dalle librerie) : bastò lasciarli morire di fame e in tre mesi, non in tre anni, quelli andarono all’altro mondo, pur essendo vigorosi soldati.
Ma non vogliamo entrare in argomento perché sarebbe strumentalizzato ed è per giunta vietato, come unico tema storico regolato da dogma di legge: vietato discuterne e avere dubbi.
Poiché però siamo assolutamente convinti che la nuova religione dell’olocausto non miri ad onorare la memoria delle vittime e ad evitare altre violenze, (e difatti proprio gli ebrei sono oggi tutt’altro che pacifisti) ma serva a giustificare dei misfatti del presente ed a ottenere ogni sorta di vantaggi passando sempre per vittime e perseguitati, riteniamo doveroso combattere delle leggi assurde, totalitarie e infami come quelle che condannano il “revisionismo”
Per la giornata della memoria che commemora solo le vittime ebraiche ( gli altri sono sottouomini?) l’Italia ha dunque deciso di mettere in galera per anni 12 non i clandestini stupratori, gli assassini pluriomicidi dei bassi napoletani, gli sfruttatori schiavisti di prostitute ( al massimo beccano un paio d’anni che non fanno mai) ma degli storici controcorrente che non si adeguano alla storia obbligatoria. Il fatto che dicano il falso, se lo dicono, non significa assolutamente nulla: ci sono storici a nostri occhi infami come Luciano Canfora che minimizzano i crimini di Stalin, altri che lo esaltano , qualcuno potrebbe dire che la ghigliottina l’hanno inventata i preti: nessun sano di mente li metterebbe in galera perché dicono stupidaggini. Si deve però notare che in genere quando un governo mette in galera i cittadini per il solo reato d’opinione non è perché mentano , ma perché dicono la verità.
Oltre alla galera per coloro che hanno dubbi, Mastella ha deciso che darà 100 milioni di euro non alle case dei pensionati che hanno già tanti soldi, ma ad un fondo per la memoria dell’olocausto di cui si sentiva terribilmente la mancanza, non se ne parla mai.
E il presidente comunista Napolitano ha inaugurato un grande affresco alla stazione Centrale di Milano che riprodurrà scene dall’olocausto, affinché entrino nella vita di tutti i giorni anche dei poveri cristi che fanno magari i pendolari con ritardi biblici. Mentre aspettano il treno si indottrinano. Orwell non avrebbe immaginato di meglio.
Ma da uno come Napolitano il peggio non è solo possibile ma probabile. Questo comunista dai tempi di Stalin probabilmente non ha dimenticato l’apporto decisivo degli ebrei alla causa comunista. E la memoria dei comunisti, come noto, è selettiva.
Ma diamo anche noi un contributo alla memoria, a modo nostro. Ricordiamo le vittime di cui nessuno parla mai.
Dell’olocausto dei civili tedeschi alla fine del conflitto abbiamo già parlato .
Visto però che il quotidiano La Regione dedica il solito compitino obbligatorio ai deportati ebrei di Trieste, parliamo un po’ delle vittime dei comunisti di quella zona.
Il governo italiano ha processato di recente persino i soldati semplici di sessant’anni fa che , in piena guerra, commisero dei crimini in Italia. Hanno ottant’anni e certo non davano ordini, ma la Giustizia italiana non perdona, mica per nulla c’è Mastella.
Invece ha perdonato agli assassini di migliaia di italiani dopo la guerra. Gli assassinati dalle bande comuniste di Tito. Nessuno è mai stato processato e condannato. Solo i tedeschi, naturalmente, sono colpevoli.Hollywood non ha mai fatto un film su sessant’anni di massacri contro il popolo palestinese. Ma restiamo dalle parti di Trieste e aiutiamo la Regione rossa a ricordare bene.
Testimonianze
Dal 3 maggio 1945, per tre giorni e tre notti, le truppe del maresciallo Tito, avide di sangue, si scatenarono, con inaudita violenza, contro coloro che, da sempre, avevano dimostrato sentimenti di italianità. A Campo di Marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in piazza Oberdan, in viale Italia, i cadaveri s'ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia Questura, nelle scuole di piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte, senza che alcuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di Polizia, adibiti a camere di tortura. Altre centinaia di uomini e donne, d'ogni ceto e d'ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre. Furono i "desaparecidos". Gli avversari da mettere subito a tacere vengono individuati negli autonomisti, cioè coloro che sognavano uno Stato libero; ai furibondi attacchi di stampa condotti dalla "Voce del Popolo" si accompagnò una dura persecuzione, che già nella notte fra il 3 e il 4 maggio portò all'uccisione di Matteo Biasich e Giuseppe Sincich, personaggi di primo piano del vecchio movimento zanelliano, già membri della Costituente fiumana del 1921. Assieme agli autonomisti, negli stessi giorni e poi ancora nei mesi che verranno, trovarono la morte a Fiume anche alcuni esponenti del CLN ed altri membri della resistenza italiana, fra cui il noto antifascista Angelo Adam, mazziniano, reduce dal confino di Ventotene , secondo una linea di condotta che trova riscontro anche a Trieste ed a Gorizia, dove a venir presi di mira dalla Polizia politica jugoslava, sono in particolare gli uomini del Comitato di liberazione nazionale.. Ma la furia si scatenò con ferocia nei confronti di tutti gli esponenti dell'italianità cittadina. Furono subito uccisi i due senatori di Fiume, Riccardo Gigante e Icilio Bacci, e centinaia di uomini e donne, di ogni ceto e di ogni età, morirono semplicemente per il solo fatto di essere italiani. Oltre cinquecento fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti.
Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza Verdi non era Fiumano, ma era venuto a Fiume con gli Arditi e per la sua piccola statura tutti lo chiamavano "maresciallino". Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro "Viva la Jugoslavia!". Lui, pur cosi piccolo, si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Viva l'Italia!". Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, poi lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: "Viva l'Italia! Viva l'Italia!" sempre più fioco, sempre più spento, finché il grido non divenne un bisbiglio, finché la bocca colma di sangue non gli si chiuse per sempre. Qualcuno morì più semplicemente, per aver ammainato in piazza Dante la bandiera jugoslava. Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo, Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa. Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine del molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola.
I campi di sterminio di Tito
Nel '43 le prime stragi in Istria; nel '45 il secondo atto: le foibe. Con un gran finale: la deportazione e l'uccisione di migliaia di nostri connazionali. Così il maresciallo comunista voleva ripulire la Venezia Giulia e la Dalmazia. Roma sapeva, ma ha sempre preferito tacere per non rompere con Belgrado.
I lager di Tito
In quale campo della morte sono state scritte queste storie? A Dachau, a Buchenvald oppure a Treblinka? No, siamo fuori strada: questo è uno dei lager di Tito.
Borovnica, Skofja Loka, Osseh. E ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goh Otok, l'Isola Calva. Pochi conoscono il significato di questi nomi. Dachau e Buchenvald sono certamente più noti, eppure sono la stessa cosa.Solo che i primi erano in Jugoslavia e gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale e negli anni successivi, a guerra finita, durante l'occupazione titina.
I deportati dimenticati in nome della politica atlantica.
Una verità negata sempre, per ovvi motivi, dal regime di Belgrado, ma inspiegabilmente tenuta nascosta negli archivi del nostro ministero della Difesa. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra fino ad oggi per codardia, hanno accettato supinamente di sacrificare sull'altare della politica atlantica migliaia di giuliani, istriani, fiumani, dalmati. Colpevoli solo di essere italiani.
"Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica (40B-D2802) e all'ospedale di Skofjia Loka (11 -D-253 1) ambedue denominati della morte", titola il rapporto del 5 ottobre 1945, con sovrastampato "Segreto", dei Servizi speciali del ministero della Marina. Il documento, composto di una cinquantina di pagine, contiene le inedite testimonianze e le agghiaccianti fotografie dei sopravvissuti, accompagnate da referti medici e dichiarazioni dell'Ospedale della Croce Rossa di Udine, in cui questi ultimi erano stati ricoverati dopo la liberazione, e da un elenco di prigionieri deceduti a Borovnica. Il colonnello medico Manlio Cace, che in quel periodo ha collaborato con la Marina nel redigere la relazione che, se non è stata distrutta, è ancora gelosamente custodita negli archivi del ministero della Difesa, lasciò fotografie e copia del documento al figlio Guido, il quale lo ha consegnato alle redazioni del Borghese e di Storia illustrata.
Manca il cibo ma abbondano le frustate.
"Le condizioni fisiche degli ex internati", premette il rapporto, "costituiscono una prova evidente delle condizioni di vita nei campi iugoslavi ove sono ancora rinchiusi numerosi italiani, molti dei quali possono rimproverarsi solamente di aver militato nelle fila dei partigiani di Tito in fraterna collaborazione con i loro odierni aguzzini..." Nel rapporto del carabiniere Damiano Scocca, 24 anni, preso dai titini il 1° maggio 1945, si può leggere quanto segue: " il vitto era pessimo e insufficiente e consisteva in due pasti al giorno composti da due mestoli di acqua calda con poca verdura secca bollita (...) A Borovnica non si faceva economia di bastonate; durante il lavoro sul ponte ferroviario nelle vicinanze del campo chi non aveva la forza di continuare a lavorare vi veniva costretto con frustate...".
"...Durante tali lavori", afferma il finanziere Roberto Gribaldo, in servizio alla Legione di Trieste e "prelevato" il 2 maggio, "capitava sovente che qualche compagno in seguito alla grande debolezza cadesse a terra e allora si vedevano scene che ci facevano piangere. lì guardiano, invece di permettere al compagno caduto di riposarsi, gli somministrava ancora delle bastonate e tante volte di ritorno al campo gli faceva anche saltare quella specie di rancio".
Le mire di Tito sul finire del conflitto sono molto chiare: ripulire le zone conquistate dalla presenza italiana e costituire la settima repubblica jugoslava annettendosi la Venezia Giulia e il Friuli orientale fino al fiume Tagliamento.
Antonio Garbin, classe 1918, é soldato di sanità a Skilokastro, in Grecia. L'8 settembre 1943 viene internato dai tedeschi e attende la "liberazione" da parte delle truppe jugoslave a Velika Gorica. Ma si accorge presto di essere nuovamente prigioniero. "Eravamo circa in 250. Incolonnati e scortati da sentinelle armate che ci portarono a Lubiana dove, dicevano, una Commissione apposita avrebbe provveduto per il rimpatrio a mezzo ferrovia. Giunti a Lubiana ci avvertirono che la commissione si era spostata...". I prigionieri inseguono la fantomatica commissione marciando di città in città fino a Belgrado.
Prigionieri uccisi perché incapaci di rialzarsi.
"In 20 giorni circa avevamo coperto una distanza di circa 500 chilometri, sempre a piedi", racconta ancora Garbin ai Servizi speciali della Marina italiana. "La marcia fu dura, estenuante e per molti mortale. Durante tutto il periodo non ci fu mai distribuita alcuna razione di viveri. Ciascuno doveva provvedere per conto proprio, chiedendo un pezzo di pane ai contadini che si incontravano... Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti però sono stati molti di più... Ci internarono nel campo di concentramento di Osseh (vicino Belgrado, ndr). Avevamo già raggiunto la cifra di 5 mila fra italiani, circa un migliaio, tedeschi, polacchi, croati...".
Chi appoggia Tito nel perseguire il suo obiettivo di egemonia sulla Venezia Giulia? Naturalmente il leader del Pci Palmiro Togliatti, che il 30 aprile 1945, quando i partigiani titini sono alle porte di Trieste, firma un manifesto fatto affiggere nel capoluogo giuliano: "Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con loro nel modo più assoluto".
Skofja Loka, l'ospedale chiamato "cimitero".
E nei campi di concentramento finiscono anche i civili, come Giacomo Ungaro, prelevato dai titini a Trieste il 10 maggio 1945. "Un certo Raso che attualmente trovasi al campo di Borovnica", è la dichiarazione di Ungaro, "per aver mandato fuori un biglietto è stato torturato per un'intera nottata; è stato poi costretto a leccare il sangue che perdeva dalla bocca e dal naso; gli hanno bruciacchiato il viso e il petto così che aveva tutto il corpo bluastro. Sigari accesi ci venivano messi in bocca e ci costringevano ad ingoiarli".
I deperimenti organici, la dissenteria, le infezioni diventano presto compagni inseparabili dei prigionieri. "...Fui trasferito all'ospedale di Skotja Loka. Ero in gravissime condizioni", è il lucido resoconto del soldato di sanità Alberto Guarnaschelli, "ma dovetti fare egualmente a piedi i tre chilometri che separano la stazione ferroviaria dall'ospedale. Eravamo 150, ammassati uno accanto all'altro, senza pagliericcio, senza coperte. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodità, 60 o 70. Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea, con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano due, tre, quattro. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva...".
"Non dimenticherò mali maltrattamenti subiti", è la testimonianza del soldato Giuseppe Fino, 31 anni, deportato a Borovnica ai primi di giugno 1945, "le scudisciate attraverso le costole perché sfinito dalla debolezza non ce la facevo a lavorare. Ricorderò sempre con orrore le punizioni al palo e le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare un'ora o anche due legati e sospesi da terra; ricorderò sempre con raccapriccio le fucilazioni di molti prigionieri, per mancanze da nulla, fatte la mattina davanti a tutti...".
"Le fucilazioni avvenivano anche per motivi futili...", scrive il rapporto segreto riportando il racconto dei soldati Giancarlo Bozzarini ed Enrico Radrizzali, entrambi catturati a Trieste il 1° maggio 1945 e poi internati a Borovnica.
Per ore legati ad un palo con il filo di ferro.
«La tortura al palo consisteva nell'essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un'altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all'osso causandogli un'infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skoija Loka. Ma ormai non c'era più niente da fare, nel braccio destro già pul*lulavano i vermi... Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero...»
Dopo la tortura ad un braccio
Nel lager di Borovnica furono internati circa 3 mila italiani, meno di mille faranno ritorno a casa. A questi ultimi i soldati di Tito imposero di firmare una dichiarazione attestante il «buon trattamento» ricevuto. «I prigionieri (liberati, ndr) venivano diffidati a non parlare», racconta ancora Giacomo Ungaro, liberato nell'agosto 1945 «e a non denunziare le guardie agli Alleati perché in tal caso quelli che rimanevano al campo avrebbero scontato per gli altri».
I principali sistemi di tortura.
Per conoscere gli orrori di un campo di concentramento titino è opportuno riassumere i vari tipi di punizione, come emergono dai racconti dei sopravvissuti. La prima è la fucilazione decretata per la tentata fuga o per altri fatti ritenuti gravi da chi comanda il campo, il quale commina pena sommarie. Spesso il solo avvicinarsi al reticolato viene considerato un tentativo d’evasione. L’esecuzione avviene al mattino, di fronte a tutti gli internati.
C’è poi il "palo" che è un’asta verticale con una sbarra fissata in croce: ai prigionieri vengono legate le braccia con un fil di ferro alla sbarra in modo da non toccare terra con i piedi. Perdono così l’uso degli arti superiori per un lungo tempo se la punizione non dura troppo a lungo. Altrimenti per sempre.
Altra pena è il "triangolo" che consiste in tre legni legati assieme al suolo a formare la figura geometrica al centro della quale il prigioniero è obbligato a stare ritto sull’attenti pungolato dalle guardie finché non sviene per lo sfinimento.
Infine, c’è la "fossa", una punizione forse meno violenta ma sempre terribile, che consiste in una stretta buca scavata nel terreno dell’esatta misura di un uomo. Il condannato, che vi deve rimanere per almeno mezza giornata, non ha la possibilità nè di piegarsi nè di fare alcun movimento.
Norma Cossetto
Norma Cossetto era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite). Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria). Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Urnberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà...
Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ci fu un contrattacco di un reparto germanico. I tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d'arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri". Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti. Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata viva nella foiba".
La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.
Dei suoi diciassette torturatori, solo sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra ..." Fu uno dei rari casi in cui si riuscì a fare giustizia della barbarie dei vincitori.
Olocausto per 15 000
Le Foibe
Il termine "foiba" è una corruzione dialettale del latino "fovea", che significa "fossa"; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua nell'altopiano del Carso, tra trieste e la penisola istriana; possono raggiungere i 200 metri di profondità.
In Istria sono state registrate più di 1.700 foibe.
Le foibe furono utilizzate in diverse occasioni e, in particolare, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale per infoibare (“spingere nella foiba”) migliaia di istriani e triestini, italiani ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista slavo propugnato da Josip Broz meglio conosciuto come “Maresciallo Tito”.
Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati: stime attendibili parlano di 10-15.000 sfortunati.
Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il fil di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. (Il disegno è tratto da un opuscolo inglese).
Nel corso degli anni questi martiri sono stati vilipesi e dimenticati. La storiografia, lo Stato italiano, la politica nazionale, la scuola hanno completamente cancellato il ricordo ed ogni riferimento a chi è stato trucidato per il solo motivo di essere italiano o contro il regime comunista di Tito.
Un giudice italiano che ha tentato un processo contro alcuni responsabili delle stragi è stato bloccato in tutti i modi dallo stesso governo italiano.
Negare l’esistenza delle foibe non non costituisce reato ma evita la galera agli infoibatori,
Tenetelo a mente nella giornata della memoria
GM