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Discussione: L’Altra Memoria

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    I tanti olocausti che non si vogliono ricordare




    La sopravissuta ( e piuttosto bene: dalla foto dimostra una cinquantina d’anni) alla sioà Daniela Segre , intervistata dal Corriere della Sera sulla giornata ( che dura in realtà tutto l’anno) della memoria , ha dichiarato che bisogna evitare che la Storia sia in mano al potere e si avveri così l’incubo di Orwell. Non poteva dire meglio , salvo aggiungere che l’incubo di Orwell lo stiamo già vivendo alla grande. In Italia, come già in altri paesi d’Europa, sta per essere messa in atto la “lex Mastella” : la galera per reati di opinione.

    150 storici ( tra cui alcuni ebrei) hanno condannato la legge Mastella propugnata dal fanatico sionista e filo comunista ( già direttore dell’Unità) oltre che maggiordomo della grande finanza in America , Furio Colombo .

    Di Mastella il suo compare democristiano Cossiga ha scritto ( Corriere della Sera) “ avrebbe dato la tessera del suo partito a chiunque, anche ad un ex brigatista rosso”. E’ di questa pasta di uomini che sono fatti i governi europei. Pronti a qualunque bassezza pur di aumentare la loro fettina di potere. Mastella in verità li sopravanza quasi tutti: a lui quindi spetta il meritato onore di diventare il boia di quanto osassero “avere dei dubbi” sull’unica cosa al mondo su cui è totalmente vietato avere dei dubbi: la cosiddetta ( da qualche tempo, ordini superiori ) “sioà” .

    Per la verità i revisionisti non hanno mai negato che vi fossero persecuzioni, anche gravissime, contro gli ebrei. Hanno negato l’esistenza delle camere a gas. E’ cosa molto diversa.

    Hanno detto ( e con parecchie argomentazioni in numerosi libri) che le camere a gas come sono state descritte non potevano funzionare. Magari si tratta di argomentazioni fasulle.

    Ma dobbiamo dire che in genere le loro argomentazioni sono coperte solo da insulti di stampo staliniano ma mai vengono elencate contro prove. Perlomeno stando ai processi verbali di taluni processi che abbiamo avuto occasione di leggere. Si noti: la contestazione delle camere a gas non significa negare l’esistenza della persecuzione anti ebraica, ne l’essenza criminale della stessa, come di altre persecuzioni nella storia ( la parte più intollerabile dell’olocaustica è peraltro la pretesa dell’unicità, una pretesa assurdamente razzista, come se una vittima ebrea forse diversa dalla vittima di un’altra razza): significa solo contestare l’uso e l’esistenza di camere a gas. In effetti gli americani fecero morire – dopo la guerra – almeno 800.000 prigionieri di guerra tedeschi, senza alcun bisogno di complicate camere a gas ( si legga il libro, mai contestato, del canadese Bacque, “Altre perdite” Ed Mursia, libro peraltro fatto sparire dalle librerie) : bastò lasciarli morire di fame e in tre mesi, non in tre anni, quelli andarono all’altro mondo, pur essendo vigorosi soldati.

    Ma non vogliamo entrare in argomento perché sarebbe strumentalizzato ed è per giunta vietato, come unico tema storico regolato da dogma di legge: vietato discuterne e avere dubbi.

    Poiché però siamo assolutamente convinti che la nuova religione dell’olocausto non miri ad onorare la memoria delle vittime e ad evitare altre violenze, (e difatti proprio gli ebrei sono oggi tutt’altro che pacifisti) ma serva a giustificare dei misfatti del presente ed a ottenere ogni sorta di vantaggi passando sempre per vittime e perseguitati, riteniamo doveroso combattere delle leggi assurde, totalitarie e infami come quelle che condannano il “revisionismo”

    Per la giornata della memoria che commemora solo le vittime ebraiche ( gli altri sono sottouomini?) l’Italia ha dunque deciso di mettere in galera per anni 12 non i clandestini stupratori, gli assassini pluriomicidi dei bassi napoletani, gli sfruttatori schiavisti di prostitute ( al massimo beccano un paio d’anni che non fanno mai) ma degli storici controcorrente che non si adeguano alla storia obbligatoria. Il fatto che dicano il falso, se lo dicono, non significa assolutamente nulla: ci sono storici a nostri occhi infami come Luciano Canfora che minimizzano i crimini di Stalin, altri che lo esaltano , qualcuno potrebbe dire che la ghigliottina l’hanno inventata i preti: nessun sano di mente li metterebbe in galera perché dicono stupidaggini. Si deve però notare che in genere quando un governo mette in galera i cittadini per il solo reato d’opinione non è perché mentano , ma perché dicono la verità.

    Oltre alla galera per coloro che hanno dubbi, Mastella ha deciso che darà 100 milioni di euro non alle case dei pensionati che hanno già tanti soldi, ma ad un fondo per la memoria dell’olocausto di cui si sentiva terribilmente la mancanza, non se ne parla mai.

    E il presidente comunista Napolitano ha inaugurato un grande affresco alla stazione Centrale di Milano che riprodurrà scene dall’olocausto, affinché entrino nella vita di tutti i giorni anche dei poveri cristi che fanno magari i pendolari con ritardi biblici. Mentre aspettano il treno si indottrinano. Orwell non avrebbe immaginato di meglio.



    Ma da uno come Napolitano il peggio non è solo possibile ma probabile. Questo comunista dai tempi di Stalin probabilmente non ha dimenticato l’apporto decisivo degli ebrei alla causa comunista. E la memoria dei comunisti, come noto, è selettiva.





    Ma diamo anche noi un contributo alla memoria, a modo nostro. Ricordiamo le vittime di cui nessuno parla mai.

    Dell’olocausto dei civili tedeschi alla fine del conflitto abbiamo già parlato .

    Visto però che il quotidiano La Regione dedica il solito compitino obbligatorio ai deportati ebrei di Trieste, parliamo un po’ delle vittime dei comunisti di quella zona.

    Il governo italiano ha processato di recente persino i soldati semplici di sessant’anni fa che , in piena guerra, commisero dei crimini in Italia. Hanno ottant’anni e certo non davano ordini, ma la Giustizia italiana non perdona, mica per nulla c’è Mastella.

    Invece ha perdonato agli assassini di migliaia di italiani dopo la guerra. Gli assassinati dalle bande comuniste di Tito. Nessuno è mai stato processato e condannato. Solo i tedeschi, naturalmente, sono colpevoli.Hollywood non ha mai fatto un film su sessant’anni di massacri contro il popolo palestinese. Ma restiamo dalle parti di Trieste e aiutiamo la Regione rossa a ricordare bene.





    Testimonianze






    Dal 3 maggio 1945, per tre giorni e tre notti, le truppe del maresciallo Tito, avide di sangue, si scatenarono, con inaudita violenza, contro coloro che, da sempre, avevano dimostrato sentimenti di italianità. A Campo di Marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in piazza Oberdan, in viale Italia, i cadaveri s'ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia Questura, nelle scuole di piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte, senza che alcuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di Polizia, adibiti a camere di tortura. Altre centinaia di uomini e donne, d'ogni ceto e d'ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre. Furono i "desaparecidos". Gli avversari da mettere subito a tacere vengono individuati negli autonomisti, cioè coloro che sognavano uno Stato libero; ai furibondi attacchi di stampa condotti dalla "Voce del Popolo" si accompagnò una dura persecuzione, che già nella notte fra il 3 e il 4 maggio portò all'uccisione di Matteo Biasich e Giuseppe Sincich, personaggi di primo piano del vecchio movimento zanelliano, già membri della Costituente fiumana del 1921. Assieme agli autonomisti, negli stessi giorni e poi ancora nei mesi che verranno, trovarono la morte a Fiume anche alcuni esponenti del CLN ed altri membri della resistenza italiana, fra cui il noto antifascista Angelo Adam, mazziniano, reduce dal confino di Ventotene , secondo una linea di condotta che trova riscontro anche a Trieste ed a Gorizia, dove a venir presi di mira dalla Polizia politica jugoslava, sono in particolare gli uomini del Comitato di liberazione nazionale.. Ma la furia si scatenò con ferocia nei confronti di tutti gli esponenti dell'italianità cittadina. Furono subito uccisi i due senatori di Fiume, Riccardo Gigante e Icilio Bacci, e centinaia di uomini e donne, di ogni ceto e di ogni età, morirono semplicemente per il solo fatto di essere italiani. Oltre cinquecento fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti.

    Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza Verdi non era Fiumano, ma era venuto a Fiume con gli Arditi e per la sua piccola statura tutti lo chiamavano "maresciallino". Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro "Viva la Jugoslavia!". Lui, pur cosi piccolo, si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Viva l'Italia!". Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, poi lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: "Viva l'Italia! Viva l'Italia!" sempre più fioco, sempre più spento, finché il grido non divenne un bisbiglio, finché la bocca colma di sangue non gli si chiuse per sempre. Qualcuno morì più semplicemente, per aver ammainato in piazza Dante la bandiera jugoslava. Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo, Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa. Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine del molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola.





    I campi di sterminio di Tito






    Nel '43 le prime stragi in Istria; nel '45 il secondo atto: le foibe. Con un gran finale: la deportazione e l'uccisione di migliaia di nostri connazionali. Così il maresciallo comunista voleva ripulire la Venezia Giulia e la Dalmazia. Roma sapeva, ma ha sempre preferito tacere per non rompere con Belgrado.



















    I lager di Tito





    In quale campo della morte sono state scritte queste storie? A Dachau, a Buchenvald oppure a Treblinka? No, siamo fuori strada: questo è uno dei lager di Tito.

    Borovnica, Skofja Loka, Osseh. E ancora Stara Gradiska, Siska, e poi Goh Otok, l'Isola Calva. Pochi conoscono il significato di questi nomi. Dachau e Buchenvald sono certamente più noti, eppure sono la stessa cosa.Solo che i primi erano in Jugoslavia e gli internati erano migliaia di italiani, deportati dalla Venezia Giulia alla fine del secondo conflitto mondiale e negli anni successivi, a guerra finita, durante l'occupazione titina.





    I deportati dimenticati in nome della politica atlantica.





    Una verità negata sempre, per ovvi motivi, dal regime di Belgrado, ma inspiegabilmente tenuta nascosta negli archivi del nostro ministero della Difesa. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra fino ad oggi per codardia, hanno accettato supinamente di sacrificare sull'altare della politica atlantica migliaia di giuliani, istriani, fiumani, dalmati. Colpevoli solo di essere italiani.

    "Condizioni degli internati italiani in Jugoslavia con particolare riferimento al campo di Borovnica (40B-D2802) e all'ospedale di Skofjia Loka (11 -D-253 1) ambedue denominati della morte", titola il rapporto del 5 ottobre 1945, con sovrastampato "Segreto", dei Servizi speciali del ministero della Marina. Il documento, composto di una cinquantina di pagine, contiene le inedite testimonianze e le agghiaccianti fotografie dei sopravvissuti, accompagnate da referti medici e dichiarazioni dell'Ospedale della Croce Rossa di Udine, in cui questi ultimi erano stati ricoverati dopo la liberazione, e da un elenco di prigionieri deceduti a Borovnica. Il colonnello medico Manlio Cace, che in quel periodo ha collaborato con la Marina nel redigere la relazione che, se non è stata distrutta, è ancora gelosamente custodita negli archivi del ministero della Difesa, lasciò fotografie e copia del documento al figlio Guido, il quale lo ha consegnato alle redazioni del Borghese e di Storia illustrata.









    Manca il cibo ma abbondano le frustate.






    "Le condizioni fisiche degli ex internati", premette il rapporto, "costituiscono una prova evidente delle condizioni di vita nei campi iugoslavi ove sono ancora rinchiusi numerosi italiani, molti dei quali possono rimproverarsi solamente di aver militato nelle fila dei partigiani di Tito in fraterna collaborazione con i loro odierni aguzzini..." Nel rapporto del carabiniere Damiano Scocca, 24 anni, preso dai titini il 1° maggio 1945, si può leggere quanto segue: " il vitto era pessimo e insufficiente e consisteva in due pasti al giorno composti da due mestoli di acqua calda con poca verdura secca bollita (...) A Borovnica non si faceva economia di bastonate; durante il lavoro sul ponte ferroviario nelle vicinanze del campo chi non aveva la forza di continuare a lavorare vi veniva costretto con frustate...".







    "...Durante tali lavori", afferma il finanziere Roberto Gribaldo, in servizio alla Legione di Trieste e "prelevato" il 2 maggio, "capitava sovente che qualche compagno in seguito alla grande debolezza cadesse a terra e allora si vedevano scene che ci facevano piangere. lì guardiano, invece di permettere al compagno caduto di riposarsi, gli somministrava ancora delle bastonate e tante volte di ritorno al campo gli faceva anche saltare quella specie di rancio".

    Le mire di Tito sul finire del conflitto sono molto chiare: ripulire le zone conquistate dalla presenza italiana e costituire la settima repubblica jugoslava annettendosi la Venezia Giulia e il Friuli orientale fino al fiume Tagliamento.










    Antonio Garbin, classe 1918, é soldato di sanità a Skilokastro, in Grecia. L'8 settembre 1943 viene internato dai tedeschi e attende la "liberazione" da parte delle truppe jugoslave a Velika Gorica. Ma si accorge presto di essere nuovamente prigioniero. "Eravamo circa in 250. Incolonnati e scortati da sentinelle armate che ci portarono a Lubiana dove, dicevano, una Commissione apposita avrebbe provveduto per il rimpatrio a mezzo ferrovia. Giunti a Lubiana ci avvertirono che la commissione si era spostata...". I prigionieri inseguono la fantomatica commissione marciando di città in città fino a Belgrado.











    Prigionieri uccisi perché incapaci di rialzarsi.












    "In 20 giorni circa avevamo coperto una distanza di circa 500 chilometri, sempre a piedi", racconta ancora Garbin ai Servizi speciali della Marina italiana. "La marcia fu dura, estenuante e per molti mortale. Durante tutto il periodo non ci fu mai distribuita alcuna razione di viveri. Ciascuno doveva provvedere per conto proprio, chiedendo un pezzo di pane ai contadini che si incontravano... Durante la marcia vidi personalmente uccidere tre prigionieri italiani, svenuti e incapaci di rialzarsi. I morti però sono stati molti di più... Ci internarono nel campo di concentramento di Osseh (vicino Belgrado, ndr). Avevamo già raggiunto la cifra di 5 mila fra italiani, circa un migliaio, tedeschi, polacchi, croati...".

    Chi appoggia Tito nel perseguire il suo obiettivo di egemonia sulla Venezia Giulia? Naturalmente il leader del Pci Palmiro Togliatti, che il 30 aprile 1945, quando i partigiani titini sono alle porte di Trieste, firma un manifesto fatto affiggere nel capoluogo giuliano: "Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con loro nel modo più assoluto".

    Skofja Loka, l'ospedale chiamato "cimitero".





    E nei campi di concentramento finiscono anche i civili, come Giacomo Ungaro, prelevato dai titini a Trieste il 10 maggio 1945. "Un certo Raso che attualmente trovasi al campo di Borovnica", è la dichiarazione di Ungaro, "per aver mandato fuori un biglietto è stato torturato per un'intera nottata; è stato poi costretto a leccare il sangue che perdeva dalla bocca e dal naso; gli hanno bruciacchiato il viso e il petto così che aveva tutto il corpo bluastro. Sigari accesi ci venivano messi in bocca e ci costringevano ad ingoiarli".

    I deperimenti organici, la dissenteria, le infezioni diventano presto compagni inseparabili dei prigionieri. "...Fui trasferito all'ospedale di Skotja Loka. Ero in gravissime condizioni", è il lucido resoconto del soldato di sanità Alberto Guarnaschelli, "ma dovetti fare egualmente a piedi i tre chilometri che separano la stazione ferroviaria dall'ospedale. Eravamo 150, ammassati uno accanto all'altro, senza pagliericcio, senza coperte. Nella stanza ve ne potevano stare, con una certa comodità, 60 o 70. Dalla stanza non si poteva uscire neppure per fare i bisogni corporali. A tale scopo vi era un recipiente di cui tutti si dovevano servire. Eravamo affetti da diarrea, con porte e finestre chiuse. Ogni notte ne morivano due, tre, quattro. Ricordo che nella mia stanza in tre giorni ne morirono 25. Morivano e nessuno se ne accorgeva...".















    "Non dimenticherò mali maltrattamenti subiti", è la testimonianza del soldato Giuseppe Fino, 31 anni, deportato a Borovnica ai primi di giugno 1945, "le scudisciate attraverso le costole perché sfinito dalla debolezza non ce la facevo a lavorare. Ricorderò sempre con orrore le punizioni al palo e le grida di quei poveri disgraziati che dovevano stare un'ora o anche due legati e sospesi da terra; ricorderò sempre con raccapriccio le fucilazioni di molti prigionieri, per mancanze da nulla, fatte la mattina davanti a tutti...".

    "Le fucilazioni avvenivano anche per motivi futili...", scrive il rapporto segreto riportando il racconto dei soldati Giancarlo Bozzarini ed Enrico Radrizzali, entrambi catturati a Trieste il 1° maggio 1945 e poi internati a Borovnica.







    Per ore legati ad un palo con il filo di ferro.





    «La tortura al palo consisteva nell'essere legato con filo di ferro ad ambedue le braccia dietro la schiena e restare sospeso a un'altezza di 50 cm da terra, per delle ore. Un genovese per fame rubò del cibo a un compagno, fu legato al palo per più di tre ore. Levato da quella posizione non fu più in grado di muovere le braccia giacché, oltre ad avere le braccia nere come il carbone, il filo di ferro gli era entrato nelle carni fino all'osso causandogli un'infezione. Senza cura per tre giorni le carni cominciarono a dar segni di evidente materia e quindi putrefazione. Fu portato a una specie di ospedale e precisamente a Skoija Loka. Ma ormai non c'era più niente da fare, nel braccio destro già pul*lulavano i vermi... Al campo questo ospedale veniva denominato il Cimitero...»






    Dopo la tortura ad un braccio




    Nel lager di Borovnica furono internati circa 3 mila italiani, meno di mille faranno ritorno a casa. A questi ultimi i soldati di Tito imposero di firmare una dichiarazione attestante il «buon trattamento» ricevuto. «I prigionieri (liberati, ndr) venivano diffidati a non parlare», racconta ancora Giacomo Ungaro, liberato nell'agosto 1945 «e a non denunziare le guardie agli Alleati perché in tal caso quelli che rimanevano al campo avrebbero scontato per gli altri».





    I principali sistemi di tortura.





    Per conoscere gli orrori di un campo di concentramento titino è opportuno riassumere i vari tipi di punizione, come emergono dai racconti dei sopravvissuti. La prima è la fucilazione decretata per la tentata fuga o per altri fatti ritenuti gravi da chi comanda il campo, il quale commina pena sommarie. Spesso il solo avvicinarsi al reticolato viene considerato un tentativo d’evasione. L’esecuzione avviene al mattino, di fronte a tutti gli internati.

    C’è poi il "palo" che è un’asta verticale con una sbarra fissata in croce: ai prigionieri vengono legate le braccia con un fil di ferro alla sbarra in modo da non toccare terra con i piedi. Perdono così l’uso degli arti superiori per un lungo tempo se la punizione non dura troppo a lungo. Altrimenti per sempre.

    Altra pena è il "triangolo" che consiste in tre legni legati assieme al suolo a formare la figura geometrica al centro della quale il prigioniero è obbligato a stare ritto sull’attenti pungolato dalle guardie finché non sviene per lo sfinimento.

    Infine, c’è la "fossa", una punizione forse meno violenta ma sempre terribile, che consiste in una stretta buca scavata nel terreno dell’esatta misura di un uomo. Il condannato, che vi deve rimanere per almeno mezza giornata, non ha la possibilità nè di piegarsi nè di fare alcun movimento.





    Norma Cossetto





    Norma Cossetto era una ragazza di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l'università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite). Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione proletaria). Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Urnberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà...





    Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ci fu un contrattacco di un reparto germanico. I tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d'arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri". Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti. Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata viva nella foiba".





    La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.

    Dei suoi diciassette torturatori, solo sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra ..." Fu uno dei rari casi in cui si riuscì a fare giustizia della barbarie dei vincitori.











    Olocausto per 15 000






    Le Foibe





    Il termine "foiba" è una corruzione dialettale del latino "fovea", che significa "fossa"; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua nell'altopiano del Carso, tra trieste e la penisola istriana; possono raggiungere i 200 metri di profondità.





    In Istria sono state registrate più di 1.700 foibe.









    Le foibe furono utilizzate in diverse occasioni e, in particolare, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale per infoibare (“spingere nella foiba”) migliaia di istriani e triestini, italiani ma anche slavi, antifascisti e fascisti, colpevoli di opporsi all’espansionismo comunista slavo propugnato da Josip Broz meglio conosciuto come “Maresciallo Tito”.





    Nessuno sa quanti siano stati gli infoibati: stime attendibili parlano di 10-15.000 sfortunati.

    Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba; qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il fil di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. (Il disegno è tratto da un opuscolo inglese).









    Nel corso degli anni questi martiri sono stati vilipesi e dimenticati. La storiografia, lo Stato italiano, la politica nazionale, la scuola hanno completamente cancellato il ricordo ed ogni riferimento a chi è stato trucidato per il solo motivo di essere italiano o contro il regime comunista di Tito.

    Un giudice italiano che ha tentato un processo contro alcuni responsabili delle stragi è stato bloccato in tutti i modi dallo stesso governo italiano.

    Negare l’esistenza delle foibe non non costituisce reato ma evita la galera agli infoibatori,

    Tenetelo a mente nella giornata della memoria

    GM

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    Il giorno (dopo) la memoria


    Piperno, uno scrittore ebreo romano con i brutto vizio di dire certe verità scomode ( gliela faranno pagare) ha detto al Corriere della Sera che il giorno della memoria è un’operazione conformista. Gli ha risposto immediatamente un certo Montefoschi o Montefiori, uno insomma uno della premiata orchestra Paolo Mieli- Alain Elkann che gestisce l’ex giornale di Milano, dandogli del pazzo delirante. Guai a criticare quella che sta diventando una nuova religione.


    Il cosiddetto giorno della memoria cadeva ieri e ricorda la persecuzione degli ebrei nel secondo conflitto mondiale concluso sessant’anni orsono.

    In realtà il giorno della memoria dura tutto l’anno, in crescendo netto da sessant’anni e ora sta diventando ossessivo , un lavaggio del cervello che parte dall’infanzia e vi segue per tutta la vita.


    Un fenomeno unico nella storia dell’uomo. Ora da che mondo è mondo vi sono state guerre e stermini. Gli indiani delle americhe sono stati vittime del più grande genocidio della storia moderna, sono stati assassinati deliberatamente per rubare loro non solo le terre ma anche l’anima. I padri pellegrini, fra i primi arrivati nel nuovo mondo e delinquenti emeriti pur se armati di Bibbia, diffusero appositamente il vaiolo per sterminare alcune tribù indiane. Gli Stati Uniti, uno dei paesi più ipocriti della terra , popolati dai reietti dell’Europa, si sono immensamente arricchiti dopo aver cancellato 18 milioni di indigeni che avevano una civiltà moralmente superiore e infinitamente più in sintonia con le leggi delle natura di quelle dei loro carnefici.


    La storia del loro martirio è volutamente poco nota e pochi bambini sanno che il “leggendario” Buffalo Bill era un criminale che aveva il preciso compito di uccidere tutti i bufali della prateria per far morire di fame gli indiani.


    Per loro non ci sono giornate della memoria e meno che mai i cospicui risarcimenti che hanno ricevuto gli ebrei. Ma dei crimini volutamente dimenticati e ignorati di cui nessuno parla e al cui ricordo non c’è Hollywood a sfornare film i serie, non ci sono musei né speciali viaggi scolastici, diamo una breve sintesi nel testo l’altra memori ( ciccare) che presentiamo.


    Qui ci preme sottolineare un punto e una domanda.


    Il punto è : il ricordo della persecuzione antiebraica in Europa è diventato la prima religione.


    L’unica religione dopo il medioevo la cui contestazione ( per assurda che sia, questo non c’entra) prevede la gogna del reietto, la sua rovina sociale ed economica, fino a alla carcerazione.


    Il solo avere “dei dubbi” sui taluni dogmi della nuova religione conduce diritto in carcere e in certi paesi europei fino a 10 anni di galera.


    E questo in un’epoca storica dove in Europa tutti i valori, dalla famiglia alla patria, dall’onore al coraggio sono sovvertiti e vilipesi, dove si possono beffeggiare tutte la altre religioni cristianesimo compreso, dove sostenere che i cardinali sono tutti sospetti pedofili vi vale in plauso di certa intellighenzia e un magari un dibattito televisivo,mentre anche solo una critica politica ( e si badi: politica) ad una delle super attive aggressive comunità sioniste vi vale l’esecrazione mediatica e magari il tribunale. Si può dire che Stalin – il più feroce tiranno contemporaneo che sterminò a milioni i suoi stessi concittadini – era un brav’uomo che agiva a fin di bene ma è vietato negare che il nazionalsocialismo sia stato il male assoluti, anche se il male e il bene assoluti non esistono sulla terra.


    Questa religione nuova e imposta ormai raggiunge vertici incredibili, è insegnata nella scuole, sostituisce le religioni tradizionali , ha i suoi pellegrinaggi comandati: uno tsunami di iniziative che aumentano di anno in anno. Siamo arrivati ai Dvd in tutte le scuole, ai corsi universitari (1) !!


    Il punto è che non si tratta di giornata della memoria , che in modo truffaldino si è talvolta cercato di mascherare come giornata delle memoria di tutti i crimini mentre in realtà concerne solo gli ebrei, ma di una ricorrenza "religiosa" di importanza ormai sproposita che da sessanta anni aumenta e diventa sempre più pervasiva.


    La domanda conseguente di cui accennavamo è la conseguenza del puntosopracitato. Ed è una domanda politica . Come è possibile che da un punto all’altro dell’Europa, piccolo Ticino compreso, ad uno schioccar di dita tutti i governi recepiscano gli stessi ordini? Le famose e indecenti leggi contro la libertà d’opinione e contro il revisionismo storico vengono approvate in un battibaleno a Berlino, Vienna, Parigi, Roma, Berna….Leggi infinitamente più importanti per i popoli europei sono paralizzate per anni ma questa no. L’oligarchia immediatamente si inginocchia. Ubbidisce.


    Non c’è richiesta che i sacerdoti della nuova religione presentino che non venga subito esaudita. Senza fiatare. Se un politico si oppone, è il caso di Le Pen, in Francia, viene distrutto, nonostante abbia un largo seguito popolare. Uno strapotere incredibile che non si spiega solo con l’indifferenza e diciamo pure la viltà di masse ormai nutrite solo di deformazioni giornalistiche, propaganda e stupidità televisive. Ormai si arriva ad imporre persino un lessico speciale. Sino agli anni 80 si parlava di persecuzioni anti ebraiche. Poi una trasmissione televisiva, manco a dirlo messa insieme a Hollywood, fu intitolata Olocausto e ovviamente distribuita capillarmente in Europa. In quell’occasione ci fu l’unica reazione germanica del dopoguerra: non potendone più delle denigrazioni, cui seguvanp puntualmente nuove richieste di risarcimente Der Spiegel – pur assolutamente asservito alle oligarchie dominanti - pubblicò le foto agghiaccianti dei cadaveri dei bambini uccisi dai bombardamenti di Dresda e altri dai criminali dell’Armata rossa. Si vedevano mucchi di bambini tedeschi accatastati. Ci fu chi ebbe il fegato di accusare i tedeschi di “revanscismo” e Der Spiegel arrivò ignobilmente a scusarsi. Quelle immagini furono comunque dimenticate subito ma la parola “olocausto” fu imposta. Che cosa significa? Niente nel caso specifico, è un termine religioso ebraico. Ma divenne d’uso comune praticamente d’obbligo. Poi siccome si procede a fette di salame, ci fu l’imposizione della parola “Shoà” Che nelle lingue europee significa un bel niente e non si vede perché si debba imparare un termine ebraico. A meno che sia obbligatorio fra poco.


    Se così sarà cominceremo a leggere articoli sui giornali , tutti i giorni sullo stesso argomento. Chi è nato sessant’anni fa dopo l’ultimo conflitto non ha passato probabilmente un giorno della sua vita cosciente senza sentire in qualche modo parlare degli ebrei. Continuamente. Al cinema, alla televisione, sui giornali: se prendete il Corriere della Sera dagli anni 50 in poi tutti i giorni o quasi c’è un articolo sugli ebrei. Con Mieli siamo a due o tre articoli al giorno. Sembra che il mondo intero debba dipendere dalla situazione degli ebrei. Altro che giorno della memoria! Sarebbe già tanto non sentirne parlare per una settimana!


    E magari sentire più altre tragedie, altre oppressioni molto più attuali.


    Viene il dubbio purtroppo che la giornata della memoria serva non tanto a ricordare che l’uomo talvolta dimentica i valori elementari che dovrebbero guidare il sua agire anche in momenti terribili come la guerra ( che purtroppo ,piaccia o meno agli imbecilli sedicenti pacifisti, è nella natura delle cose e ci sarà sempre ) ma a rappresentare un mondo manicheo con i buoni da una parte, sempre la stessa , e i cattivi dall’altra. Viene il dubbio che i movimenti sionisti , danneggiando gli stessi ebrei che fortunatamente sempre più spesso trovano il coraggio di protestare e prendere le distanze da certi caporioni estremisti e aggressivi, vogliano grazie a notevoli mezzi finanziari e enorme influenza politica, fare una religione dell’ “olocausto” per porsi al riparo da ogni critica. Per evitare che uno stato come Israele, che ha violato e viola tutte le regole internazionali, compreso l’armamento nucleare, possa essere considerato per quelloche Bush definirebbe uno stato canaglia.


    Per evitare, dichiarandosi sempre vittime e perseguitati, che l’opinione pubblica possa legittimamente criticare , come critica per esempio le ingerenze della Chiesa cattolica, anche l’influenza a volte che i sionisti hanno nella vita politica e che condiziona in modo plateale le scelte politiche di tutte le oligarchie europee.


    Per fare in modo, per esempio che ci sia anche una giornata della memoria per le sofferenze del popolo palestinese, cui è stato strappato tutto, persino la sua storia, e che si vorrebbe facesse ancora concessioni a chi naviga nell’oro.


    E per chi volesse avere un’idea invece degli orrori che si è voluto dimenticare, pubblichiamo di seguito alcune agghiaccianti testimonianze sull’olocausto di milioni di tedeschi tra cui donne, bambini e prigionieri di guerra.






    I crimini che è vietato ricordare…




    La memoria sembra valere oggi solo per le vittime ebree dell’ultimo conflitto . Una memoria che rasenta la costrizione , pervasiva, capillare,. Martellante. Su citano eventualmente altre vittime ( zingari o altri, purchè dei tedeschi) solo per inciso, una specie di contentino per non fare apparire quella che ufficialmente dovrebbe essere un ricordo per tutte le vittime, per quello che realmente è, un’esaltazione a senso unico, per 60 anni, delle sole vittime ebree.




    Di apocalittica dimensione, fu la tragedia che si abbattè sulle donne tedesche della Slesia, dove vennero considerate "bottino di guerra" dalle truppe sovietiche conquistatrici, che ne violentarono, stuprarono e massacrarono oltre quattro milioni. E' una pagina, questa, sulla quale i vincitori hanno imposto per decenni il più totale silenzio. La tragedia iniziò quando la Slesia, regione orientale di confine della Germania, venne raggiunta e invasa dalle truppe dell'Armata Rossa che avanzavano verso occidente. In quelle terre martoriate non ci fu più legge umana né trattato internazionale che potesse valere, ma solo la legge della giungla e del terrore imposta dalle orde bolsceviche. Quattro milioni di donne violentate: quattro milioni di storie agghiaccianti che è vietato ricordare, delle quali esiste memoria scritta grazie alle autorità cattoliche della Germania Orientale che, nel dopoguerra, riuscirono a raccogliere testimonianze e documenti. Sull'argomento vennero infatti pubblicati, negli anni '50, alcuni "libri bianchi" a cura di monsignor Josef Perche, già vescovo di Breslavia al momento dell'occupazione sovietica.

    Fu la strage degli innocenti. Erano bambini tedeschi, ancora abbastanza piccoli e leggeri da poter essere presi per i piedi, roteati in aria e scagliati con la testa a fracassarsi contro le ruote dei carri che li trasportavano. Questa fu la sorte spaventosa di migliaia di bambini tedeschi, in fuga con le loro famiglie dalle terre orientali della Germania verso occidente in lunghe colonne di carri trainati da buoi. Decine di migliaia di carri, centinaia di migliaia di donne e bambini terrorizzati, mentre gli uomini continuavano a combattere e a morire nell'illusione di contenere l'avanzata sovietica. Ma la marcia di queste colonne venne quasi sempre bloccata dai comunisti polacchi che controllavano ormai, in quelle ultime settimane di guerra, gran parte del territorio già occupato dai tedeschi nel 1939. A quei posti di blocco furono compiute atrocità inimmaginabili. Fucilazioni in massa dei profughi, stupri e violenze sulle donne indifese e, soprattutto, l'eliminazione sistematica dei bambini tedeschi perché si spegnesse il "seme del popolo germanico". Anche su questa allucinante pagina di storia è d'obbligo il silenzio da sessant’anni. Un silenzio rotto solamente una decina di anni or sono da un documentato libro di Picone Chiodo, edito dalla Mursia, intitolato "E malediranno l'ora in cui partorirono", ma sul quale la pseudo*cultura politicamente corretta ha fatto scendere un sudario tombale.
















    L’odissea tedesca negli anni 1944-1949 ",


    Dall’ottobre 1944, partendo dalla Prussia orientale e ocidentale, per poi estendersi alla Slesia, Boemia, Moravia, Slovacchia, Polonia, Volinia, Ungheria, Slovenia, Croazia, Voivodina, Transilvania, Banato e Ungheria insomma, tutta l’Europa centro-orientale , iniziava la deportazione delle popolazioni tedesche, che da molti secoli pacificamente vi abitavano, dai territori progressivamente occupati dall’Armata rossa.

    Quando poi, nel 1945, le ostilità cessarono, sull’esempio di quanto era già stato iniziato negli ultimi mesi di guerra, ne venne messa in atto la “liquidazione”: linciaggi, sevizie, massacri indiscriminati, senza distinzione alcuni fra nazisti e antinazisti, colpevoli e innocenti, militari e civili, uomini e donne, adulti, vecchi e bambini. Per l’occasione vennero rimessi in funzione anche alcuni dei lager nazisti. In uno di essi, sotto comando di un ebreo polacco, furono compiuti gli eccidi più abbietti.

    Su questa drammatica pagina della storia europea è sceso un velo di censura : ha dimostrazione che nelle “giornate della memoria” non sono certo sentimenti umanitari che prevalgono.



    Nell'Europa centrale, queste pulizie etniche hanno fatto si che gli stati siano diventati più omogenei che dopo la fine della Prima guerra mondiale. Si tratta del più massiccio esodo di popolazione che la storia europea abbia mai conosciuto. La conseguenza è, come ha scritto Sergio Romano, che "per la prima volta nella storia moderna dell'Europa centro-orientale i confini di uno stato coincidono spesso con i confini linguistici e culturali di una nazione".

    Le cifre sono terribili: 16.500.000 tedeschi espulsi dai terrirori dell’est e quasi 2.500.000 di morti per stenti, maltrattamenti, sevizie, esecuzioni capitali. Cittadini comuni, che nulla a che vedere avevano con il partito nazionalsocialista tedesco, “vittime” che vanno ad aggiungersi alle “vittime” di altri popoli, ma che, a differenza di questi, non solo sono state dimenticate, ma vergognosamente negate.

    Marco Picone Chiodo, nel 1988 ha pubblicato per i tipi di Mursia- E malediranno l'ora in cui partorirono,Ed Mursia. Uno dei pochi libri editi in Italia che documenta questa atroce vicenda. Un libro sparito dalla circolazione quasi subito mentre il suo autore trovava più salutare trasferirsi in Germania.

    ... Sembravano, a vederle, carovane di pionieri del Far West, sequenze tratte da uno di quei colossali film con cui Hollywood aveva reso familiare a tutto il mondo una pagina epica della breve storia statunitense. Anche nel nome tedesco-olandese, Treck, come erano chiamate, risuonava una certa affinità, ma tutto si fermava qui. I Trecks che in quei giorni di gennaio del 1945 percorrevano la Prussia Orientale non trasportavano esseri umani verso la "terra felice", ma fuggiaschi che avevano abbandonato casa ed averi, lavoro e benessere, per non cadere in mano al nemico che avanzava da Oriente. (...)




    Una colonna di profughi tedeschi


    A dare il via al massiccio esodo era stato, ancora una volta, il 3° Fronte della Russia Bianca. Il 13 gennaio, partendo dalle posizioni su cui il fallito il tentativo d'invasione di dodici settimane prima lo aveva ricacciato, esso aveva investito la zona di Ebenrode-Schloßberg in coincidenza con l'attacco che, in territorio polacco, il 2° Fronte della Russia Bianca aveva sferrato sulla Narev, tra Pultusk e Roshansk. In un primo tempo lo scontro con l'avversario si era rivelato più duro del previsto, e tanto Cerniakovskij a Nord, quanto Rokosovskij a Sud non avevano potuto registrare il successo immediato che arrideva ai loro colleghi Konev e Zukov, ma il 16 gennaio, gettando nell'offensiva quante più forze possibili, avevano avuto ragione, l'uno della 3ª armata corazzata, l'altro della 2ª armata, vale a dire di due delle tre grandi unità del gruppo Centro, che costituivano la difesa della Prussia Orientale. Da quel momento una valanga di ferro e di fuoco, non più contenuta, si era riversata sulla popolazione.
    Come per i loro connazionali in Polonia, anche per i fuggiaschi prussiani la salvezza aveva itinerari obbligati: per chi viveva nei circondari a nord-est di Labiau-Wehlau, cioè tra il Pripjat' ed il Niemen, erano Königsberg e la costa baltica del Samland; per chi abitava nei circondari da Angerburg a Johannisburg, cioè nella zona dei Laghi Masuri, era invece la sponda sinistra della Vistola, da superare, nei pressi della foce, a Marienwerder o a Dirschau. Cosicché, quando partirono, si misero ovviamente in viaggio per raggiungere quelle località, ignari che, così facendo, andavano a finire dritto in braccio al nemico che nelle stesse ore si trovava pure in marcia per le medesime destinazioni. Il 3° Fronte, stabiliva infatti il piano d'operazione sovietico, doveva conquistare Königsberg e cacciare verso la Vistola le unità tedesche chierate nel Nord della regione ed il 2° Fronte, da parte sua, doveva penetrare da Sud in Prussia e puntare al Baltico, a Elbing. In tal modo le truppe vinte da Cerniakovskij sarebbero finite nella rete tesa da Rokosovskij e l'intera regione sarebbe diventata un sacco senza uscita. (...)
    Braunsberg fu abbandonata il 20 marzo e Heiligenbeil il 24. La sacca della 4ª armata scompariva quando cinque giorni dopo gli ultimi 2.530 soldati tedeschi evacuavano la penisoletta di Balga. Ma la lotta non cessò: ci si batteva ancora sul cordone litoraneo, nel Samland, a Königsberg

    L’ultimo contrattacco tedesco


    L'assedio rodeva Königsberg come un male incurabile distrugge un corpo debilitato, lentamente e progressivamente: i giorni della sua relativa sopportabilità erano tramontati e viveri e medicinali e tutto quello che assicura l'esistenza di una città di 100.000 abitanti cominciavano a fare pauroso difetto. Pure le armi e le munizioni, e per sopperirvi nelle falegnamerie della città si costruivano mine in legno, nelle fabbriche granate e altri ordigni bellici. Vecchi pozzi erano stati riscoperti e rimessi in efficienza, ognuno si organizzava per resistere il meglio possibile. Al comando militare della città era tuttavia chiaro che solo una massiccia evacuazione dei civili presenti poteva riequilibrare le risorse esistenti e risparmiare oltretutto inutili sacrifici di vite umane. All'uopo occorreva forzare l'accerchiamento e ripristinare il contatto con la fascia costiera tenuta dal distaccamento dell'armata Samland, costituito dopo i movimenti di truppa del 9 febbraio. Un compito arduo, tenuto conto del rapporto di forze tra i due avversari e della incontrastabile mobilità delle forze sovietiche, che il generale Lasch decise comunque di affrontare il 19 febbraio.
    Alle 5,15 di quel giorno, coperti da una fitta oscurità, i reparti destinati all'azione si lanciarono di gran corsa sulle posizioni nemiche, superarono gli avamposti e due ore dopo dominavano, in una larghezza di alcuni chilometri, l'epicentro dello schieramento sovietico. La lotta si protrasse violenta per tutta la giornata in una successione di scontri corpo a corpo, nella progressiva distruzione, con l'abile impiego del loro armamento leggero, dei mezzi bellici doviziosamente distribuiti per tutto il territorio, e proseguì l'indomani con pari veemenza, finché, appoggiati pure dagli assalti delle unità del Samland, gli attaccanti ebbero ragione del sovietico e ristabilirono il collegamento tra la città natale di Emmanuel Kant [Königsberg; ndr] e Pillau. Erano sfiniti: c'erano reparti di giovanissimi della Hitlerjugend che avevano marciato per 50 km ininterrottamente, sempre combattendo, senza chiudere occhio per due giorni interi. Ma tutti, se fosse stato necessario, avrebbero continuato a combattere stimolati dagli orrori che avevano visto nei villaggi riconquistati: donne, spesso più donne legate assieme, con ancora la corda al collo con la quale erano state strozzate; donne con la testa infilata nella mota delle tombe e in una concimaia, con chiari segni di bestiali trattamenti al basso ventre; animali uccisi, abitazioni saccheggiate: apparecchi radio, macchine per cucire, aspirapolvere, biciclette, oggetti sanitari, letti, poltrone, vasellame, ammassati, pronti per essere caricati lungo la linea ferroviaria. Nei giorni seguenti decine di migliaia di cittadini si incamminarono, attraverso il varco aperto tra le fila sovietiche, per Pillau, ma non tutti la raggiunsero: alcune migliaia, demoralizzati dal freddo intenso e dalla fame, impauriti dall'incognita di un viaggio per mare, tornarono a rinchiudersi nella città. Persero l'ultima occasione di sfuggire agli orrori di un assedio che sarebbe durato sino al 9 aprile 1945 (...)
    Un anno e mezzo dopo le decisioni di Potsdam, il 1° aprile 1947, un modesto trasporto con circa 50 persone lasciò Königsberg e, strettamente sorvegliato all'interno ed all'esterno dei vagoni, prese la direzione di Preußisch-Eylau-Stettin. Lo seguirono altri convogli ed in tutto, a fine giugno, 2.300 tedeschi avevano lasciato per sempre la Prussia Orientale. Poi tutto si fermò. Senza fretta, con burocratica pignoleria, i sovietici si organizzarono, lasciarono passare quattro mesi e, a fine ottobre, con azione in grande stile, sgomberarono integralmente il territorio dei suoi vecchi abitanti.
    Così la più grande azione di trasferimento di popolo che l'Europa avesse mai visto prese il suo pieno sviluppo. Scomparvero i tedeschi dalle città e dalle campagne, dal Baltico al Danubio, e poi scomparvero i Lager per la liberazione degli internati ...



    Quel giorno, Ludek Pachmann, campione ceco di scacchi, si trovò a passare per le vie e le piazze cittadine e con fatica riuscì a dominare l'orrore che provava. Ai lampioni, appesi per i piedi, vide ardere uomini in divisa, mentre dalle case venivano trascinati fuori civili e condotti, con impietosi maltrattamenti e schiamazzi, nelle prigioni o nei Lager improvvisati in scuole, cinematografi, seminterrati. All'imbocco della Wassergasse si trovò davanti tre salme nude, mutilate sino all'irriconoscibile, i denti totalmente sradicati con bastonate, la bocca null'altro che un foro sanguinolento. Infilò la Stefangasse e incontrò alcuni tedeschi che trascinavano fuori i corpi inanimati di loro connazionali. "To jacu prece vasi bratri ted'je polibetjeo!" (Sono ben vostri fratelli, baciateli!) ordinava loro la Revolucni Garda. E loro si chinavano e, comprimendo le labbra, baciavano quei morti. Pachmann non ebbe il coraggio di proseguire e fuggì da quello spettacolo dove anche vecchi, donne, bambini venivano mutilati, bastonati a morte, violentati, mentre Radio Praga non cessava di incitare: "Uccidete, uccidete i tedeschi ovunque li incontrate. Non abbiate riguardo per bambini, donne, vecchi. Estirpateli alla radice". [...] Nella città, frattanto, la Revolucni Garda ed il popolo, sia uomini che donne, garantiti dalla definitiva scomparsa delle forze tedesche, infierivano sugli 80.000 loro concittadini tedeschi: invasero gli ospedali e bastonarono, strozzarono, evirarono, affogarono nei lavandini i feriti, trascinarono in strada per farli calpestare dai soldati a cavallo gli infermi, facendosi beffe degli emblemi della Croce Rossa che spiccava sui fabbricati a loro protezione. Non risparmiarono neppure i loro connazionali sospetti. A Praga-Weinberge tagliarono i seni e aprirono il ventre di una ragazza in stato di gravidanza fidanzata ad una SS, la fecero fotografare dalla stampa e ne attribuirono l'atto ai tedeschi. Altri all'ingresso della stazione Wilson se la presero con un'avvenente bionda, troppo bionda, a loro giudizio, per essere una ceca; le corsero incontro e la circondarono e, nonostante che la ragazza in perfetto ceco urlasse di non essere una tedesca, la denudarono e infierirono sul suo corpo. Era ancora viva quando un pesante carro di birra passò da quelle parti: con un gran vociare lo fermarono e staccarono i cavalli, poi li legarono alle braccia e alle gambe della loro vittima e, incitando gli animali, li fecero muovere in opposta direzione. La domenica, 13 maggio, arrivò il presidente del loro governo in esilio, Edvard Benes. Lo accolsero con plauso ed in suo onore schierarono dei tedeschi sul suo percorso e li arsero vivi. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.152-153)


















    Un ricordo senza memoria


    I sentimenti e le emozioni della bimba tredicenne, ancora quaranta anni dopo, non erano appassiti, tacque per qualche istante e poi proseguì a raccontare: "Seduta accanto a mia sorella aspettavo il ritorno della mia mamma e mi chiedevo perché tardasse tanto. Che io, i suoi due figli e quella gente attorno a noi mezzo malandata fossimo oggetto di tanta alta strategia politica, allora non potevo saperlo. Mi meravigliò, dunque, il vedere persone venire verso di noi, anziché noi andare avanti e non vedere mia mamma e mia sorella, ma non ebbi il tempo di chiedere spiegazione perché, da ogni parte, spuntarono individui mezzo in divisa e mezzo in borghese con dietro soldati russi che mi fecero tanta paura. I cechi corsero verso di noi e con randelli e col calcio delle armi ci tiravano giù dagli automezzi. Io mi vidi afferrare da due mani robuste e scaraventare in un gruppo di ragazzotti che si misero a sballottarmi di qua e di là come fossi una palla, finché giunse un tizio con un paio di forbici in mano e, fra risa e dileggi, mi tagliò le lunghe trecce che portavo, all'usanza delle ragazzine tedesche. Un russo in quel mentre vide gli orecchini che mi ornavano i lobi e si fece largo e, quando mi fu davanti, me li strappò. Mi lasciarono in pace ed allora, comprimendomi le orecchie doloranti, piangente e terrorizzata, corsi verso il gruppo dove era mia sorella coi bimbi e lì restai, come gli altri, ad attendere che gli aggressori finissero di picchiare e di derubare. Solo allora echeggiarono delle parole, ci misero in colonna e, scortati come prigionieri, ci ordinarono di muoverci". (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.155)

    Un patriota boemo


    Eduard Benes non perse tempo. Rientrato a Praga, dopo sette anni di assenza, prese posto sul seggio di presidente della Repubblica e, col suo governo nazionalcomunista, si preoccupò per prima cosa, di saldare la partita coi tedeschi che aveva sottomano nei Sudeti e in Boemia-Moravia. [...] Anziché meditare sulle vere cause delle sue disgrazie dovute, come potevano documentargli i suoi amici inglesi, alla sua ventennale politica di oppressione delle minoranze, si era dato da fare per ottenere da Churchill e alleati il consenso a liberarsi, il giorno del suo ritorno in patria, in modo definitivo e radicale, di tutti i tedeschi ed affini che popolavano il suo Stato. C'era riuscito e, con questa garanzia in tasca, aveva fatto il suo ingresso a Praga. [...] Comparvero in questo spirito, in successione di tempo, i decreti di epurazione e liquidazione della comunità tedesca e pure della minoranza magiara esistente nel paese. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.196-197)





    I principali decreti che colpirono tedeschi e magiari, nonché i traditori e i collaborazionisti, portano le date: 19 maggio 1945 (annullamento dei contratti di proprietà successivi al 29 ottobre 1938 e passaggio dei beni ad una amministrazione nazionale); 19 giugno 1945 (punizione dei delitti nazisti, dei traditori e dei collaboratori e istituzione dei tribunali speciali); 21 giugno 1945 (confisca delle proprietà terriere); 2 agosto 1945 (esclusione dalla comunità cecoslovacca dei tedeschi e dei magiari); 25 ottobre 1945 (confisca di tutti i beni nemici). (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.197)


    Testimonianze


    Così capitò ad Hildegard Hurtiger, cittadina praghese da 23 anni, di vedersi piombare nel suo appartamento un gruppo di armati e intimare di seguirli. [...] L'accusò , la commissaria, di aver fatto rinchiudere 16 cechi in campo di concentramento, dove erano morti, e non credendole che lei a quell'epoca si trovava a Teplitz da quattro anni, la schiaffeggiò ben bene e ordinò di portarla al reparto segregazione. [...] Dormiva in un angolo del locale, sfinita dalle emozioni provate, quando fu svegliata di soprassalto da energiche voci che ordinavano di uscire. Si tirò su e seguì gli altri e quando tutti arrivarono in cortile furono messi in fila; passarono le guardie rosse, scelsero dieci persone - uomini, donne, bambini - che allinearono e fucilarono; dopo di che riportarono i risparmiati in segregazione. Li svegliarono ancora nella notte, e sempre per la stessa macabra cerimonia, ed in una di queste vide cadere sotto il plotone d'esecuzione i suoi due fratelli con le famiglie ed il nipotino di cinque mesi. Era prigioniera e dovette reprimere le urla di dolore che la opprimevano; seguì come un automa gli altri e cominciò, lei pure, a scavare le fosse per tutti quei morti, spogliare le salme e seppellirle. [...] Alla segregazione si sfogavano con lo scaricare di continuo le armi addosso al mucchio di reclusi e a lasciare che i morti si accumulassero. In una di queste azioni lei si prese una pallottola di striscio al collo; strinse i denti, tamponò alla meglio il sangue e, con la paura di essere notata, si cacciò sotto i corpi dei caduti. Vi rimase sino alla sera dell'indomani, quando i guardiani, per finirla coi feriti, salirono sopra al mucchio e cominciarono a trafiggerlo con le baionette e lei si ebbe una mano trapassata da parte a parte. Non fiatò neppure questa volta e, ancora una volta, se la cavò. Non erano in fondo le sue ferite che, in quell'ambiente, dove ognuno portava i segni dei maltrattamenti, potevano dare nell'occhio. Nell'occhio davano i prigionieri inabili a muoversi e soprattutto le donne incinte. A queste pensavano le ragazze cecoslovacche della Guardia Rossa. Le prelevavano e le conducevano in cortile, dove, denudatele, le malmenavano per poi cacciarle nei cessi e continuare a picchiarle fintanto che i loro ventri scoppiavano. Lo spettacolo era atroce e per lei e le altre donne in particolare che dovevano recuperare quei corpi sfigurati e gettarli in una fossa anonima, era ogni volta uno strazio. Così andò avanti fra pene e fame ché alla Scharnhorstschule non sfamavano neppure i bimbi ai quali al pasto presentavano loro delle sputacchiere e chi le rifiutava veniva bastonato senza pietà, finché in autunno la tolsero da quel luogo e la misero al lavoro coatto alla Philips della città. Uscì, ancora sotto l'impressione e il disgusto delle umiliazioni sopportate da ultimo nella chiesa di San Gottardo. C'erano sempre salme, sparse qua e là, in quel luogo sacro che loro, dopo aver dovuto baciare quella massa in decomposizione, dovevano accatastare, e a lavoro finito leccare il sangue che lordava il pavimento, sotto lo sguardo attento del popolino, sempre presente ovunque si infieriva, sempre pronto ad esaltarsi, a sorvegliare, a fornire la sua quota di violenza. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.198-199)





    ...Fu la ragione che portò i 365 uomini del 534° reparto lanciafiamme a chiudere la propria esistenza sul selciato della cittadina di Liebeznice. [...] Il soldato Ludwig Breyer fu uno dei primi ad intrevvederne la causa. Viaggiava a bordo di un autocarro di testa e sentì il mezzo frenare di colpo; si protese in avanti e notò la strada bloccata e ai loro fianchi comparire e schierarsi in posizione di fuoco gruppi di armati. [...] Andò il sergente maggiore incontro all'ufficiale a parlamentare ed il colloquio dovette essere militarmente corretto, poiché il sottufficiale tornò dai suoi uomini e comunicò loro l'impegno del maggiore di lasciarli proseguire liberamente previa consegna delle armi portatili. La guerra era finita ed essendo loro dalla parte perdente, la condizione era accettabile. Ludwig Breyer scese a terra e come i suoi compagni si sfilò l'armamento in dotazione che fu ritirato da un insorto e portato in una cascina vicina, ma al camion non poté più tornare. Gli insorti circondarono il reparto disarmato e costrinsero gli uomini ad allinearsi spalla a spalla su cinque file e così li tennero, in attesa di una decisione che venne nelle prime ore del pomeriggio. Così dovette essere poiché erano le 14 quando furono condotti sulla statale per Praga e, strettamente scortati, fatti marciare verso Liebeznice. Per strada gli insorti furono sostituiti da altri insorti e pure il maggiore, a un certo momento, non lo si vide più; capirono di essere stati ingannati quando, a un 200 m. da Liebeznice, fu loro tolto tutto quando ancora possedevano e lasciati con la sola uniforme. L'ordine: "Mani in alto, di corsa nel paese" li colse in quello stato. Superarono a malapena le prime case, che da porte e finestre li colpì un nutrito fuoco incrociato e 318 di loro caddero uccisi o feriti. Correndo e defilandosi Ludwig Breyer riuscì a sottrarsi a quella imboscata, ma fu raggiunto e fatto prigioniero con gli altri 56 compagni superstiti. I cechi si contentarono di finire con un colpo alla nuca i feriti e di fare con i sopravvissuti un fiero ingresso in Praga. L'armistizio mise fine ai passaggi di militari tedeschi e di conseguenza portò pure all'esaurimento di qualsiasi azione guerrigliera; obiettivo degli insorti rimasero solo i civili. La Revolucni Garda si affiancò tutta quanta ai poliziotti della SNB (Sbor Národni Bezpiecnosti) e alla Svoboda Garda, i soldati comunisti del generale Ludwig Svoboda, arrivati con i sovietici, e con loro assunse il compito di esecuzione e sorveglianza dei provvedimenti che comandi militari cechi e i Národni vjbor (i Comitati nazionali) locali, emettevano nei confronti della popolazione tedesca. I divieti a cui questa doveva ottemperare erano già numerosi; non poteva uscire di casa dopo una certa ora e fare acquisti di alimentari fuori degli orari prescritti; le erano proibiti i locali ed i mezzi pubblici e l'uso dei marciapiedi; doveva tenere la porta di casa aperta per facilitare controlli e perquisizioni. I provvedimenti dei costituiti organi autoritari aggravarono la sua situazione. Uscendo da questo abituale standard d'oppressione, essi la esclusero dagli alimenti essenziali come latte e uova e le imposero la consegna, pena la morte, di tutti gli oggetti di valore. Terzo tempo, la radunarono e la deportarono. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.199-201)





    Così ottimista non si sentì invece Alois Ullmann, quando alle 10 del mattino, recandosi in centro, notò la presenza di quei temuti soldati e conferma ne ebbe quando, in via Dresda e in via Schmejkal, li vide scacciare dai marciapiedi o addirittura gettarli giù tutti i tedeschi che vi camminavano con al braccio la fascia bianca di prescrizione per loro. Passando poi dalla stazione vide scendere, da un treno appena arrivato da Praga, circa 300 individui dai 18 ai 30 anni, dall'aspetto poco rassicurante che lo fecero sospettare che di nuovo, da qualche parte, era stato svuotato un altro penitenziario. Non ebbe allora più dubbi, per la conoscenza che aveva di ciò che accadeva in altri luoghi dei Sudeti, che tempi duri erano in vista per i tedeschi di Aussig e del circondario; sbrigò le sue faccende e se ne tornò a casa. [...] L'eco dell'esplosione raggiunse alcuni funzionari cechi nella cancelleria della Okresní Národni Výbor. Non c'era il capo della polizia, tempestivamente andato a farsi curare i denti da un dentista tedesco, ma c'era il comandante militare della città. L'ufficiale si alzò, si rivolse ai presenti con le parole: "Ora facciamo la rivoluzione contro i tedeschi" e uscì. Poco dopo in Aussig si scatenò la caccia ai tedeschi. L'accusa che avevano sabotato il deposito di munizioni presso lo zuccherificio di Schönpriesen si era sparsa in un lampo. Era stato facile, dato che tutti sapevano che a quel deposito ci lavoravano da maggio gli internati di Lerchenfeld a catalogare e ad accatastare munizioni, e nessuno sapeva che proprio in quel giorno i prigionieri erano stati improvvisamente portati via alle ore 14,15 e che sul posto c'erano rimaste solo le guardie ceche. Per le vie e le piazze si agitava una massa di individui che Alois Ullmann individuò per i giovanotti arrivati al mattino col treno da Praga, muniti di pali divelti dagli steccati, piedi di porco, manici di badile e uomini della Svoboda Garda e soldati sovietici che assalivano all'impazzata e trucidavano tutti i tedeschi che incontravano. Dalle case dove passò, Herbert Schernstein vide la Svoboda Garda spingere fuori gli abitanti e buttarli giù dal ponte, alto venti metri, assieme alle donne e ai bambini e alle carrozzelle dei neonati che incontravano, nell'Elba, mentre dall'altura di Ferdinando nidi di mitragliatrici sparavano sui disgraziati che si agitavano nei flutti. In Piazza Mercato Alois Ullmann s'imbatté in altri individui impegnati nel gettare le loro vittime nella grande vasca che c'era e con stanghe ricacciarle sott'acqua tutte le volte che tiravano su la testa finché non affogavano. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.202-204)





    L'azione statale antitedesca assunse crescenti sviluppi: tedeschi venivano arrestati, tedeschi venivano condotti ai lavori forzati; le carceri erano colme, i tribunali speciali oberati di lavoro. Provvide allora il ministro degli interni a istituire 51 Koncentracni tábor, campi di concentramento, che poi, furbescamente in Shromázdovaci stredisko, campi di raccolta. Più che una nuova creazione fu per il vero una riesumazione dei vecchi Lager e un riconoscimento di quelli che erano sorti su iniziativa dei rivoluzionari. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.205)





    L'ingresso dei prigionieri in carcere fu salutato dal popolino, in perenne sosta davanti al portone, con lancio di sassi e colpi di pistola in aria e la sistemazione in otto, in celle previste per una persona, con colpi di Pendrek da parte dei secondini: bastò per informare i nuovi arrivati dove erano e cosa erano. [...] Giungevano con una frequenza divenuta abitudinaria i guerriglieri della rivoluzione reduci da imprese e da allegre riunioni per sfogarsi su qualche prigioniero messo a loro disposizione dai carcerieri. Lo afferravano, lo martoriavano e a conclusione lo gettavano giù dal secondo piano ai compagni che dal cortile mostravano la loro bravura di tiratori colpendolo al volo. Lo spasso era grande per i partecipanti che sapevano trarre pure diletto dalle spedizioni punitive che di tanto in tanto organizzavano. I venticinque ragazzotti dai 14 ai 16 anni del circondario di Reichenberg, accusati di essere dei "lupi mannari", morirono una domenica dopo Pentecoste. Stavano su due file davanti alle celle degli altri detenuti per fare prima la lotta dei galli e poi per schiaffeggiarsi a vicenda al grido di "Heil Hitler", energicamente aiutati dai bastoni dei promotori, uomini e donne, dello spettacolo. Il sangue cominciò a colare dalle ferite dei ragazzi e costoro, come di prammatica, dovettero pulire il pavimento con la lingua, ma qualcuno dei ragazzi cominciò a vomitare e i compagni furono costretti a ingerire il rigetto, finché i malcapitati non ce la fecero più ed i tormentatori, per continuare, li distesero uno alla volta nudi su un tavolo e, ridendo e scherzando, tanto li bastonarono che la carne pendeva loro a brandelli dalle ossa. Erano ora morti e parte moribondi i giovani della fantomatica banda dei "lupi mannari", cosicché il divertimento non poté più proseguire. I rivoluzionari se li trascinarono nel sotterraneo del carcere e appesero gli agonizzanti, come quarti di bue, agli uncini esistenti alle pareti. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.206-207)





    Un consistente contributo la "Piccola Fortezza" l'aveva avuto il 24 maggio con l'arrivo di circa 600 persone dei due sessi e di tutte le età. Si trovavano fra queste molte infermiere della Croce Rossa, prelevate negli ospedali di Praga - primari ed aiuti finivano a Pankraz - e questa loro presenza, in quelle file, strideva con le bandiere della croce rossa in campo bianco che sventolavano sul vallo e con i bracciali, con pari insegna, che gente con bastoni, lì piazzata in attesa, portava al braccio sinistro. Il mesto corteo doveva, per raggiungere il cellulare situato nel quarto cortile, superare un passaggio a galleria di circa quindici-venti metri che verso l'uscita aveva, per quattro metri, il selciato divelto e ridotto a una profonda buca. Stretto, scuro, il passaggio si presentava dunque come il punto ideale per usare sui prigionieri l'ormai consuetudinario trattamento a base di percosse. Sotto ruggiti e minacce, pugni e botte, gli uomini che aprivano la marcia furono spinti di corsa nel buio passaggio e non vedendo, per la fretta, l'intoppo che c'era, quelli in testa caddero nella buca e su di essi inciamparono i seguenti e su questi ancora i seguenti, così che si creò una catasta di individui sui quali le guardie rosse, disposte ai due lati del passaggio, calavano con energia i loro bastoni ferrati per costringerli a proseguire. A mano a mano che arrivavano nel cortile dovettero disporsi di corsa su cinque file per contarsi, un'operazione che presto apparve troppo lenta al comandante della fortezza, Prusa, per cui prese l'iniziativa di contare lui personalmente le prime file, accompagnando ogni numero pronunciato con una randellata sulla testa. Per 70 l'internamento si concluse lì. Eduard Fritsch, che come gli altri era finito in quel cortile per avere ottemperato all'ordine dell'autorità praghese di presentarsi alla polizia per controllo, vide il suo compagno di cella di Pankraz, dove la polizia aveva rinchiuso tutti, stramazzare a terra con il cranio sfracellato. [...] Nella notte, dominata da urla e da colpi d'arma da fuoco, alcuni furono portati via senza più ritorno e con questo finale si concluse il loro primo giorno alla fortezza di Theresienstadt. [...] Se lo portarono via con tutta quella roba, meno la divisa di SS che lui non aveva mai posseduto, come potevano testimoniare i suoi clienti cechi, slovacchi ed altri ancora, ma quelli si incaponivano a sostenere che doveva per forza avere, essendo stato vice delegato della Croce Rossa tedesca. Alla fortezza per questa faccenda lo colpirono su tutto il corpo; si prese calci alla testa, al petto, ai genitali, gli ruppero l'indice della mano destra e gli lesionarono il metacarpo e, prima di esaurirlo con le percosse, tentarono di spaccargli tutti i denti. Per la bisogna lo fecero sedere su una panca, gli tapparono la bocca con un lurido asciugamano e, sostituito l'internato Karl Erben, svenuto per l'emozione, con un altro per tenergli ferma la testa, gli diedero un tremendo colpo sulla bocca con la guarnizione di ferro dello sfollagente. Ci rimise le labbra, ma non i denti, salvati dallo spesso asciugamano. Non si accanirono sino ad ucciderlo ma, com'era abituale, lo distesero sul nudo cemento di una cella e per tre giorni attesero che morisse. Al quarto giorno, non essendo morto, lo tirarono fuori, gli tosarono dalla nuca alla fronte, al centro del cranio, la "Hitlerstrasse", il segno che, assieme alle casacche usate e tappezzate spesso da indelebili macchie di sangue, marcava i prigionieri, lo vestirono e lo assegnarono come medico all'infermeria. [...] Eduard Fritsch fu assegnato alla squadra secondini addetta alla pulizia delle celle dei torturati. Si accorse presto che quella mansione, a prima vista fra le meno ingrate, era fra le peggiori che potevano capitare. Il pavimento delle celle era ricoperto da uno strato di sangue coagulato spesso diversi centimetri, su cui incastrati spuntavano orecchie troncate, denti spaccati, pezzi di cute con capelli, dentiere. Tutto emanava un fetore così acuto da rendere impossibile il lavoro e, peggio ancora, procurava dopo alcuni giorni enfiagioni su tutto il corpo e la testa ingrossata; con gli occhi stralunati, le labbra rigonfie, le orecchie sporgenti faceva apparire i secondini figure uscite da un quadro del pittore surrealista irlandese Francis Bacon. Lui in quello stato non si ridusse poiché, aiutato dalla sua buona stella, fu trasferito per tempo all'infermeria. Aveva ora cinque celle a cui accudire, normalmente occupate da 25 ammalati che potevano starci in parte distesi, in parte seduti, in parte rannicchiati. A lungo in quelle celle, tuttavia, quegli infermi non avevano da soffrire poiché, su ordine del Comando della fortezza, venivano regolarmente e sbrigativamente fatti morire. Provvedevano i secondini a denudarli e ad adagiarli su delle barelle e, quando erano così sistemati, arrivava un medico e iniettava loro un potente veleno; pochi secondi dopo erano cadaveri. In questo modo Fritsch vide morire molti suoi conoscenti. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.209-211) $

    Non ci fu alcun bisogno di creare complicate camere a gas. Furono sterminati a centinaia di migliaia in poche settimane.

    Altri massacri


    In prossimità della meta, il gruppo di carri si vide la strada oltre il ponte sbarrata da persone e da mezzi; il sovietico non si chiese la ragione o, forse, la conosceva; comunque non se ne preoccupò e non si fermò. Con uno stridore di ferraglia i carri piombarono sulla colonna in sosta, la percorsero dalla coda alla testa e poi dalla testa alla coda, stritolarono tutto quanto di animato e di inanimato si parò davanti ai loro cingoli, spararono nella massa ed infine bloccarono i motori. Aperte le torrette i soldati saltarono a terra, saccheggiarono quanto poterono, poi, con spari e urla, si lanciarono all'interno del villaggio. Non vi rimasero a lungo. [...] Alla vista del confuso ammasso che ingombrava il loro cammino, Karl Potrek avvertì un conato di vomito salirgli allo stomaco. Riuscì con fatica a dominarsi e tentò di distrarsi scambiando qualche parola col suo vicino. Non ricevette risposta. L'uomo si limitò a guardarlo e lui capì che anche il suo compagno provava quello che lui provava.. Le prime vittime dell'incursione sovietica giacevano davanti a lui, riverse lungo la strada, in un confuso groviglio di corpi umani e membra d'animali dilaniati, tra carri rovesciati e distrutti, fra borse, borsette e capi di biancheria d'ogni genere.

    Impressionati dall'anormale silenzio, entrarono nel cortile e subito videro la rastrelliera di un carro e su di essa, trattenute per le mani inchiodate, i corpi inanimati di quattro donne di età varia. Erano nude, le braccia insanguinate, i volti segnati dal terrore e dalle violenze subite. Ai loro piedi, lordi e strappati, giacevano gli indumenti. Un brivido d'orrore e di rabbia pervase gli uomini; si fecero forza, staccarono quei miseri resti da quella blasfema positura, li adagiarono a terra, li composero alla meglio. Quindi verbalizzarono il fatto e proseguirono. [...] In fondo a questa piazza si trovava un'altra locanda, "Al boccale rosso", e accanto ad essa, al margine della strada, c'era un granaio. Il granaio aveva due porte e a ognuna di queste porte era crocifissa una donna, pure nuda, pure inchiodata per le mani, penzoloni, maltrattata e violentata. Gli uomini della Volkssturm, la territoriale, guardavano quell'inusitato spettacolo.



    Karl Potrek e gli altri perlustrarono ogni casa e scoprirono 72 corpi di donne, di bambini e di un vecchio di 74 anni, tutti morti, quasi tutti bestialmente uccisi, salvo pochi che presentavano colpi alla nuca. [...] In una stanza rinvennero, seduta su un sofà, una vecchia di 84 anni: era stata accecata e le mancava, dal capo al collo, mezza testa, probabilmente spaccata con una accetta o con una vanga. [...] Il giorno successivo comparve la Commissione medica e le fosse dovettero essere riaperte. Furono portate porte di granai e cavalletti e su di essi vennero composte le salme per consentire alla Commissione di esaminarle. I medici stranieri accertarono, all'unanimità, che tutte le donne e le ragazze dagli 8 ai 12 anni erano state violentate. Anche la vecchia di 84 anni resa cieca.




    Testimonianza svizzera



    Una testimonianza di ciò che avvenne in quella zona della Prussia Orientale é fornita dall'inviato speciale del "Courrier" di Ginevra nella seguente corrispondenza pubblicata nel numero del 7 novembre 1944 del quotidiano svizzero: "La guerra che in Prussia Orientale si svolge nel triangolo Gumbinnen-Goldap-Ebenrode, da quando Goldap é stata ripresa dai tedeschi, é al centro degli avvenimenti. La situazione non é solo caratterizzata dagli aspri combattimenti delle truppe regolari, dalla mole del materiale bellico impiegato dalle due parti e dall'entrata in azione della milizia tedesca di nuova costituzione, ma, purtroppo, pure dai troppo noti metodi di conduzione della guerra: mutilazioni e impiccagione dei prigionieri ed il quasi totale sterminio della popolazione contadina tedesca rimasta sui luoghi nel tardo pomeriggio del 20 ottobre... La popolazione civile é, per così dire, scomparsa dalla zona di combattimento poiché la maggior parte dei contadini é fuggita con la propria famiglia. Ad eccezione di una giovane donna tedesca e di un lavoratore polacco tutto é stato annientato dall'Armata Rossa. Trenta uomini, venti donne, quindici bambini sono caduti nelle mani dei russi a Nemmersdorf ed uccisi. A Brauersdorf ho visto di persona due lavoratori agricoli d'origine francese, ex prigionieri di guerra, fucilati. Uno lo si é potuto identificare. Non lontano da loro trenta prigionieri tedeschi avevano subito la stessa sorte. Vi risparmio la descrizione delle mutilazioni e della orribile vista dei cadaveri sui campi. Sono impressioni che superano perfino la più accesa fantasia. Da Mosca, a tal fine, arrivavano la "Krasnaja Zveda", l'organo delle forze armate, la "Pravda" e le "Isvestija" con articoli del propagandista dallo strano nome teutonico di Il'ja Ehrenburg ( un lurido pseudo poeta comunista ebreo russo, ndr) , e dei suoi collaboratori: e nelle riunioni si cominciò a leggerne e a commentarne, con martellante insistenza, i passi più salienti: "I tedeschi", appresero così i soldati, "non sono esseri umani. D'ora in avanti il termine “tedesco” é per noi tutti la maledizione più orribile. D'ora in avanti il termine “tedesco” ci spinge a scaricare un'arma. Noi non parleremo. Noi non ci commuoveremo. Noi uccideremo. Se nel corso di una giornata non hai ucciso nemmeno un tedesco, allora per te é stata una giornata perduta. Se tu credi che il tedesco invece che da te sarà ucciso dal tuo vicino, allora tu non hai capito il pericolo. Se tu non uccidi il tedesco, sarà il tedesco ad uccidere te. Egli arresterà i tuoi e li torturerà nella sua dannata Germania. Se tu non sei in grado di uccidere con una pallottola il tedesco, allora uccidilo con la baionetta. Se nel tuo settore vi é tregua e non é in corso una battaglia, allora uccidi il tedesco prima della battaglia. Se tu lasci in vita il tedesco, il tedesco impiccherà l'uomo russo e disonorerà la donna russa. Se tu hai ucciso un tedesco, allora uccidine un secondo. Per noi non c'è nulla di più piacevole dei cadaveri tedeschi. Non contare i giorni, i chilometri, conta solo una cosa: i tedeschi che hai ucciso. Uccidi i tedeschi! Questo implora la tua vecchia madre. Uccidi i tedeschi! Questo implorano i tuoi figli. Uccidi i tedeschi! Così grida la nostra madre terra. Non perdere occasione! Non sbagliarti! Uccidi!" [...] "I tedeschi" sentivano dire con un crescendo, "malediranno l'ora in cui calpestarono la nostra terra. Le donne tedesche malediranno l'ora in cui partorirono i loro figli. Noi non infamiamo. Noi non malediamo. Noi siamo sordi. Noi ammazziamo".


    Questo grande poeta ebreo, cui cui bisognerebbe dedicare uno speciale giorno della memoria, ebbe un notevole successo e i suoi consigli furono seguiti alla lettera




    Qualche altro esempio



    ”Era notte quando un reparto sovietico, al comando di un capitano, giunse alla fattoria di Peter Haupt. L'ufficiale scrutò la massa scura del caseggiato: dall'interno non trapelava alcuno spiraglio di luce, non proveniva rumore alcuno. Segno, pensò il capitano, che gli abitanti, se vi erano, dormivano tranquilli: la battaglia dopotutto si era svolta a diversi chilometri di distanza e quell'angolo di terra, evidentemente, ne ignorava ancora l'esito. [...] Peter Haupt e i suoi non ebbero il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo che già si trovarono tirati giù dai letti e sospinti, in camicia, tremanti per il freddo ed il terrore, nello stanzone che occupava buona parte del piano terreno e schierati, faccia al muro, contro una parete. Impossibilitati a muoversi, minacciati e colpiti di tanto in tanto col calcio delle armi, sentivano come i soldati rovistavano dappertutto per la casa: sfondavano mobili, laceravano materassi e divani ed ammucchiavano sul tavolo del locale tutto quanto luccicava ai loro occhi come oro ed argento. [...] Poi si rivolse a Peter Haupt ed ai suoi familiari. Obbligò l'uomo ed i suoi tre figli di 16, 14 e 4 anni ad inginocchiarsi e, fatte avanzare la moglie e le sue due figlie di 18 e 12 anni, le denudò e le costrinse a distendersi sul freddo pavimento e violentò la moglie. La donna gemeva e si divincolava sotto la stretta morsa che la tratteneva e invocava aiuto. Peter Haupt non resistette. Con un balzo, urlando di furore, si lanciò in avanti, afferrò l'ufficiale in procinto di avvicinarsi alla figlia diciottenne e lo tirò con forza per le gambe, facendolo cadere a terra. [...] Peter Haupt fu colpito più volte, ma non mortalmente, e così ferito e sanguinante, ad un ordine del capitano, fu trascinato fuori, sull'aia. Nello stanzone moglie e figli osservavano terrorizzati la scena, senza osare li benché minimo movimento. Trascorsero così lunghi attimi di profondo silenzio: il capitano al centro della stanza, le donne distese per terra, i ragazzi inginocchiati al muro. Sembravano statue. In quel silenzio all'improvviso rintronò un urlo lacerante cui fecero eco le grida della moglie di Peter Haupt. La donna non vide il marito che, in un ultimo sussulto di energie, con le mani irrigidite sulle viscere, si trascinava nella neve. Fece pochi metri, poi cadde e la sua voce si spense in un rantolo. I soldati gli avevano schiacciato, con pietre, i testicoli. [...] Fuori della fattoria, nel villaggio di Peter Haupt e nei villaggi a nord-est di Cracovia, ovunque erano giunti i soldati dell'Armata Rossa, quella notte fu una notte di spavento, di violenza, di morte.

    I buoni polacchi e i cattivi tedeschi


    Il destino di Sofie Jesko e del suo gruppo si compì a circa 30 km da Posen. Avevano alle spalle una lunga e faticosa marcia resa ancora più pesante dallo stato delle strade e dal freddo pungente; qualcuno, esausto, si era lasciato andare; gli altri avevano proseguito preoccupati solo di raggiungere al più presto possibile la meta. Fu all'altezza della città di Schroda che videro spuntare da Sud una colonna di autocarri tedeschi, raggiungerli e superarli. Notarono che a bordo c'erano civili imbacuccati: erano uomini, donne, ragazzi; li presero per fuggiaschi e non ci fecero caso. Poi videro gli autocarri fermarsi e gli occupanti saltare a terra. Fu allora chiaro che si trattava di partigiani polacchi. [...] Non passò molto che un rumore cupo e ritmico attirò l'attenzione di tutti; ne ascoltarono, con trepidazione, l'approssimarsi ed infine, lenti ed imponenti, videro i carri armati sovietici avanzare verso di loro e fermarsi. I polacchi che pur operando nel raggio d'azione degli attaccanti temevano sempre un ritorno dei tedeschi, si sentirono rinfrancare e ripiegarono verso i loro mezzi così che i fuggiaschi restarono soli, con la loro disperazione, di fronte al temuto invasore. Dal carro armato di testa si sollevò lentamente la torretta e comparve un ufficiale; con urla e gesti volle sapere quanti militari tedeschi fossero presenti e, non ricevendo soddisfazione, ordinò ai carristi di eliminare, seduta stante, tutti i sospetti. I soldati obbedirono e lanciarono bombe fumogene tutt'attorno; quindi, ad un segnale convenuto, mossero nella coltre di nebbia artificiale e si diedero al massacro, al saccheggio, allo stupro. Si sentivano gli spari, le urla degli uccisi, lo strillare delle donne violentate, le grida di aiuto dei bimbi e delle donne anziane a cui faceva eco il vociare terrificante ed incomprensibile degli assalitori. [...] Sofie Jesko la vide subito, seduta sul bordo di un camion in sosta: il vento agitava i suoi capelli bianchi, il suo corpo di vecchia era imbacuccato in una pelliccia che teneva aperta sul davanti; aveva l'aspetto di una furia e Sofie Jesko ne ebbe un immediato, istintivo, terrore. In quel mentre le passarono davanti le giovani madri risparmiate dall'eccidio con in braccio i loro piccoli, accanto e dietro a loro stavano i ragazzotti polacchi che le sospingevano, cercando di metterle in colonna, verso la donna dai capelli bianchi. Qui giunte la vecchia strappava loro di mano i neonati e calma, pronunciando ogni volta con voce carezzevole la parola “angioletto”, sbatteva ad essi con energia la testa contro la fiancata dell'automezzo. Le madri disperate ed urlanti stramazzavano al suolo e venivano trascinate via. Così andò avanti finché non vi furono più creaturine da uccidere. Allora, sotto la minaccia delle armi, fu intimato agli scampati di tornare a Penczniew.
    Vi giunsero col cuore in gola; il villaggio era sottosopra, la scuola e la canonica in fiamme, e all'ingresso dei Kastner quasi urtarono contro una salma orribilmente sfigurata, stritolata dai carri armati. Dentro casa incontrarono altre persone di loro conoscenza e due ragazze ed una donna incinta fuggiasche dal Warthegau: a sera le tre furono violentate, mentre gli altri furono scacciati di casa e costretti a pernottare in strada. Gustav Redemann era stato fucilato mentre nella stalla foraggiava i cavalli, e così pure suo fratello Otto; una figlia di Otto si era avvelenata e le altre due figlie, la moglie con 17 persone ospiti da lui erano arse vive nella casa data alle fiamme. Pure il loro bracciante, Paul Krause, era morto: giaceva nella stalla col ventre squarciato. Irene Krecek ne uscì stravolta e andò dai Seck, suoi cari conoscenti: li trovò tutti morti; morto era anche il loro sindaco e così il povero Georg Nowack, che giaceva riverso nel suo giardino senza la testa. Gliela avevano segata.

    I sovietici li sorpresero quando era già notte fonda: arrivarono preceduti da una accanita sparatoria, irruppero nella stalla e scaricarono i loro mitra contro il tetto, sospettando che vi fissero soldati tedeschi, ed infine rivolsero la loro attenzione ai presenti. Con l'aiuto di un baltico, gli spaventati contadini cercarono di far capire che erano solo dei poveri fuggiaschi, niente affatto proprietari o ricchi benestanti, ed ebbero fortuna: i sovietici non li fucilarono come di solito usavano fare con chi ai loro occhi era un “capitalista”. L'aver salvato la vita richiedeva comunque un prezzo e la truppa arrivata sul luogo se lo fece pagare ampiamente. Dapprima pretese solo orologi ed anelli, poi volle pure gli stivali ed infine, spinti fuori dalla stalla tutti gli uomini, circondò le donne e se ne servì per il resto della notte.

    A Rosenberg, invece, la modesta guarnigione se n'era già partita alle 3 del mattino e i primi sovietici vi arrivarono nel pomeriggio senza incidenti. Avevano l'aria euforica, dovuta senza dubbio al fatto di aver messo piede nel territorio del Reich prebellico e lo dimostrarono a sera, dando sfogo alla loro sfrenatezza e alla loro furia demolitrice. Lo fecero per tre settimane continue; distrussero così due terzi delle città e ridussero alla disperazione gli abitanti rimasti.

    I soldati del XXXI corpo corazzato vi entrarono il 23 gennaio, vi appiccarono fuoco e fucilarono intere famiglie e poi si gettarono con tutto il loro peso sulle truppe ancora arroccate, da qui a Cosel, sulla riva destra del fiume e, in due giorni di lotta, le rigettarono sulla riva sinistra. [...] Negli stessi giorni di fine gennaio un'altra armata di Konev raggiunse Gleiwitz, all'estremo sud della regione. La città si arrese il sabato 27 gennaio ed i sovietici vi entrarono sul far del mezzogiorno al suono di una banda militare; dopo fecero tacere gli strumenti e si diedero ai soliti atti di violenza.

    Credettero trattarsi di carri armati e di soldati tedeschi, ma l'illusione durò un attimo: fermi con le mani alzate stavano i militari dell'unità sanitaria e, di fronte a loro, gli uomini in tuta bianca indaffarati a radunarli e a spingerli in disparte. Nel mentre, i mezzi corazzati, presa posizione, puntarono sul Treck: carri furono catapultati nei fossati, cavalli schiacciati dai pesanti carichi, gente investita e maciullata: uomini, donne, bambini agonizzavano, feriti imploravano aiuto. [...] Dietro a lei una bambina implorava: "Papà uccidimi!", il fratello, di circa 16 anni, ribadiva: "Si, papà, uccidici! Non abbiamo più nulla da sperare!". Il padre, col volto pieno di lacrime, guardava i suoi figli e con voce calma continuava a ripetere: "Aspettate, figlioli, aspettate ancora un poco!". Per tutto il Treck distrutto erano scene di pianto e di dolore. In questa lugubre atmosfera come spuntando dal nulla comparve improvviso un ufficiale sovietico a cavallo. Vagò in mezzo a loro e si portò verso l'unità sanitaria; subito gli vennero schierati i prigionieri e lui li squadrò con odio, poi prese la rivoltella e la scaricò su alcuni di loro. Gli altri furono liquidati a colpi di mitra dai suoi sottoposti. I cadaveri di quei disgraziati, con ancora impresso sui loro visi il terrore, rimasero là dove erano caduti, isolati come cani rognosi, ché nessuno osava avvicinarsi. Si incamminarono in un mondo irriconoscibile. Ovunque carcasse di animali, civili con la testa fracassata, carri rovesciati e saccheggiati, soldati tedeschi fucilati, fattorie distrutte dal fuoco.
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    Al terzo giorno Lilly Sternberg vide una casa, intatta, probabilmente ancora abitata. Il volto le si illuminò di contentezza: finalmente un luogo dove poter curare la dissenteria ed i piedini congelati delle sue bimbe. Vi corse quasi, ma quando fu dentro si sentì venir meno dall'orrore; dappertutto vide cibo rovesciato, morti seduti sul divano o chini sulle sedie o distesi sui letti, pavimento e pareti macchiati di sangue; in un angolo, solo superstite, un cane che abbaiava rabbioso.

    Di tanto in tanto entravano soldati, anche ufficiali, che con le rivoltelle in pugno afferravano per il polso ragazze e giovani madri e le trascinavano via. Fu la volta di una fanciulla. Il padre tentò disperatamente di opporsi, ma fu afferrato e trascinato a viva forza sull'aia e fucilato.

    ilitari sovietici che cercavano di soccorrere la popolazione civile tedesca si rendevano colpevoli di uno dei reati contro la sicurezza dello Stato previsti dall'art.58 del codice penale sovietico e puniti con la reclusione non inferiore a mesi sei e, nei casi più gravi, con la fucilazione. Lo scrittore Leo Kopelev, per aver reagito a Neidenburg e ad Allenstein alle brutalità perpetrate dai suoi commilitoni, fu accusato di “umanitarismo borghese” e, nonostante fosse un comunista convinto e maggiore del servizio di propaganda, addetto in particolare all'istruzione e all'impiego al fronte dei militari tedeschi che erano passati al servizio dell'Armata Rossa dopo Stalingrado, fu condannato in base al citato articolo e deportato per anni.

    I soldati si lanciavano contro il nemico, incuranti della sua superiorità, con un accanimento inusitato, accresciuto dagli spettacoli di orrore che si presentavano ai loro occhi: qui un ragazzetto schiacciato da un carro armato; là una donna violentata, con un coltello nel petto, riversa su un cumulo di concime; in un villaggio diversi uomini legati e cosparsi di benzina, arsi vivi; in un altro una ragazza, esanime, sfigurata dalle violenze carnali; a Sommerfeld, 80 sovietici ubriachi nei letti di donne distrutte dai loro ripetuti abusi.
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    Poi successe. Pesanti passi, violenti colpi alle porte, urla cominciarono a rintronare per tutto il palazzo. Al primo piano la signora König fu una delle prime prede: l'afferrarono, sgombrarono il letto, gettando a terra la madre settantottenne che vi giaceva agonizzante, e la violentarono. Quindi toccò alla ragazza della porta accanto: aveva vent'anni e venti bruti si buttarono su di lei, a turno. Nel corridoio videro uno sfollato di Goldap e lo abbatterono. Dall'appartamento del dottor Grünwald giungevano assordanti rumori e risa: i vincitori vi si erano installati, bevevano acquavite e spaccavano mobili.

    Il primo giorno di viaggio sul Frisches Haff erano avanzati abbastanza bene, risparmiati perfino, grazie al leggero turbinare della neve che aveva ridotto la visibilità, dai temuti attacchi aerei sovietici. Ma l'indomani il cielo tornò terso e si trovarono esposti alle bombe ed al mitragliamento nemici. Ai primi colpi le due donne si accovacciarono in fondo al carro e l'uomo, tenendo saldamente le briglie del cavallo, divenuto irrequieto, si rincantucciò accanto al timone. La prima ondata li lasciò indenni, ma, alla seconda, una bomba, con assordante scoppio, cadde a pochi metri da loro. Testimoni, sopravvissuti di Metgethen, riferirono che un soldato tedesco prigioniero fu incatenato ad un autocarro e trascinato da esso fino a morirne; che cadaveri di donne erano stati appesi agli alberi dei giardini pubblici; che donne in stato interessante erano state sventrate e gettate in fosse nella foresta di Schönfliess.

    Non sempre si poteva proseguire: l'affollamento agli ormai ridotti passaggi lagunari, le esigenze belliche o lo stato del ghiaccio sovente la bloccavano e allora doveva attendere, talvolta per breve tempo, tal'altra per giorni e giorni, all'addiaccio, tra il sudiciume ed il letame dei Trecks che tutt'attorno si accumulava, raramente ristorata con qualche minestra o bevanda calda. Non tutti resistevano, molti si ammalavano e per la scarsità di medicinali venivano curati approssimativamente; alcuni finivano lì i loro giorni, distrutti dalle malattie, dal freddo e dalla dissenteria.


    Ne rimase colpita e li osservò più attentamente e vide visi bianchi e visi più scuri, visi ovali e visi tondeggianti e visi con zigomi marcati e si provò a catalogarli: russi o ucraini gli uni, gli altri di certo mongoli o tartari, gente della Siberia comunque. Che quella valutazione fosse esatta, poté stabilirlo la sera stessa quando dodici di essi la violentarono sino al mattino successivo. Altrettanto avvenne nelle altre case di Kanth dove c'erano donne, anche nella parrocchia, alle sette anziane suore. Gli uomini, invece, furono sbrigativamente sistemati. Quelli apparentemente benestanti e quindi per loro capitalisti, furono giustiziati, l'arciprete Möpert ebbe la testa spaccata perché difendeva le suore, l'ufficiale postale Linder fu chiuso in una cantina e fatto morire di fame. Gli altri finirono sotto stretta sorveglianza. La gente era allibita; ancora fuori di città si combatteva e loro trovavano il tempo di violentare e di distruggere. Spaccavano armadi e sfondavano materassi, usavano per carta igienica la biancheria che laceravano, la lordavano di escrementi o di altro e la gettavano per strada. Simili scempi e tanta sporcizia a Kanth, Gisela Franke non l'aveva mai vista nei suoi quarant'anni di vita. Le cose non cambiarono neppure in seguito. Per gli uomini risparmiati c'era il lavoro di scavare trincee e di recuperare i sovietici morti o feriti, per le donne questo di giorno e il resto di notte. Diversi si erano tolta la vita e anche Gisela Franke cominciò ad essere pervasa da questa idea. La decisione la prese la sera in cui lei e altre due donne furono condotte da due soldati in un ospedaletto da campo dove erano ricoverati quindici feriti leggeri. Passarono da un letto all'altro finché, volgarmente apostrofate, le gettarono giù dalle scale. Sfinita, terrorizzata di fare la fine della sua conoscente Maria Kugler, così orrendamente violentata da morire per le lacerazioni interne causatele, la donna si trascinò nel suo alloggio, rovistò in un cassetto e trovò del quadronox, ne prese dieci pastiglie ed attese la morte. Stette così per tre giorni in stato di incoscienza, poi lentamente tornò in sé e continuò l'esistenza che il destino aveva riservato ai tedeschi di quella parte della Germania.

    Si erano inoltrati nelle vie cittadine, circospetti e con le armi in pugno pronti a far fuoco; nella Hehenfriedebergstrasse e nella Wilhelmstrasse, lungo la passeggiata di fronte al negozio del fioricoltore Teicher e nella Ziganstrasse, nella Pilgramshainerstrasse e nella Bahnhofstrasse non avevano trovato che cadaveri e cadaveri, tutti orribili a vedersi; ne avevano trovato pure nelle abitazioni perlustrate.






    Uomini della Wehrmacht dopo un contrattacco contano i civili tedschi nelle zone liberate temporaneamente nella Prussia orientale


    La polizia criminale, che li seguiva, aveva il suo daffare a compilare gli elenchi dei ritrovamenti che, con pignoleria burocratica, suddivideva in decessi isolati, decessi in gruppo e decessi per suicidio. Le ci volle più tempo a catalogare i morti che a registrare i vivi, una trentina di persone. Bastarono due autocarri a trasportare al sicuro in Sassonia quel pugno di scampati alla morte e alla deportazione, toccata alle centinaia di presenti nella città all'arrivo dell'Armata Rossa, e con la loro partenza, Striegau, riconquistata di nuovo dai sovietici, e il suo dramma, finirono con l'essere un semplice episodio della guerra.
    "Il 13 febbraio" gli riferì la donna, "giorno dell'ingresso dei sovietici, restammo in cantina sino alle 20, indisturbate. Poi sentimmo dei passi e tanto era il terrore che ci prese, che non osavamo neppure respirare. Comparvero quattro soldati che dapprima si comportarono sopportabilmente; presto però divennero un po' troppo intraprendenti verso di me e verso la giovane signora Keil e all'improvviso fu: "Frau komm". Non risposi. Al terzo ordine, spazientito, il soldato mi afferrò per un braccio, mi sollevò e mi diede un calcio tale che volai sino alla porta della cantina. Un altro malmenò la signora Keil e poi se la trascinò dietro, costringendola a portare con sé la figlia Traudl. Anche sua mamma e sua sorella dovettero andare. Cosa poi ci capitò, non occorre che glielo descriva: andò avanti tutta la notte sino al mattino; bestiale! Io tornai per prima nella cantina e lì trovai i due anziani coniugi della nostra casa uccisi e con gli occhi enucleati: si erano opposti, come mi raccontò la signora Tindel, a lasciar andare con loro la cognata ed il nipotino. Verso le 10, ci fu un po' di tranquillità e tutte ci recammo nell'appartamento della signora Keil, la cui figlia undicenne era stata pure violentata. Lì ci cucinammo qualcosa da mangiare e in quel mentre udimmo di nuovo passi e si ricominciò daccapo. Urlavamo, li pregavamo di lasciarci in pace, ma non avevano pietà. Ci accordammo allora di impiccarci, ma ne sopraggiunsero altri. Quando finalmente anche costoro se ne andarono eravamo pronte. Ognuna di noi si era procurata un coltello ed anche un lenzuolo era pronto. La signora Polowski s'impiccò per prima. La signora Keil impiccò dapprima la sua Traudl e poi se stessa, lo stesso la sua cara mamma fece con sua sorella. Restammo solo noi due, sua mamma ed io. La pregai di farmi il cappio, poiché, per l'eccitazione, non ci riuscivo; lo fece, ci abbracciammo ancora una volta, e spingemmo via coi piedi il bauletto sul quale stavamo. Mi accorsi di toccare terra con la punta dei piedi: sua mamma mi aveva fatto la corda troppo lunga. Provai ancora e ancora, perché volevo morire, ma senza riuscirvi; guardai e destra e a sinistra: eravamo appese tutte su una fila e loro si trovavano bene, poiché erano morte. A me non restò che liberarmi dal cappio, cosa che mi riuscì dopo molti tentativi. Ero sola e fuggii disperata. Frattanto, nella città che aveva dovuto lasciare, i suoi soldati venivano radunati con spinte e calci e privati degli orologi, degli stivali e dei maglioni e, se in buono stato, anche dei pantaloni. L'indomani, scalzi e seminudi, sotto temperature polari, sfilarono sotto agli occhi del popolino polacco che li colpiva a bastonate e con pietre; al quarto giorno partirono per aggiungersi alla lista di prigionieri di ogni nazionalità, dal cui conto finale di 8.000.000 ben l'85% non avrebbe mai più fatto ritorno. Non videro, e forse non seppero mai, che i loro compagni gravemente feriti erano stati liquidati coi lanciafiamme.

    Bärwalde non era stata abbandonata da tutti. Martha Nadez era rimasta col marito Karl ed i due figli e con una sorella pure madre di due bimbe. Avevano deciso di non andarsene per non sottoporre le creature agli strapazzi di una fuga sotto la neve ed il ghiaccio ed il giorno venuto, non più tanto convinti della giustezza della decisione presa, andarono a rifugiarsi in un bunker ed attesero. Non dovettero aspettare molto. [...] Era una facile preda ed i due gendarmi non persero tempo e la violentarono e altrettanto fecero con la sorella, al suo ritorno dal bunker, tutta insanguinata, sorretta dal cognato pallido e stravolto per la pena avuta a difenderla dalla cupidigia dei soldati incontrati per strada. A cose fatte videro uno andarsene e l'altro piazzarsi sulla porta di casa e chiamare i commilitoni di passaggio. Giunsero a gruppi di sette per volta e a turno, al lume di una candela che Karl Nadez era costretto a tenere in mano, si avventarono sulle due donne senza curarsi dei bimbi presenti. Alla fine, uno alla volta, sghignazzando, se ne andarono, per ultimo il gendarme, che prima si diresse sull'uomo e lo colpì col calcio del fucile deciso ad ucciderlo, ma non poté dargli un secondo colpo: moglie e figli si attaccarono al suo braccio, implorando di risparmiargli la vita e lui, preso alla sprovvista, vi rinunciò e lasciò la casa. [...] Non si accorsero che i loro piedi avevano lasciato le impronte sulla neve; le notarono invece tre soldati che li seguirono e li costrinsero a tornare in casa, baciarono le due bimbe e violentarono la madre. [...] Sentirono muoversi nel cortile gente che gridava e sparava e avvertirono i loro passi sempre più vicini; poi videro la porta aprirsi e, alla luce di lampadine tascabili, stagliarsi nel riquadro civili e soldati col caratteristico berretto ad angoli e pompon dell'esercito polacco. Fu un attimo. Gli arrivati si lanciarono su di loro, afferrarono l'uomo e la cognata ed i bimbi più grandicelli e li impiccarono; poi presero i due più piccoli e li strozzarono. Martha Nadez visse tutto in uno stato di incoscienza. Giaceva sul pavimento tramortita da un violento colpo alla nuca. Vide solo ombre pendere dal soffitto, sentì che la violentavano e poi qualcosa che le stringeva e stringeva il collo, soffocandola. Ma non morì. Tornò in sé richiamata da un suono di voci e notò quattro uomini chini su di lei che le dicevano: "Vieni, donna", ma lei restava inerte. Sentì poi che la trasportavano e si trovò su un letto con accanto uno dei quattro polacchi che le chiedeva: "Donna, chi fatto ciò?". Rispose: "I russi". Allora quello la bastonò urlandole :"Russi soldati buoni. SS porci, impiccano donne e bambini". La colse una violenta crisi di pianto che richiamò l'attenzione degli altri tre. I quattro la osservarono e abbandonarono la stanza e poco dopo giunse un sovietico con una frusta che, battendo sul letto e su di lei e intimandole di tacere, cercò di calmarla, ma non ottenendo alcun risultato, se ne uscì lui pure. Si calmò al rumore di voci che provenivano dall'esterno, si alzò terrorizzata e andò a gettarsi nello stagno del cortile per annegarsi. Quando riprese i sensi si ritrovò a giacere sul pavimento della stanza di una vicina. Tremava per il freddo. A fatica si tirò su e si adagiò sul letto che c'era e si accorse che qualcuno le si avvicinava. Terrorizzata implorò che la uccidesse, ma l'uomo le illuminò con la lampadina il viso, si tolse il cappotto e le mostrò le sue decorazioni, dicendole che era un tenente e che lei non doveva aver paura. Poi prese da una parete un asciugamano e cominciò a strofinarla. Quando le vide il collo piagato dalla corda le chiese: "Chi fatto?". "I russi". "Si, si, quelli bolscevichi, ora niente bolscevichi, ora bielorussi. Bielorussi buoni". Con la baionetta le tagliò gli indumenti poi le asciugò le gambe e le tolse l'anello, se lo mise in tasca chiedendole dov'era suo marito, e quindi la violentò. [...] Sopraggiunsero invece quattro giovani soldati sui 18-20 anni, totalmente ubriachi, che la buttarono dal letto, ne approfittarono e la malmenarono fino a farla svenire. L'indomani i soldati che caricavano su un camion il bestiame macellato dei Nadez la videro arrivare vestita in qualche modo con abiti troppo corti e stretti. Credettero di aver a che fare con una pazza e l'accolsero con risa e lazzi, ma non così le quattro soldatesse presenti che, infastidite dal suo aspetto, imbracciarono le armi decise a fucilarla. La salvò per tempo un ufficiale. Con tatto s'informò chi fosse e poi le chiese la ragione dei segni sul collo. Rispose: "Soldati russi, marito, sorella e pure bambini". Quando sentì “bambini” non riuscì a nascondere l'indignazione e il turbamento che provava, chiamò un soldato e la fece accompagnare al comando. Lì l'arrestarono e, dopo alcuni giorni, la rinchiusero con altri connazionali nelle carceri di Neustettin.
    A gruppi di 5-10 uomini arrivarono i soldati a oltraggiarci: "Urri, Urri; Frau, komm". Sedevamo raggruppati attorno ad una candela. Sul mio grembo tenevo una vigorosa ragazza, Inge, figlia tredicenne del signor Bart, a cui avevo intrecciato i capelli, dicendole di comportarsi in maniera molto infantile. Ciò riuscì a proteggermi. La mia vicina invece, la signora Friedel, una biondona, dovette seguire il richiamo, sotto spinte, e lasciarsi violentare da sei soldati. La signora Paula, distesa in un lettino da bambino, lasciava uscire saliva dalla bocca e gemeva, riuscendo così a far allontanare da sé gli individui. Nei giorni successivi i sovietici si scatenarono. Misero a ferro e fuoco la città, nessuna donna venne risparmiata, anche sotto gli occhi dei mariti, tenuti a bada con il mitra. Ci si nascondeva, ma ci trovavano. Mi trovavo per strada quando un giovanotto, armato di una bottiglia di vino, mi si avvicinò e mi spinse in una cabina telefonica. Io gli dissi: "Vecchia nonna, tutta grinzosa". Ma lui rispose, ripetendosi, di continuo: "Nonna deve". In quel mentre una giovane madre con tre bimbi che cercava di rifugiarsi in una cantina vicina fu sopraffatta da un'orda. I bimbi urlavano: "Mamma, mammina!". Allora uno dei soldati li afferrò e li sbatté contro il muro. Non dimenticherò mai in vita mia lo schianto. Poi la donna fu presa dal successivo. Alla fine fu solo capace di trascinarsi nella mota. Un polacco, accompagnato da una ragazza, tentò di strapparmi la fede, che portavo da 40 anni al dito, dove vi si era quasi incastrata. Non riuscendovi estrasse un coltello per tagliarmi il dito. Con uno sforzo riuscii a strapparlo con tutta la pelle e a consegnarglielo. [...] Nelle capaci cantine regnava l'orrore. Chiuse nei piccoli locali vi erano più di 100 persone. Una volta al mattino venivano portati nel cortile contiguo per i loro bisogni personali. I morti restavano dove erano, senza che gli altri li spingessero da parte. [...] Un'altra volta le sentinelle gettarono un secchio di carburo acceso in mezzo alle donne, perché non erano state pronte ad assecondarli.

    La soluzione che i coniugi Kremse credettero essere quella giusta, rifugiarsi nella campagna di Possen, dove il loro giovane nipote imparava a fare il contadino, fu una soluzione sbagliata. Per loro il destino si presentò nelle vesti di uno strano soldato sovietico che incontrarono il giorno in cui stavano attraversando la strada per recarsi nella fattoria di fronte alla loro. Lo straniero si parò loro davanti e allungò le mani per portarsi via la donna. Questa si difese e quello, imprecando in una lingua incomprensibile, le sparò col mitra nell'addome, eppoi rimase a guardare la scena: il nipote, che sorreggeva la zia, e il marito, corso a prendere una carriola, che con questa cercava di portare la ferita grave nella casa del vicino. Non sembrò esserne soddisfatto, poiché li seguì e, imbracciato di nuovo il mitra, sparò una seconda volta addosso alla donna e siccome non moriva, le andò vicino e la colpì col calcio dell'arma sulla testa. Così, avanzando fra grida e lamenti, i malcapitati arrivarono nella corte della fattoria dove erano diretti, ma qui li raggiunse ancora il soldato. Fra il terrore dei presenti si fece avanti e scaricò quattro volte l'arma sulla donna e poi, visto che la ferita continuava a gridare, afferrò l'arma per la canna e gliel'abbatté con forza sulla testa. La Kremse morì e il soldato parve finalmente soddisfatto. Vedovo il povero Kremse, di qualche anno più vecchio della moglie cinquantenne, non lo rimase per molto tempo. Quando apprese che i sovietici avevano deciso di deportarlo, tappò la stufa a carbone e si uccise assieme alla madre e al fratello minore del nipote contadino.

    A Graz, al loro ingresso, i sovietici furono salutati come liberatori da rappresentanti dei partiti appena costituitisi. Il comandante dell'unità li squadrò e, asciutto, rispose: "Non siamo venuti come liberatori, ma come conquistatori!.

    Sentì ancora dietro di sé il rumore stridente della porta scorrere sulle guide e lo scatto del gancio e si trovò pigiato, quasi schiacciato, fra 120 altri individui. Così, in un vagone senza spazio, sporco e senza un filo di paglia per giaciglio, al pari di altri 218.000 connazionali che lo avrebbero seguito, iniziò il suo viaggio di deportato nell'Unione Sovietica. [...] Dopo giorni di vagare nel disperato tentativo di sottrarsi al nemico incalzante, il suo Treck era stato raggiunto e sconvolto e lui con la famiglia e centinaia di altri fuggiaschi era stato riportato su camion indietro, oltre Stallupönen ed Eydtkuhnen e scaricato a 30 km dalla frontiera lituana, in una caserma. [...] Friedrich Koller sopportò tutti i 28 giorni che occorsero per giungere agli Urali chiuso come merce nel suo vagone. [...] All'ottavo giorno l'uomo calcolò che già 12 dei suoi compagni erano deceduti. [...] La fame, non ricevevano che una brodaglia con qualche briciola di pane al giorno, e la sete li uccidevano. [...] Il giorno dell'arrivo li tirarono giù dai vagoni e li allinearono lungo il treno: un terzo di loro non esisteva più. Dovettero inginocchiarsi nella neve e restare così, con -45°C, per ore, finché non finirono i loro controlli. Friedrich Koller ebbe il tempo di guardarsi e di guardare. Per la prima volta si accorse di quanto fossero dimagriti e come fossero ricoperti di sporcizia e di escrementi. Erano spaventosi. Il piano di deportazione era a punto. Mosca lo aveva programmato da tempo e anche collaudato deportando, al suo ingresso in Romania, Ungheria e Yugoslavia, le minoranze tedesche che da secoli vivevano in quei paesi. Lo aveva quindi catalogato sotto la voce “riparazioni di guerra” e fatto legittimare a Yalta dagli occidentali. Scattò ai primi di febbraio. [...] Agli ordini dei quattro comandi dei Fronti d'Ucraina e della Russia Bianca, cui spettava fornire le quote di deportati, iniziarono a radunare le persone da avviare, dall'Artico al Turkmenistan, ai lavori forzati. Azioni di polizia erano già iniziate subito dopo l'ondata di violenze e saccheggi che avevano caratterizzato i primi giorni d'occupazione, limitate però a perseguire uomini e donne della regione sospetti d'appartenere al partito nazionalsocialista o alle sue organizzazioni. Alla questura di Hindenburg, divenuta sede della NKVD per l'Alta Slesia, li giudicavano approssimativamente, senza difesa e senza testimoni a discarico, e li rinchiudevano ad Auschwitz o a Blechhammer, da dove parte dei condannati finiva poi nell'Unione Sovietica.

    Le deportazioni colpirono 218.000 persone, di cui la metà morì nei Gulag per sfinimento o malattie. Assieme ai tedeschi furono pure deportati polacchi fedeli al governo in esilio a Londra, cittadini sovietici che avevano lavorato in Germania, francesi e americani. Nel Gulag di Kolumna si trovava pure un diplomatico spagnolo, arrestato a Danzica. L'ondata delle deportazioni cessò a partire dal mese di maggio del 1945. Nell'autunno seguente i deportati malati o non più abili al lavoro vennero rispediti alle località d'origine. Negli anni 1946-1948 iniziarono i rientri in massa e nel 1949 ebbero luogo gli ultimi ritorni. Indietro, tuttavia, rimase ancora un'aliquota di prigionieri di cui non si é saputo più nulla.



    A Könisberg



    I sovietici s'inoltrarono nella città e subito da ogni dove l'eco delle urla di terrore dei civili si confuse con le loro urla di trionfo. Uomini cadevano uccisi e donne invocavano aiuto dai soldati che passavano avviati in prigionia e che nessun soccorso potevano ormai più dare; il fuoco si accompagnava ai saccheggi, i saccheggi alla furia distruggitrice. L'indomani i cittadini furono stanati dai loro rifugi e radunati nelle vie e nelle piazze e, sotto stretta sorveglianza, posti in marcia per le vie sconnesse della città e per le strade che dalla città si diramavano nelle zone limitrofe. Colonne di donne e colonne di uomini cominciarono a camminare in direzioni diverse senza sapere dove, sempre spinti in avanti dalle guardie che li scortavano, affrontavano un percorso e poi tornavano indietro, passavano per una località e poi ci ritornavano finché affrontarono percorsi più lunghi che li portarono nel Samland o a Labiau. A dover peregrinare in questo modo non erano solo adulti, ma pure ragazzi, neonati in carrozzella, malati portati avanti su carriole, e su di loro scese per prima la morte. I sovietici pareva avessero in programma nient'altro che di farli marciare, di trascinarli, spettatori coatti, sugli scenari della lotta, per luoghi minati e ancora seminati di cadaveri; non davano loro da mangiare né da bere, non interessava loro se trascorrevano la notte all'aperto, dietro cespugli o qualche albero per ripararsi dal freddo o in qualche stalla o fienile delle fattorie demolite dalla guerra. Loro preoccupazione principale era di farli marciare a bastonate, se necessario, e a notte andare a disturbare le donne.
    L'odissea di Könisberg é evidenziata dalle seguenti cifre: al momento dell'assedio, nella città erano rimasti circa 100.000 abitanti. A causa dei combattimenti e delle marce dei primi giorni d'occupazione morirono circa 30.000 persone (dati sovietici). Diverse migliaia morirono nei lager organizzati dall'autorità sovietica. Questo vuoto venne colmato nei mesi di giugno-luglio 1945 dai rimpatriati, cosicché, in base ai certificati di registrazione, gli abitanti raggiunsero il numero di circa 70.000. Due anni dopo, nell'estate 1947, secondo valutazioni fatte da medici e dal clero, rimanevano ancora circa 24.000 tedeschi; in detto periodo 2.300 persone avevano potuto lasciare la città. In totale, sotto dominazione sovietica, a fine 1947, erano decedute quasi 50.000 persone, a cui vanno aggiunti i 30.000 del periodo bellico e delle “marce di propaganda” (Deichelmann, Hans, Ich sah Könisberg sterben, Aquisgrana, s.e., 1949).

    Così, fra discorsi ed applausi, se ne partì l'Armata Rossa. Aveva avuto il tempo di infierire, deportare, ridurre allo stremo la popolazione tedesca e, soprattutto, di spogliare il paese dei macchinari e delle apparecchiature industriali, dei beni agricoli e del patrimonio zootecnico. Si portò via i mezzi di trasporto, le attrezzature scolastiche, municipali, alberghiere, ospedaliere e, singolarmente, si arricchì di ogni possibile bene privato, senza trascurare le biciclette, un mezzo che molti dell'Armata Rossa non avevano mai usato. Ai polacchi lasciò ben poco, ai tedeschi nulla.

    L'offensiva d'ottobre nella Prussia orientale dimostrò sia ai Gauleiter sia ai cittadini che i tedeschi non avevano da aspettarsi molta comprensione da parte delle truppe sovietiche e dei comandanti delle divisioni corazzate; le fiumane di evacuati che arrivavano nella Sassonia e nella Slesia occidentale davano notizie di prima mano sulle atrocità perpetrate dai sovietici contro i civili tedeschi che non avevano sgomberato in tempo. Il 20 ottobre, per esempio, alcuni comandanti di carri armati sovietici avevano raggiunto una colonna di profughi che abbandonavano il distretto di Gumbinnen nella Prussia orientale; l'intera colonna era stata sterminata perché il comandante aveva ordinato ai suoi carri armati di continuare ad avanzare sui rifugiati e sui loro veicoli. [...]




    A queste vittime vanno aggiunte migliaia di altre vittime degli anglo americani dopo la fine della guerra. Anche qui le prove saltano fuori raramente ma ormai a sufficienza per imbastire un’altra Norimberga. Il caso più spaventoso è quello americano: fu Ike Eisenhower, il comandante in capo dei "liberatori", a volerlo: fece morire di fame, di stenti e di malattie un milione di soldati tedeschi, prigionieri di guerra e rinchiusi nei campi di concentramento americani in Europa. In tre mesi, senza camere a gas. Lo ha documentato, in un recente libro edito dalla Mursia e intitolato "Gli altri lager", lo scrittore canadese James Baque. Anche questo testo è ormai introvabile. Non è politicamente corretto.

    Per tutti questi crimini, perpetrati per giunta a guerra finita, mai nessuno è stato non solo condannato ma neppure processato. Ma questo non si insegna nelle scuole dove regna ormai una propaganda totalitaria.









    Ci scusiamo con il lettore per la frammentarietà dei testi, in gran parte tratti dalla preziose quanto unica ricerca dello storico Marco Picone Chiodo, in seguito diventato cittadino germanico.


    Il suo libro “ e malediranno l’ora in cui partorirono” ed Mursia, è uscito vent’anni fa, non ha più avuto riedizioni è praticamente introvabile.


    I milioni di assassinati tedeschi non hanno diritto alla memoria e non hanno diritto nemmeno alla loro storia. E’ la poesia di Elia Eheremberg.


    Ma la giornata della memoria, piaccia o no, vale anche per loro. Se sapranno mantenerla, la memoria vera, il tempo porterà forse giustizia. Non esiste il male assoluto e il male peggiore deriva sempre da chi è convinto di essere deputato ad incarnare il Bene.




    Il "poeta" Elia Ehrenburg

  3. #3
    kalashnikov47
    Ospite

    Predefinito

    Ecco una bella immagine del porco-visitors Iljia Ehremburg




    Purtroppo per un porco come questo, Inferno è un luogo di villeggiatura.

 

 

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