di BARBARA SCHIAVULLI

Ali Jabbar è un paramedico di Bagdad. 38 anni, da 16 fa questo mestiere. Se una volta significava portare di corsa donne incinte all’ospedale o vecchi colti d’infarto, oggi sempre di più, trasporta quel che resta delle vittime degli attentati. Ogni giorno sale su un’autoambulanza e spera di trascorrere una giornata tranquilla. Non succede mai. «Sappiamo quando cominciamo, ma non quando finirà il nostro turno - racconta - a volte lavoriamo anche per venti ore di fila, con il sangue di quelli che soccorriamo che ci si asciuga addosso perché non abbiamo il tempo di cambiarci i vestiti». Ma il problema non sono gli orari estenuanti, la fatica o il sangue a cui si viene a contatto, è l’orrore che ogni giorno sfila davanti agli occhi e il rischio sempre più alto di diventarne parte.
«Anche durante la guerra Iran-Iraq, non ho mai visto niente del genere - dice Ali - allora soccorrevamo feriti, al massimo vittime di una mina, adesso è come trovarsi all’inferno. Quando esplode un’autobomba e noi riusciamo a raggiungere il posto, è sempre qualcosa di spaventoso. Ci sono braccia, gambe, teste separati dai corpi. Ci sono bambini che urlano, donne coperte di sangue. Dobbiamo velocemente dividere i feriti dai morti e soccorrere i primi, dobbiamo cercare di capire quali pezzi appartengono all’uno o all’altro sperando che poi i medici abbiano gli strumenti, le medicine e il tempo per rimettere insieme quella povera gente». Jabbar si lamenta perché spesso arrivano troppo tardi. «Il traffico è terribile in città, nessuno rispetta le sirene e poi tra posti di blocco, ingorghi, strade chiuse, a volte ci mettiamo anche venti minuti, spesso sono i passanti a caricare i feriti in macchina e trasportarli in ospedale, succede anche che quando arriviamo i soldati americani abbiano già circondato la zona e non ci lasciano entrare temendo che trasportiamo armi o militanti». Sono 90 le autoambulanze funzionanti a Bagdad e spesso diventano l’obiettivo degli insorti che cercano mezzi per poter muoversi più liberamente e senza dare troppo nell’occhio in una capitale sempre più paranoica. Alcuni mesi fa Jabbar si stava dirigendo dal quartiere una volta benestante di Al Mansour a quello pericoloso di Dora. «Io e il mio collega che era alla guida eravamo rimasti imbottigliati nel traffico quando due uomini a piedi ci sono venuti incontro e hanno crivellato l’autoambulanza di proiettili». Akram Muhammad Sahih, 34 anni, padre di due bambini è morto, mentre Jabbar che gli sedeva accanto ha finto di esserlo. «Vorrei smettere, ma se resto senza lavoro la mia vita non migliorerà, sarei sempre a rischio, almeno così so di essere d’aiuto». Per questo la moglie non lo assilla. «Voleva che lasciassi il lavoro, ma poi ha capito. Adesso abbiamo un patto, lei mi chiama, uno squillo solo senza risposta e io la richiamo allo stesso modo, così sa che sono vivo. Ci chiamiamo anche 12 volte al giorno». E in una Bagdad impregnata dall’odio e dalla violenza c’è ancora chi per 80 dollari al mese rischia la propria vita per salvare gli altri.

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