Per la verità, il fenomeno non è affatto recente: dei 262 kibbutzim presenti in Israele, 188 sono completamente privatizzati. Ma un recente articolo del Financial Times ha fatto luce sul fenomeno che, a partire dagli anni '90, ha visto crescere il numero delle (ormai ex?) comunità agricole socialiste che hanno progressivamente ridotto le differenze con le aziende agricole private.

Il modello di comunità nella quale i lavoratori, anziché il salario, ricevevano tutti le medesime quote di cibo (consumato tutti assieme, in sale comunitarie), assistenza medica e istruzione, condividevano le abitazioni e i mezzi di trasporto, ha lasciato il posto a vere e proprie aziende agricole a gestione privata, le quali hanno cominciato a ridurre i servizi condivisi e a fornire, in cambio, una remunerazione basata sulla effettiva produttività o abilità: gli amministratori non ricevono quanto un operaio, e i lavori meno specializzati e gratificanti (un tempo svolti, a turno, da tutti i membri del kibbutz) tendono a essere assegnati a dipendenti esterni alla comunità: un vecchio tabù infranto. Si, perchè queste aziende spesso si dedicano, oltre alla coltivazione, anche alla produzione manifatturiera o allla fornitura di servizi, come, ad esempio, viaggi turistici.

Evidentemente hanno valutato di dovere investire il proprio capitale e di diversificare le proprie entrate, proprio come i propri concorrenti. E come le aziende private, 22 kibuttzim sono quotate in borsa.

La spinta a questo cambiamento, l'autore, Tobias Buck, la individua, tramite le interviste, nella volontà degli aderenti alla comunità di migliorare le proprie condizioni di vita, di potersi permettere quello che al di fuori, nella società aperta al mercato, è alla portata di tutti. Oltre che nella non perfetta aderenza dei kibbutzim alla dottrina socialista, come ammettono alcuni membri, che ha permesso loro di cambiare.

Secondo Omer Moav, professore di economia presso la Royal Holloway University ed ex kibbutznik, “E' nalla natura umana – e un sistema socialista, come il kibbut, non è adatto alla natura umana”. Sembrerebbe che la possibilità di mutare le regole di convivenza e i principi su cui si basa il singolo kibbutz abbia portato, come risposta alle problematiche incontrate, a una “naturale evoluzione” verso una società più aperta, individualista, che potesse soddisfare le aspirazioni dei membri. Una società di mercato.

Link all'articolo FT.com / Management - The rise of the capitalist kibbutz