Un punto su cui io, Faye, e quel che resta della Nouvelle Droite, siamo assolutamente d'accordo è la critica ed il rifiuto dell'assimilazionismo, o del cosidetto "razzismo integrazionista". La provenienza francese della più forte denuncia di questa tendenza, sia nelle sue forme esplicite e consapevoli che nelle sue forme latenti, è significativa. È infatti la Francia (oltre che in misura minore gli Stati Uniti) la patria di elezione dell'ideologia integrazionista più dura. Ideologia astratta, irrealista, che prolunga il monoteismo politico nel giacobinismo, trova il suo seme stesso nella Francia dei Quaranta Re, della Rivoluzione, e del rifiuto del modello imperiale, a favore della negazione tanto di realtà politiche, etniche e culturali sovraordinate, che delle stesse nazionalità diverse stanziate nell'"esagono" francese, represse e cancellate per ottocento anni con una durezza ma soprattutto con una tenacia che ha avuto pochi uguali in Europa. Tale tendenza si rispecchia nella politica e cultura coloniale francese. Anche gli altri colonialismi non ne sono andati immuni. Ma se quello italiano e tedesco si apparentava soprattutto all'idea di espansione imperiale, se quello anglosassone era in fondo l'espressione di uno sfruttamento mercantilistico di una classe di avventurieri che si autoisolavano pressoché totalmente dalle comunità locali per ricreare caricature periferiche ed impermeabili della società inglese anche nella giungla del Borneo o nella savana africana, in Francia diventa un luogo comune lo scenario dei prefetti, dei burocrati e dei gendarmi preposti all'amministrazione dei territori e domini d'Oltremare secondo il modello centralista dello stato-nazione, e degli istitutori che insegnavano ai bambini senegalesi a ripetere in coro Ils étaient grands, ils étaient blonds, nos ancêtres, les Gaulois ("erano alti, erano biondi, i nostri antenati, i Galli"!), e, a frustate, ad apprezzare le virtù repubblicane. Questa tendenza, oltre ad essere ben nota nella sua versione "umanitaria", "missionaria" e "redentrice", abita tuttora profondamente, nella sua versione "dura", anche lo spirito di certa destra francese, specie gollista (cfr. Charles Pasqua o Alain Griotteray), a partire da un clamoroso fraintendimento del principio sacrosanto per cui un popolo non è (solo) una razza, ma è soprattutto è un progetto comune. Non è purtroppo estranea neppure ad ambienti italiani che si vorrebbero in qualche modo anti-immigrazione, o comunque favorevoli ad un controllo della stessa, ed in particolare ad alcune componenti meno consapevoli dell'ambiente leghista. La variante pratica e meno intellettualmente paludata di questa inclinazione corrisponde del resto alla versione piccolo-borghese e "di destra" della nostalgia di "un" proletariato, qualunque esso sia, di cui si sente evidentemente la mancanza. Quante volte sentiamo dire: "L'ospite deve rispettare le regole della casa", oppure "non ho niente contro gli immigrati se rispettano la legge / parlano la lingua / fanno un lavoro onesto / si comportano come gli altri / non sono invadenti / fanno la comunione ogni domenica / si vestono come noi / si comportano da 'persone civili'". Con sottintesi più o meno allucinatori sulla possibilità di rendere l'immigrato extra-europeo "come noi", possibilmente però più gentile, sottomesso, pronto a lavorare in nero, ed a basso costo, a tempo indeterminato, ed a prestarsi per sempre a fare "i lavori che gli europei non hanno più voglia di fare". La realtà è invece che l'assimilazionismo può funzionare con minoranze demograficamente già soverchiate ed etnicamente prossime, ma in tutti gli altri casi non è altro che una via accelerata al meticciato etnico e culturale anche per gli "assimilatori", allo sradicamento brutale e criminogeno e degli immigrati dalle loro identità, appartenenze e regole comunitarie, e necessariamente ad una militarizzazione crescente della società, posto che l'integrazione forzata, sino a che davvero non si realizzi una definitiva distruzione dell'identità degli ingredienti (tanto di quello allogeno che di quello autoctono!), può essere mantenuta soltanto attraverso una pressione costante, sostanzialmente poliziesca. A partire dai gruppi spontanei di prima socializzazione negli asili d'infanzia sino alla composizione del panorama urbano, i gruppi etnoculturali continuano infatti a separarsi come i componenti di un'emulsione di acqua e olio, al punto che quando i "bianchi" sono ormai divenuti irrilevanti, la rivalità etnica esplode, con intensità ancora maggiore, tra gli etiopi e gli egiziani, tra i nigeriani ed i senegalesi, tra i cubani ed i portoricani. Un famoso fumetto di Gérard Lauzier vede una donna bianca della periferia parigina intervistata da una giornalista sul razzismo rispondere "Ah, sì, abbiamo un bel problema nel nostro quartiere con l'ìntolleranza tra i bantù e i mandingo... Cosa? Noi francesi? Boh, di solito nessuno fa a caso a noi, siamo così pochi...". La stessa particolare crudeltà della guerra di Algeria rispecchia del resto l'insopportazione e l'incomprensione giacobina dei motivi per cui alcuni "francesi" di oltremare potessero ad un certo punto aver concepito dei motivi per ribellarsi e per tradire la "patria", posto che pelle, religione, usanze, lingua e geografia non erano che accidenti privi di peso nella visione idealista, astratta e burocratica della patria suddetta. Un equivalente contemporaneo alla ideologia colonialista modello "francese" è così l'idea, non inaudita neanche in Italia, non solo in ambiente leghista, ma ancora di più tra l'elettorato di Alleanza Nazionale e dei partitini cattolici del Polo, di accoppiare un eventuale e velleitario "controllo" o "limitazione" della immigrazione con una nazionalizzazione forzata degli immigrati e delle popolazioni etnicamente estranee che hanno già acquisito la cittadinanza, a base di petizioni popolari contro l'edificazione di moschee, di monolinguismo imposto, di divieti all'utilizzo dello chador (al punto da rimettere in discussione a tale scopo la tolleranza da sempre in essere per le suore cattoliche),, etc. Atteggiamenti che riproducono esattamente tanto la repressione centralista tradizionale contro le minoranze autoctone, specie in Francia (come ben sanno corsi, baschi, brettoni, normanni, occitani...), ma anche nel nostro stesso paese (cfr. il caso del Sud Tirolo), quanto d'altra parte il tipo di ideologia "colonialista" sopra descritta, che in questo caso sarebbe applicata ad una sorta di "ri-colonizzazione", puramente ideologica e ed a prescindere dall'elemento etno-demografico,... del proprio territorio nazionale e/o di "manodopera" alla cui importazione ci si è rassegnati. Anzi, nella prospettiva del "razzismo assimilazionista" francese, l'ibridazione ed il meticciato, al contrario che nella prospettiva "imperiale", italo-tedesca, non solo è irrilevante, ma è un fenomeno positivo in quanto condurrebbe, in tale visione, all'"assorbimento" ed alla "conversione", ieri del "colonizzato", oggi dell'immigrato, da trasformare in un "cittadino" della "repubblica". Ora, è facile notare che tale punto di vista non è altro che la versione "nazionale", "politicizzata" ed autoritaria, della globalizzazione e normalizzazione planetaria imposta dal Sistema, come la rivoluzione francese e Rousseau lo sono di quella americana e di Locke. Questo atteggiamento è certamente "razzista", in quanto prende in conto l'identità culturale ed etnica dell'Altro per abolirla ed integrarla ad un modello proprio, ma non ha nulla a che vedere con l'etnocentrismo identitario europeo (o del resto africano, giapponese, etc.). La dimostrazione della assoluta confusione mentale che regna al riguardo è data dalla definizione in termini di "pulizia etnica", con riferimenti più o meno espliciti al nazionalsocialismo (!) della supposta politica di stupro di massa in Jugoslavia, il cui risultato in termini procreativi non potrebbe che essere... diametralmente opposto a qualsiasi obbiettivo di difesa o "purificazione" della identità etnica cui gli stupratori appartengono. E qui siamo ancora tra gruppi che pur denotati da forti rivalità storiche, e perciò da un'inevitabile accentuazione polemica delle differenze esistenti, vivono nella medesima regione da secoli, e presentano da secoli un forte intreccio di componenti politiche, linguistiche, genetiche, religiose, eccetera, che non ha nulla che vedere con la ipotizzata convivenza, negli stessi quartieri e negli stessi stabili, di popolazioni provenienti da tutti i possibili estremi dello spettro offerto dalla specie umana e dalla geografia. Così, l'assimilazionismo "di destra" pensa tuttora di celebrare i propri complessi di superiorità nel tentativo di forzare gli immigrati (che si crede di poter importare "a comando", aprendo e chiudendo il rubinetto secondo le necessità congiunturali del momento) a diventare... caricature di europei, con la riserva mentale di avere una riserva di schiavi a pronta disposizione, esattamente come l'assimilazionismo "di sinistra" vede in fondo di buon occhio l'immigrazione per l'idea di convertire meglio gli extraeuropei alla democrazia, all'umanitarismo ed alle religioni "buoniste" locali, con la riserva mentale di avere una nuova massa di diseredati su cui rilanciare le vacillanti fortune delle proprie strutture militanti. E' quasi inutile rilevare come nel medio termine i risultati sono destinati a ripercuotersi inevitabilmente contro gli stessi apprendisti stregoni, posto che il tentativo di assimilazione forzata di importanti flussi migratori fortemente eterogenei genera in realtà, ancora più della politica "multicomunitarista" della società a macchie di leopardo, costi sociali (e cioè alla fine costi economici!) spaventosi, odio e scontri razziali, ed una società povera, poliziesca, spaventata, ibrida, sperduta, confusa, violenta, in cui né gli interessi della borghesia bianca né i valori cattocomunisti hanno più grande corso, ed in cui la politica si trasforma in una questione di pure appartenenze di tipo tribale. L'esplosiva situazione francese dei nostri giorni riproduce del resto, mutatis mutandis, il profondo riflusso vericatosi negli ultimi vent'anni nella nazione (o per meglio dire nel paese, essendo il concetto di nazionalità inappropriato a tale formazione politica), che del melting pot fa il suo stesso mito di fondazione, ovvero gli Stati Uniti di America, in cui sono le stesse "minoranze", o meglio le stesse componenti etniche meno favorite, a ri-ghettizzarsi, ricreando comunità omogenee in diffidente convivenza o aperto conflitto con le altre confinanti, dotate della propria vita sociale, civile e religiosa, della propria economia locale più o meno legale, dei propri leader, etc.; ed in cui l'"integrazione" tende al più, persino a livello di discorso teorico, a restare la provincia di alcune "zone franche" ed istituzioni comuni, come le forze armate, lo show-business, lo sport professionistico, etc., più che a permeare la vita quotidiana della massa della popolazione. Con alcune significative differenze, che Faye è il primo a ricordare. Prime fra tutte il fatto che gli Stati Uniti a differenza dei paesi europei si sono formati proprio a partire da una scelta, da un progetto collettivo di rifiuto delle identità e delle appartenenze organiche (pure come si è detto costantemente riemergenti), rifiuto che ne costituisce la stessa ragione d'essere; che tale paese gode tuttora di risorse e spazi immensi, non solo in senso geografico, dove disparate comunità etniche, religiose, etc., diverse possono permettersi, almeno al di fuori dei grandi conglomerati urbani, una condizione di relativa segregazione; che alla natura composita della base sociale americana fa riscontro un'immigrazione, legale e clandestina, fortemente limitata, ed organizzata sulla base di un sistema di quote, e non una invasione selvaggia di disperati allogeni; che infine il potere di "riduzione" e "controllo" delle identità da parte del sistema americano è comunque il più efficace del mondo, anche a partire dagli enormi mezzi di cui il sistema di potere locale dispone, grazie tra l'altro al suo dominio sul resto del mondo. Per non contare il fatto che la società americana è molto più brutale e pragmatica (cosa del resto normale per una società di "pionieri", o almeno di loro eredi) di quanto piaccia pensare o sa oggi tollerabile in Europa. Rispetto ad un sistema giudiziario certo più "garantista" in alcuni sensi del nostro, il cittadino americano convive benissimo, non tanto con un pena di morte raramente e tardissimamente irrogata oltre che oltremodo costosa (il costo per le procedure relative viene quantificato in molte centinaia di migliaia di dollari per ciascuna esecuzione), ma molto più concretamente con una popolazione carceraria di entità dieci volte superiore a quella italiana o francese, con un diritto penale basato su pene edittali elevatissime, e con metodi di controllo sociale - dall'inesistenza di una previdenza degna di questo nome al comportamento pratico sul territorio dei vari law enforcement officers - alquanto spicci per i nostri standard attuali.....