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    Predefinito Affinità elettive tra Sapiens e Neanderthal

    OMNIA SUNT COMMUNIAAffinità elettive tra Sapiens e NeanderthalQuella dell'evoluzione è una teoria storica e il compito del biologo è, per certi versi, quello di uno storicoOggi all'Auditorium di Roma un incontro titolato «L'alba dell'uomo» illustrerà le ultime ipotesi sul «come eravamo». L'evoluzione del genere umano non si legge più come l'esito di una linea ascendente. Si ipotizza invece una presenza contemporanea di più specie, tra loro soggette a ibridazioni La chiave per conoscere meglio il rapporto tra la nostra specie e i suoi antenati ci è fornita dalla genetica. Nuove ipotesi sono state rese possibili dal ritrovamento, a Vindja, dFranco VoltaggioCi sono due modi distinti di rendersi conto di un fatto: da un lato cercare di scoprirne la causa; dall'altro chiedersi che cosa sia realmente accaduto e, soprattutto, come sia accaduto. Nata come scienza in senso proprio nel XVIII secolo, la biologia è appunto una indagine sul che e sul come della vita. A ben vedere una interrogazione incessante cui sono sottese due certezze: non possiamo stabilire la causa prima della comparsa della vita; siamo però in grado di ricostruirne la storia, soprattutto perché disponiamo, a partire da Darwin, di uno strumento concettuale particolarmente potente qual è il concetto di evoluzione, che ci spiega le modalità seguite dallo sviluppo della materia organica a partire dall'inorganico. Da questo punto di vista, aveva ragione un grande biologo evoluzionista, Stephen Jay Gould - scomparso nel 2002 - quando sosteneva che quella dell'evoluzione è una teoria storica e che il compito del biologo è, per certi versi, quello di uno storico. Una affermazione tanto più vera quando il materiale biologico studiato è quello dei fossili del genere umano. In questa prospettiva si muovono le ultime novità acquisite sulle origini della nostra specie, Homo sapiens, che quattro scienziati - Francesco D'Errico, del Cnrs francese, Richard E. Green, ricercatore americano attualmente al «Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology» di Lipsia, Carlos Lalueza Fox dell'Università di Barcellona e Guido Barbujani dell'Università di Ferrara, coordinati da Alberto Oliverio dell'Università La Sapienza, esporranno questo pomeriggio all'Auditorium Parco della Musica di Roma, nell'ambito di una iniziativa, il «Darwin Day», promossa dalla Fondazione Sigma Tau in collaborazione con il bimestrale di scienze «Darwin». Ipotesi su come eravamo Il tema dell'incontro, «L'alba dell'uomo», è certamente intricato, e intrigante. Sapere «come eravamo» è infatti un'altra maniera per sapere «come siamo». Saperlo, tuttavia, non è facile perché non è ancora stato pienamente indagato il rapporto originario tra l'Homo sapiens, l'Uomo di Cromagnon, l'Uomo di Pechino, l'Uomo di Sacco Pastore, e, soprattutto, l'Uomo di Neanderthal, il più vicino al Sapiens per la conformazione fisica complessiva, la struttura cranica e le abilità di simbolizzazione. Per affrontare la mole dei reperti la paleoantropologia tardò a trovare il metodo giusto. Il metodo dei paleoantropologi restò infatti centrato a lungo sulla misurazione comparativa degli scheletri degli ominidi e fu segnato altresì da una ossessione neppure troppo magnifica: scoprire tra i reperti, che si facevano sempre più numerosi, l'anello di congiunzione «mancante» (missing link) tra il Sapiens e un ominide che potesse ritenersi il suo antenato diretto, nel presupposto, tra l'altro, che la comparsa del Sapiens, «razzisticamente» identificato con l'Homo Europaeus, avrebbe comportato la scomparsa dell'anello. In realtà, anziché procedere alla ricerca della transizione da inferiore a superiore, occorre interpretare l'evoluzione del genere umano non già nei termini di una linea ascendente ma di una proliferazione che contempla la presenza contemporanea di più specie umane, nelle quali possono essere individuate forme di sviluppo indipendente, come, per altro, tracce evidenti di ibridazione. Si tratta di una svolta concettuale, una autentica rivoluzione conoscitiva che comincia a produrre i suoi frutti. La chiave per saperne di più sul rapporto tra Sapiens e Neanderthal ci è ora fornita dalla genetica e, in particolare, dal sequenziamento del genoma del secondo, vale a dire dall'analisi delle basi di Dna distribuite in sequenza nel corredo genetico del fossile dell'ominide a noi più affine. Per ora il sequenziamento non è completo, ma ci sono buone probabilità che l'obiettivo sia raggiunto in un futuro abbastanza vicino. Proprio le ipotesi relative al ritrovamento a Vindja, in Croazia, di un fossile di Neanderthal, risalente a circa trentottomila anni fa, sono al centro di un articolo uscito su «Nature» alla fine dello scorso anno (16 novembre 2006) e firmato, insieme a un nutrito stuolo di altri ricercatori, da uno degli scienziati che prenderanno parte al convegno di oggi, Richard Green, che dagli Stati Uniti si è trasferito a Lipsia appunto per studiare da vicino la genetica del Neanderthal. Eccezionalmente ben conservato, il fossile di Vindija è privo di contaminazioni di Dna umano moderno, il che significa che il reperto escluderebbe la possibilità di ibridazione tra il Neanderthal e il Sapiens. Senza comunque dare per certa l'assenza dell'ibridazione, che potrebbe essere provata dal sequenziamento di altri fossili, sappiamo per ora che ci troviamo di fronte a due gruppi filetici diversi. Sappiamo inoltre - e questo è il risultato più significativo - sulla scorta del sequenziamento di un milione di basi del fossile, comparato con le sequenze genomiche del Sapiens e dello scimpanzè, che le sequenze dei Neanderthal e dei Sapiens si sono separate circa mezzo milione di anni fa, dando così luogo a due specie umane diverse. A un risultato analogo pervengono Lalueza Fox e, in particolare, Barbujani che ha lavorato sulla scorta di simulazioni al computer, arrivando a concludere che il modello simulato più attendibile è quello che contempla due linee ascendenti separate, una che riguarda i Neanderthal, l'altra che concerne i Cromagnoidi e i Sapiens. Resta il fatto che le affinità tra il Sapiens e il Neanderthal sono particolarmente significative, specie per quanto riguarda la capacità di simbolizzazione. A questo punto si presentano due opzioni che sono per noi Sapiens di particolare interesse: o ritornare alla vecchia tesi di una derivazione del Sapiens dal Neanderthal, o procedere come fa D'Errico, il quale perviene a conclusioni lontane, se non addirittura lontanissime, dal modello di rivoluzione culturale, ancora in parte dominante, secondo cui la svolta sarebbe intervenuta in Europa circa quarantamila anni fa, agli inizi del Paleolitico Superiore, con l'arrivo di uomini anatomicamente moderni, ossia dei Sapiens. Se si studiano le tradizioni simboliche e tecnologiche dei Neanderthal si scopre che queste non sarebbero granché diverse da quelle che gli uomini anatomicamente moderni avevano in Africa. Quando i gruppi umani moderni, provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente, pervennero in Europa, non avrebbero fatto altro che portare nel vecchio continente le attitudini culturali e tecnologiche simili a quelle dei Neanderthal, le quali, tuttavia, furono raffinate sino a dar luogo a quelle proprie dell'attuale specie umana. In altre parole non vi sarebbe stato una sorta di big bang culturale, ma piuttosto un'evoluzione graduale e lentissima iniziata molto prima del Paleolitico superiore. La genesi della cultura non sarebbe altresì un grande evento europeo, ma africano; o meglio, una serie di microeventi intervenuti in Africa che, d'altronde, i dati genetici indicano come la culla propria del genere umano. Si presenta tuttavia un interrogativo. Se la rivoluzione culturale è stata lenta e graduale non si capisce come sia apparso il linguaggio che, in sé, ha tutta l'aria di essere, sotto il profilo meramente storico ed evoluzionistico, una vera e propria cesura. Ma forse è possibile avanzare un'ipotesi, non del tutto inattendibile. Un corredo per potere parlare Tra linguaggio e simbolismo c'è una relazione stretta che può essere studiata in quanto sono le parole - anche se non esclusivamente (pensiamo ai graffiti) - a rendere materialmente percepibili i simboli. Ora i Neanderthal conoscevano il simbolismo ma non sapevano parlare, il che significa che i simboli sarebbero nati prima ancora di essere rappresentati come tali. Se è così, vuol dire non soltanto che il simbolismo è precedente al linguaggio, ma anche e soprattutto che ne è una condizione. Solo che chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la prospettiva evoluzionistica, sa che una condizione non diventa una funzione a meno che non intervenga un fatto nuovo, un fattore scatenante che la renda tale. Se i moderni venuti dall'Africa in Europa avevano, come sostiene D'Errico, tradizioni simboliche non molto diverse da quelle dei Neanderthal, è forse presumibile che al pari dei Neanderthal non avessero il linguaggio, pur disponendo di un corredo - area cerebrale responsabile, simbolismo e apparato di fonazione - per poter parlare. Avrebbero disposto, in altre parole, oltre che del simbolismo, di un materiale ridondante perché non utilizzato, oggi definito una exaptation, che, sotto la spinta di un fattore scatenante - di cui ignoriamo natura e origine - si trasformò in Europa in una precisa funzione, quella linguistica. Allora perché non immaginare uno scenario, se non idillico, certo pacifico in cui lo sguardo del Sapiens guardò con benevolenza chi, come il Neanderthal, non sapeva parlare? Ma se è stato così agli albori della nostra Europa, in un teatro di genti in cui si congiungevano virtuosamente migrazione e convivenza, diversità e identità, non potremmo aver ragione di guardare con speranza al futuro?ARDITI NON GENDARMI

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