Mark Steyn ha visto la fine del mondo così come lo conosciamo. A differenza del cantante dei Rem, non si è sentito tanto bene.
America Alone - The end of the world as we know it, il cui titolo fa il verso alla famosa hit di Michael Stipe, è l’ultimo libro di quello che da molti è ritenuto il più grande editorialista vivente del giornalismo anglosassone. Canadese, vive in America e scrive sui più influenti giornali del mondo, dal New York Times all’Atlantic Monthly. Tagliente, spregiudicato, ironico, ha una tesi “fallaciana”: l’Europa è sottoposta a una conquista islamica, di cui il terrorismo è solo l’avamposto cruento. All’invettiva Steyn sostituisce l’ironia, alla rabbia il ghigno. Ma il risultato è paragonabile quanto a successo ed efficacia del messaggio. Caratteristica che dovrebbe suonare interessante alle orecchie degli editori italiani, anche se al momento a Libero non risultano traduzioni imminenti del testo.
Il libro è una summa del “pensiero forte” post 11 settembre: nell’Occidente sfinito, l’unico baluardo opponibile all’avanzata islamica si chiama America: «Con tutto il rispetto per Fukuyama (autore di “La fine della storia”, ndr), la storia non è finita. Sta finendo il mondo come lo conosciamo. Il fatto che ciò che verrà dopo ci piaccia dipende dall’eventualità che l’America trovi la volontà di dare forma almeno a una parte del nostro mondo». Al vecchio continente è riservato un nome noto ai lettori di Oriana Fallaci: Eurabia.
L’autore fa a pezzi tutte le preoccupazioni inutili di fine XX secolo, dagli allarmismi ecologisti al riscaldamento globale. Così come il vero problema degli anni ’70 e ’80 - l’Urss - non è mai stato percepito fino in fondo (quanti europei si concepiscono come i vincitori della guerra fredda, si chiede l’autore), il vero problema di oggi è rimasto sotto traccia almeno fino a un martedì di settembre del 2001.
La lettura dell’autore è quasi ossessivamente centrata sulla demografia. I dati che espone sono impressionanti: «Quant’è la popolazione islamica di Rotterdam? Il quaranta per cento. Qual è il nome più diffuso tra i neonati in Belgio? Mohamed. Ad Amsterdam? Mohamed. A Malmö, in Svezia? Mohamed». La questione è: che mondo ci attende? Gli strepiti sulla sovrappopolazione sono ribaltati dalla realtà: all’Europa mancano figli. Il continente «si è trasformato nella sala di attesa di un becchino». Steyn mette in fila i Paesi in ordine di tasso di fertilità: la soglia minima per non “diminuire” è 2,1 figli a donna. L’Europa si aggira sull’uno e mezzo, l’Italia sta a 1,2, la Spagna a 1,1. I Paesi col tasso più alto sono Niger 7,46, Mali 7,42, Somalia 6,76, Afghanistan 6,69... «Cos’hanno in comune? Comincia con “i”, finisce con “slam”». «L’islam ha gioventù e volontà, l’Europa vecchiaia e welfare»: un welfare insostenibile già nel medio periodo, nonostante nessun politico sembri disposto ad assumersi l’onere anche solo di far presente il problema.
L’Occidente che si trasforma sotto la spinta demografica dell’islam per Steyn ha un solo destino: ri-primitivizzarsi, sprofondare in un’epoca buia, paradossalmente incoraggiata da un «iperrazionalismo progressista e post-cristiano, molto meno razionale del cattolicesimo o del mormonismo». Il ritratto dell’uomo europeo, sulla scorta degli scenari di P.D.James, è desolante: «Fare figli è un business in calo», nota l’autore, che fotografa la deriva dello stato social-democratico: «Una società infantilizzata, dove gli adulti sono liberati da ogni responsabilità, e in cui non devi mai smettere di giocare. Siamo i bambini che non abbiamo mai avuto»: è l’“Eutopia” che diventa “Eurabia”. Senza bisogno di perdere una guerra. A questo scenario ineluttabile c’è un argine. C’è uno Stato occidentale, l’unico, non coinvolto dal prosciugamento demografico. Uno Stato che fa figli («nel 2050 ci saranno 100 milioni di americani in più e 100 milioni di europei in meno»), il cui sistema imperfetto funziona: si chiama America. Steyn non è ideologicamente filoamericano a priori: critica l’amministrazione Bush, l’alleanza economica con l’Arabia Saudita. Semplicemente, crede che l’unica difesa valida contro l’islamismo radicale sia a stelle e strisce. Per ragioni, come detto, demografiche, militari ma anche culturali.
L’ “umanesimo ateo”, che Steyn recupera da De Lubac, è sfociato in un’antropologia europea in cui «la mancanza di fede nel divino si presta a tradursi in un rifiuto della responsabilità dell’uomo: se non c’è nulla oltre al qui e ora, che bisogno c’è di lottare?». La pagine contro l’istituzione politica “Europa” sono tra le più dure: l’Unione è bollata come «una soluzione da anni ’70 a un problema da anni ’40». Urticante la bordata al referendum sulla bozza di trattato: «Quando Francia e Olanda hanno bocciato la nuova Costituzione, mi sono tornate alla mente le magliette delle femministe americane: “Quale parte della parola NO non capite?”.
Nelle cancellerie continentali, praticamente tutta la parola è risultata incomprensibile. All’epoca, la “presidenza” spettava al Lussemburgo, uno Stato poco più grande della vostra stanza. Juncker, sbraitando come l’avvocato difensore di una ragazza stuprata, ha insistito per tentare di convincere tutte le persone ragionevoli ad accettare che “no” significasse “sì”». L’Europa è diventata il terreno fertile dove abbracciare il nichilismo cantato da John Lennon in “Imagine”: un posto in cui non ci sia più nulla per cui morire. Dopo aver fatto a pezzi la retorica sul “multipolarismo” («Lo so, avrete letto migliaia di articoli sull’imperialismo culturale dell’America. Ma gli Usa, in maniera inversamente proporzionale al loro potere economico e militare, sono culturalmente isolati»), Steyn arriva al cuore della sua tesi: o l’America esporta se stessa e i suoi valori, o altri esporteranno i loro. Al mondo - tutto sommato - conviene la prima ipotesi.
Martino Cervo
(Libero, 18 novembre 2006)