Caruso, il figlio di papà sbarcato alla Camera con ventinove processi
di Giancarlo Perna

Entrando a Montecitorio, il neoeletto Francesco Caruso - Ciccio per gli intimi -, disse: «Mi batterò per i settemila ragazzi inquisiti». Per ragazzi, intendeva i disobbedienti che sfasciano le vetrine e fanno la spesa proletaria. Per inquisiti, si riferiva a sé che ha decine di processi in corso. Ventinove, pare, con un collegio di difesa di 12 avvocati. Questo brigante metropolitano di 32 anni è da dieci mesi deputato di Rifondazione comunista. Grande e grosso, Ciccio è il capo riconosciuto dei no global da Napoli in giù. Il suo magistero si estende fino a Lampedusa nel mezzo del Mediterraneo. Porta i capelli a spazzola e una barba corta che lo invade fino alla pappagorgia come il vello di un protostorico. Ha occhialini da banda Bassotti e un faccione lombrosiano. Per alcuni, ricorda un fratacchione. Per altri, un oste della malavita.
Nessuno lo considera cattivo, ma ha una fedina chilometrica. Talmente ingombrante, che è meglio sbrigarla subito, per poi parlare di lui nello spazio che resta. Se ne resterà.
A 22 anni, nel marzo ’96, Ciccio impedì ai pompieri di Bologna di spegnere un incendio di cassonetti appiccato da manifestanti tra i quali primeggiava. È stato inviato a giudizio nel 2002.
Nell’agosto ’96, la polizia sgomberò la sala universitaria bolognese di via Zamboni 36, occupata da anni. Ciccio si oppose muscolarmente e fu condannato nel 2003 a dieci mesi di carcere per aggressione. Nel maggio 2006, già deputato, è stato prosciolto in Appello per prescrizione del reato. Nel 1999, Ciccio si spostò a Milano per una rapina in un supermercato. Fu condannato a un anno e cinque mesi. Il processo d’appello è in corso. Nel marzo del 2001, Ciccio era a Napoli, la sua città. Alla testa delle truppe in passamontagna, manifestò contro un vertice Nato, scontrandosi con la polizia. Corse voce che fosse stato fotografato mentre distribuiva mazze ai sanculotti. Panorama pubblicò delle foto. Lui, reagendo come un Tronchetti Provera, dichiarò: «I miei legali mi hanno assicurato un lauto risarcimento, per la montagna di veleni di Panorama». In precedenza, aveva annunciato: «Verremo armati». Poi, letti i titoli allarmati del Mattino, si spaventò e fece dietrofront. «Era una provocazione», disse. Processo in corso.
Il 15 febbraio 2002, l’infaticabile Ciccio era a Roma. Devastò una sede dell’Adecco (società di lavoro interinale) coadiuvato dai suoi figuri. A verbale, precisò serafico: «È stata un’azione di “smontaggio dell’agenzia”, senza violenza sugli impiegati». Indagine aperta. Nel novembre 2002, Ciccio fu arrestato insieme con altri per ordine della magistratura di Cosenza. L’imputazione era, per uno come lui, lusinghiera: «Associazione sovversiva, atti violenti, minaccia alla sicurezza dello Stato, uso della violenza a fini rivoluzionari». Si riferiva alle imprese della Rete meridionale del Sud ribelle, fondata da Ciccio nel 2001. Tra queste, le devastazioni di Napoli durante il vertice Nato (già citato) e di Genova al G8 del luglio 2001. Sedici filmati in piazza, scrisse il giudice, inchiodano Caruso. Ciccio fu preso a Benevento in casa dei genitori e portato nel carcere di Trani. Andò trovarlo Nichi Vendola, allora deputato di Rc, che osservò beffardo: «Te l’avevo detto: “Prima o poi vengo a trovarti in carcere”. Stavolta è vero!». Ciccio, che in galera si trovava a suo agio, fece lo spiritoso. Disse a Vendola: «Ora devi trovare un posto carino per me». Così lo trasferirono dietro le sbarre a Viterbo. Dal soggiorno, scrisse un biglietto con un’intestazione da incallito lettore di fumetti: «Francesco Caruso, carcere di Mammagialla, Viterbo, Italia, Europa, Pianeta Terra. 25 novembre 2002, Anno Secondo della Guerra Globale Permanente». Intanto, a Cosenza, sfilavano per solidarietà cortei con strepito e casino. Da Venezia arrivò il suo alter ego del Nord est, Luca Casarini. Ebbe la solidarietà di Franco Piperno, un sessantenne, che fu capo di Potere operaio con Oreste Scalzone negli anni ’70. La temperatura salì e, per abbassarla, i giudici scarcerarono i prigionieri. Uscì anche Ciccio dopo 20 giorni di gattabuia. Il procedimento dovrebbe essere in corso, ma se ne sono perse le tracce.
Con ciò, l’essenziale è detto. Per questi e altri meriti, Ciccio ha avuto il soprannome di Striker che significa, a scelta, scioperante o picchiatore. All’onorevole vanno a pennello entrambi.
Eletto deputato, Striker si è da subito presentato a Montecitorio senza cravatta per non confondersi coi borghesi. Il suo primo atto è stato non partecipare al minuto di silenzio in Aula per i soldati morti a Nassirya. È rimasto fuori in attesa che la lagna finisse. Ne ha approfittato per dire ai giornalisti a proposito della strage: «Atto deprecabile, ma che va contestualizzato». Tradotto: se la sono andata a cercare.
Nei giorni successivi, ha portato in Parlamento delle bottigliette di vino dicendo che erano delle molotov. Poi ha riso per la spiritosata, ma da solo. Nel dicembre 2006, Striker è andato a Capo Rizzuto nel Centro di permanenza temporanea dei clandestini che sbarcano dall’Africa. Era accompagnato dalla compagna di partito e senatrice, Haidi Giuliani, mamma del no global ucciso a Genova. I due si sono autoreclusi per 48 ore nei locali del Ptc «come forma di protesta contro questa negazione della democrazia». Poi sono tornati in Parlamento a sudarsi i 20mila euro al mese, promettendo ai naufraghi una visita per Natale.
Quando allo stadio di Catania i tifosi hanno ucciso Raciti, l’ispettore di polizia, Striker ha dichiarato: «La morte di un agente vale come quella di un ultrà», aggiungendo che sono cose che capitano poiché la polizia «è poco addestrata e sa solo manganellare nel mucchio». Mentre la maggioranza dei colleghi lo avrebbe strozzato, il suo leader, Fausto Bertinotti, in visita di carnevale dal brasiliano Lula, ha commentato: «Non sono il suo angelo custode. Ognuno dice la sua e poi se ne assume la responsabilità». Una reazione da lord ma, nel fondo, molto seccata. Fausto è più che pentito di avere imbarcato Striker in Parlamento. Aveva fatto una scommessa su di lui. Lo ha addirittura fatto eleggere a Cosenza dalla cui Procura Ciccio fu arrestato. La sua speranza era di ammansirlo e, per questa via, «parlamentarizzare» i movimenti antagonisti. Ha fatto un buco nell’acqua e ora gli tocca cuccarselo. Sarà dura perché non gli sta neanche simpatico.
Oggi, per Ciccio il clima non è buono né a Montecitorio, né tra i suo descamisados che non gli perdonano l’ingresso alla Camera. Quando fu eletto, Casarini, il suo gemello, sbottò: «Tra movimenti e partiti, ha scelto i partiti e lo ha fatto in maniera truffaldina. Prima diceva: “Non mi candiderò mai. C’è chi va in galera e chi in Parlamento”. Si è visto». Un tale, Mario Avoletto, del gruppo di Ciccio a Napoli, aggiunse: «In Campania tutto il popolo dei centri sociali lo considera un venduto». Povero Striker. Solo e abbandonato, che farà da grande? Ciccio è nato a Benevento da famiglia assai perbene di origine calabrese. Il babbo è un ingegnere in pensione di Trenitalia, già governatore regionale del Rotary. I Caruso hanno case e terreni nel cosentino per sette pagine di Catasto, molti dei quali intestati a Striker. Il figlio, già contestatore in fasce, ha fatto disperare il babbo che lo ha tenuto a freno finché ha potuto. «Quando ero piccolo - ha raccontato Ciccio - mio padre mi diceva: figlio mio se vai alla manifestazione ti rifilo due ceffoni. E io col cavolo che ci andavo». Striker ha aspettato la maggiore età per trasferirsi a Bologna e frequentare Scienze politiche. Le sue gesta petroniane sono nel casellario giudiziario e le conosciamo. Poi tornò a Napoli e si laureò all’Istituto orientale. Si intrufolò nel centro sociale Officina 99 in periferia, poi in quello di piazza del Gesù, Laboratori Ska. Guidando l’occupazione dell’edificio, poi sede del centro Depistaggio, divenne capo della congrega. Da allora, ha partecipato a tutti i Social forum mondiali, Seattle, Porto Alegre, Nizza, Firenze. Pregno di queste esperienze nel 2001, a 28 anni, ha scritto la sua prima autobiografia, Maledetta globalizzazione.
Alla vigilia del G8 di Genova, spedì al ministro dell’Interno, Claudio Scajola, un bossolo di fucile. «Per invitarlo a riflettere sulla potenza distruttiva di un proiettile», spiegò. Al premier Berlusconi inviò invece un foglio di via. La notte delle botte al Diaz, raccontò ai cronisti l’irruzione poliziesca nei più cruenti dettagli. Una compagna lo interruppe: «Francé, ma tu dove stavi?». Dovette chiederlo più volte perché quello nella foga del racconto, faceva orecchie di mercante. Alla fine, rispose: «Concettì, stavo in pizzeria. E allora?». Ora è in Parlamento. E che c’è di strano?