Cosa c’entra Luigi Calabresi con questa opaca e avvilente crisi di governo? C’entra per uno scritto inedito che è appena venuto alla luce (lo vedremo) e per una clamorosa notizia che ieri si è curiosamente intrecciata con quelle del Palazzo. Ma prima bisogna considerare la parabola di una generazione, quella Sessantottina, dalla quale vengono i protagonisti di questa spregiudicata contesa di potere cui è ridotta la politica italiana. Dalla lotta di classe al salotto di governo. Pretendono il potere a tutti i costi, con tutti i compromessi di corridoio, ma non intendono rinunciare alla gloria, alla mitologia, alla canonizzazione epica. E al romanticismo della piazza di ieri e di oggi (vicentina o genovese). Perfino Fabio Mussi, oggi ministro dell’Università, rivendica il suo “amarcord” barricadero. L’ha consegnato a “Magazine”. Ha raccontato il primo incontro con Massimo D’Alema in una rissa con “i fascisti” all’Università di Pisa (“ci buttammo nella mischia”), poi ha evocato l’epico “scontro con la polizia”, l’impatto – sempre a Pisa – col tagliente leader di Lotta continua, Adriano Sofri (“un uomo molto duro. Avevamo rapporti tesi”). E pure Mussi ha voluto “aggiustare” la sua biognafia politica dando ad intendere – pure lui – di non essere mai stato comunista: “Chi è entrato nel Pci nel ’68 respirava una suggestione libertaria e anti-autoritaria”.
Insomma a Botteghe Oscure c’era un covo di liberali e libertari e non ce n’eravamo accorti. Il plumbeo Pci di Longo, prono a Breznev, era un allegro circolo di anticomunisti e non l’avevamo capito. In realtà anche il libro – appena uscito – di Andrea Romano, “Compagni di scuola”, intrecciando le biografie degli altri rampolli del Pci di allora (D’Alema, Veltroni, Fassino), racconta un’altra storia e ricorda impietosamente detti e fatti memorabili. L’autore – che è dell’ambiente, è stato collaboratore di D’Alema – traccia un bilancio desolante di questa leva “sessantottina”.
Ma forse c’è pure di peggio. Che dire dei Bertinotti e dei Diliberto – tuttora comunisti, che si baloccano ancora con le piazze e le mitologie guevariane – i quali in queste ore si mostrano i più accaniti nel tenere in vita l’agonizzante governo Prodi pur di non perdere la poltrona e il potere? Secondo le cronache si ricorre al mercato delle vacche parlamentari per sopravvivere: dov’è l’idealismo, dov’è la bandiera dell’ideale senza se e senza ma? E lo slogan, che piace tanto a Bertinotti, “un mondo nuovo è possibile”? Sarebbe questo? Francamente pare il vecchio mondo del potere, delle auto blu e della poltrona. Perfino Raffaele Lombardo – a quanto si legge - andrebbe bene a questa Sinistra pur di restare in sella. E cosa gli hanno offerto? “Quello che si offre in questi casi, poltrone”, spiega impietosamente il politico siciliano.
Il regimetto dei Bertinotti, dei Diliberto, dei D’Alema e dei Fassino non sembra proprio “la fantasia al potere”, ma la fantasia del potere nel conservare se stesso. Un misto di doroteismo, cinismo, spregiudicatezza che – a parer loro – non stride con la rappresentazione che amano dare di sé, favoleggiando di grandi ideali. In effetti gli ex-giovani del ’68 che dominano nella politica, nei media, nel cinema, hanno in mano le leve del discorso pubblico e sono davvero riusciti a rappresentare la propria generazione come “La meglio gioventù”.
Non lo è mai stata e basta ricordare lo sfacelo e l’orgia di violenza che si scatenò dal Sessantotto. Ma il mito romantico della rivolta giovanile ormai è stato imposto dalla pubblicistica e dalla storiografia ufficiale, è il nuovo conformismo, è l’autorappresentazione del potere, è la sua autocanonizzazione. L’arroganza del potere di oggi era già tutta presente nell’arroganza dei “rivoluzionari” di ieri.
In realtà se fosse possibile tornare indietro nel tempo, a quegli anni, i veri idealisti dovrebbero essere cercati del tutto altrove. Un bellissimo documento inedito, appena riemerso, ci indica un nome (a lungo infangato): Luigi Calabresi, più noto come “il Commissario Calabresi”, il giovane poliziotto massacrato a 34 anni dalla violenza estremista. Sì, lui davvero era un grande idealista.
In questo suo bellissimo scritto – anticipato ieri da Avvenire – si legge: “Ancora qualche settimana e sarò Commissario di Pubblica Sicurezza. Lo dico perché sappiate in quale mondo sto per entrare con queste mie idee. Ma è una strada che ho scelto per vocazione, perché mi piace, perché sono convinto, perché costituisce una prova difficile. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. Io sono giovane. Ma riandando indietro con la memoria, mi pare che un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso. Si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale e così via. Oggi invece conta il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso”. Sappiamo come Calabresi fu accusato dopo la tragica fine di Pinelli, pur non entrandoci affatto. Il linciaggio morale a cui fu sottoposto, a rileggerlo sui giornali della Sinistra del tempo (e a ricordare le piazze di allora), fa spavento. A Giampaolo Pansa confidò: “Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio, non so come potrei resistere”. Anche Enzo Tortora fu testimone di questi fatti e scrisse di Calabresi: “Credeva in Dio, fermamente. Quando una volta gli chiesi, nel periodo più buio delle accuse, degli attacchi, degli insulti, come faceva a resistere, senza mai un cedimento di nervi, senza uno scatto, a quell’autentico linciaggio morale a cui era sottoposto, mi rispose sorridendo: ‘E’ semplice, credo in Dio. E credo nella mia buona fede. Non ho mai fatto nulla di cui possa vergognarmi. E non odio nemmeno i miei nemici; ho angoscia per loro, non odio. E’ una parola – odio – che proprio non conosco’ ”.
Era vero. Calabresi era sempre stato un eroico servitore dello stato, pieno di sensibilità cristiana. E’ nota la foto uscita sul Corriere della sera il 22 novembre 1969 dove si vede il giovane commissario che soccorre Mario Capanna, sottraendolo all’aggressione di alcuni suoi avversari. Poi arrivò l’attentato di Piazza Fontana e il caso Pinelli. Poi arrivò l’assassinio di Calabresi, il 17 maggio 1972. Il suo nome ha continuato a essere un tabù per il pensiero dominante (nessuna sala del Senato gli è dedicata come invece è accaduto per certi “manifestanti”). La generazione del Sessantotto è da tempo al potere e con il potere pretende anche la gloria. Ma la gloria non le spetta. La gloria spetta a un uomo buono e infangato come Calabresi. Morto ammazzato. E la gloria vera. E’ notizia di ieri infatti che il cardinal Ruini ha dato il nulla osta per l’avvio del processo di beatificazione del commissario (la bella pagina di Avvenire di ieri evidentemente preparava questo annuncio). Per decenni né le istituzioni, né i moderati, né i cattolici hanno ricordato quest’uomo. E’ emblematico che la notizia sia uscita ieri mentre andava in scena l’avvilente sceneggiata della Sinistra per tenere le sue poltrone.
Dobbiamo dirlo e forse gridarlo: “la meglio gioventù” fu incarnata da Luigi Calabresi. Ed è giusto che sia la Chiesa a farcelo capire, nel nome di quel Dio che “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili”.