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Discussione: Scavandosi la fossa

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    Un articolo lungimirante di un anno fa...da Eretica






    Scavandosi la fossa
    Le minoranze del Prc e l’alleanza di governo dell’Unione

    Leonardo Mazzei

    (febbraio 2006)

    POST SCRIPTUM del 12 aprile
    Questo articolo, che ha lo scopo di occuparsi delle prospettive delle minoranze del Prc, è stato scritto a metà febbraio e dunque non tiene conto dei recenti risultati elettorali.
    L’andamento della campagna elettorale ed il voto del 9 aprile hanno comunque confermato sia l’analisi sul programma e sull’impostazione di governo dell’Unione, sia quella sulla deriva moderata e compatibile con i “poteri forti” del partito di Bertinotti.
    L’esplicita rinuncia a qualsiasi ipotesi redistributiva, a fronte del certo foraggiamento delle oligarchie economico-finanziarie dominanti, è stata sanzionata dall’indecente balbettio tanto di Prodi quanto di Bertinotti sulla tassazione della rendita finanziaria e delle grandi ricchezze in genere.
    Il fatto che il centrosinistra non abbia saputo “parlare al popolo”, ma solo ai dominanti (che dal Corriere della Sera all’Economist non hanno fatto mancare il loro sostegno), a differenza di Berlusconi che con astuzia populistica ha saputo toccare le corde giuste anche per ampi strati popolari (dall’attacco ai vertici di Confindustria, all’abolizione dell’Ici sulla prima casa), ha reso il risultato assai più incerto del previsto.
    Ora l’Unione è comunque “obbligata” a governare, anche se ha ottenuto la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento solo grazie ai meccanismi della legge elettorale voluta dal centrodestra e precedentemente bollati come truffaldini.
    Paradossi di una stagione politica dove il marcio ha preso il sopravvento su ogni residuo pudore.
    Così non è bastato incassare un ampio premio di maggioranza alla Camera (67 deputati in più degli avversari con soli 25.000 voti di scarto!), ottenere una maggioranza di seggi laddove si è registrata una sconfitta in termini di voti come al Senato; no, si è voluto addirittura inneggiare alla vittoria, arrivando a parlare di “vittoria della democrazia”!
    Quel che è certo è che i vincoli di coalizione, già definiti dal programma e dal patto Prodi-Bertinotti, sono ora resi ancor più forti dall’esigua maggioranza di cui disporrà il governo al Senato.
    Le conseguenze sul Prc e sulle sue minoranze interne saranno dunque ancora più marcate e devastanti.
    Rispetto a quanto scritto a febbraio, quando tutte le previsioni assegnavano all’Unione una vittoria assai più consistente, può forse apparire eccessiva l’ipotesi della crisi del collante dell’antiberlusconismo. E’ probabile che, dati i risultati elettorali e data l’assenza di ogni identità degna di questo nome, il ricorso all’antiberlusconismo prosegua, come ultima trincea di un ceto politico marcio e servile.
    Una trincea, però, sempre meno credibile, visto che nella nuova legislatura dovranno comunque governare: con quali esiti è facile prevederlo.
    L’articolo si concludeva con un invito all’astensione. Altri, nella sinistra antagonista e comunista, hanno preferito invece l’appello al voto od il più opportunistico silenzio assoluto. Non è importante ora polemizzare su questo. Ma chi vorrà lavorare sul serio alla costruzione di un polo alternativo al regime di centrosinistradestra non potrà che partire dal rifiuto integrale dell’inganno bipolare che ha trovato nell’astensione la risposta più forte, chiara e coerente.


    Premessa
    La redazione di Eretica aveva deciso di affrontare il tema delle prospettive delle minoranze del Prc di fronte all’alleanza di governo con il centrosinistra già a gennaio, 20 giorni prima dello scoppio del “caso Ferrando”. Questo caso, benché scaturito in maniera del tutto accidentale con la pubblicazione da parte di “Libero” di alcuni stralci tratti dal libro “L’altra Rifondazione”, si è rivelato però straordinariamente emblematico, una di quelle occasioni in cui molte verità vengono a galla e molti nodi giungono al pettine.
    E’ giusto, perciò, partire da qui.

    Il “caso Ferrando”
    Cosa ha affermato in sostanza Ferrando? Primo, che lo Stato di Israele è una creatura storica assolutamente artificiale e che la teoria dei “due popoli, due Stati” si è rivelata completamente falsa; secondo che “la lotta armata contro l’occupazione militare (con riferimento all’Iraq) è giusta”.
    Come si vede siamo all’interno di normali concezioni anticolonialiste ed antimperialiste, così come siamo dentro ai principi del diritto internazionale, almeno di quello esistente prima che venisse di fatto cancellato dal diritto imperiale a stelle e strisce.
    Ma la normalità non è di questi tempi, e le ragionevoli affermazioni di Ferrando sono diventate la pietra dello scandalo su cui si sono avventate le bipartitiche belve del sistema. La vicenda che ne è seguita ci dice quali sono i tabù del “politicamente corretto” di sinistra, qual è lo spartiacque tra ciò che è consentito e ciò che è vietato nel regime bipolare.
    Il primo tabù è rappresentato da Israele. Chi si schiera contro il sionismo, che ha prodotto il colonialismo razzista dello stato israeliano, viene immediatamente crocifisso con l’accusa di antisemitismo. Il secondo tabù è quello americanista che per negare ogni resistenza popolare (a partire da quella irachena) etichetta le odierne lotte di liberazione come “terrorismo”.
    E’ per aver infranto questi tabù, non certo per essere comunista, trotzkista o rifondatore della Quarta Internazionale, che Marco Ferrando è stato messo immediatamente sotto processo. Un processo rapido, televisivo nella formulazione dei capi d’accusa, telefonico nel pronunciamento di una disgraziata ed inconsapevole (in termini storici, in termini politici consapevolissima) corte.
    I pubblici ministeri sono stati addirittura tre: il più poliziesco il ministro Fini che lo ha additato come “assassino” dato che “giustifica la resistenza irachena”; il più cialtrone Massimo D’Alema che ha usato l’argomento di altri tempi del “chi lo manda?”; il più odioso Fausto Bertinotti che non si è accontentato di decretarne l’incompatibilità con il partito (o perlomeno con la campagna elettorale, come precisato successivamente), ma ha voluto accusarlo nientemeno di “essersi messo fuori dalla civiltà politica”.
    Sono le stesse accuse che il “politically correct” di centrosinistradestra rivolge da sempre a chi, come noi, è schierato contro l’imperialismo americano ed esprime il suo sostegno alle lotte di liberazione, a partire da quella attualmente in corso in Iraq. Per quanto riguarda il Prc, la formula dell’incompatibilità con l’appartenenza al partito utilizzata inizialmente nei confronti di Ferrando è la stessa che Bertinotti e Migliore (responsabile esteri) usarono per condannare gli esponenti di Rifondazione che aderirono e parteciparono alla ormai famosa manifestazione nazionale a sostegno della Resistenza irachena del 13 dicembre 2003.
    Se l’accusa ha potuto giovarsi di un tridente bipartisan sostenuto dall’unanime plauso mediatico, la difesa è stata inconsistente: debole quella dell’imputato (con una serie di dietrofront parziali e di peraltro inutili concessioni al “politicamente corretto”), fragile quella della sua componente scissasi in precedenza sulla questione delle candidature, solo formale quella delle altre minoranze del Prc.
    Il processo si è dunque concluso con un innovativo voto telefonico, con il quale la maggioranza dei membri del Comitato politico nazionale (Cpn) ha deciso il depennamento dell’imputato dalla candidatura a senatore[1]. Il tempo intercorso tra l’attacco bipolare e l’annuncio della decisione del partito è stato pari a due giorni: una velocizzazione da TAV, pure in tempi di discussione sulla sua opportunità.
    Ovviamente se si trattasse soltanto di un banale posto a Palazzo Madama il tema non meriterebbe alcuna trattazione. Ma così non è. E’ probabile che i componenti del Cpn di Rifondazione Comunista che hanno seguito l’indicazione di Bertinotti, ben pochi dei quali volgono di norma uno sguardo al di là degli immediati interessi carrieristici di cordata, non si siano nemmeno resi conto dell’enormità politica, storica e culturale che hanno compiuto.
    Enormità politica, perché così facendo hanno consegnato ogni residuo della propria autonomia all’Unione. Enormità storica, perché hanno rinnegato con un fax, o con un clic sulla tastiera del computer, la parte più nobile ed attuale della storia dell’intero movimento comunista, quella del sostegno alle lotte di liberazione dei popoli. Enormità culturale, perché hanno sottoscritto in questo modo la loro internità ai dogmi e ai paradigmi di quel “pensiero unico” che a parole dicono di voler combattere.
    Forse queste enormità sono poca cosa viste dalla particolare ottica dei membri del ceto politico. Si rassicurino, c’è un’altra enormità che riguarda anche loro e di cui ben presto si accorgeranno, ed è che di enormità in enormità si vanno scavando la fossa, ma di questo parleremo più avanti.
    L’intera vicenda delle candidature evidenzia il vero spartiacque tra ciò che il regime può digerire e inglobare e ciò che è effettivamente incompatibile con il sistema e l’ideologia dominante. Sono facilmente digeriribili e tollerabili i fintoscandalosi Caruso e Luxuria, come elementi folcloristici insignificanti da immettere nel teatrino mediatico che deve far credere che esista davvero uno scontro tra i poli. Mentre non sono in alcun modo tollerabili le più semplici affermazioni, queste sì davvero “scandalose”, a favore delle resistenze irachena e palestinese perché qui si toccano i veri nodi, le vere centralità dell’oggi.
    Con le prese di posizione che questa vicenda ha suscitato, il regime ha sfoggiato il suo volto totalitario ed il Prc la sua adesione a questa (parole dell’amministratore delegato dell’azienda) “civiltà politica”.
    E con questo passaggio dobbiamo iscrivere definitivamente Fausto Bertinotti al partito trasversale americano, di cui è sempre più esponente organico ed accreditato. Il fatto è che questo ruolo non riguarda solo l’aspirante presidente della Camera, riguarda anche i suoi seguaci ed i suoi oppositori interni.
    Lo scopo di questo articolo è quello di occuparsi in particolare delle prospettive di questi ultimi.

    Chi scava e per che cosa?
    “Come vincere le elezioni? Rispettando il programma dell’Unione”. Chi lo ha detto? Gli ingenui saranno incerti tra Prodi e Parisi. Errore, l’autore del dogma programmatico unionista corrisponde al nome del segretario del Prc (Liberazione, 16 febbraio 2006). Sulle pagine dello stesso quotidiano leggiamo (Rina Gagliardi, 11 febbraio) che è “un programma eccellente: ricco, ambizioso, impegnativo”. Ed è lo stesso Bertinotti (Direzione del 10 febbraio) ad affermare che “sul programma si è andati al di là di ogni più ottimistica previsione”. Ora, il fatto è che – come era del resto assolutamente scontato – il programma prodiano è in realtà la traduzione unionista del ben più importante programma delle oligarchie finanziarie che prevede il consolidamento (anche in termini di consenso) e lo sviluppo della linea neoliberista e filoatlantica. A Prodi (e a Bertinotti) le oligarchie chiedono solo di essere più efficienti, meno pasticcioni, più attenti alla coesione sociale ed alla concertazione di quanto non sia stato il governo Berlusconi.
    Se sulle alleanze internazionali Bertinotti ha già dichiarato la sua “lealtà” agli Stati Uniti, sulla politica economica il punto forte del programma, e come tale sbandierato dal Prc, è addirittura la fiscalizzazione degli oneri sociali alle imprese, cioè un trasferimento diretto di ricchezza dallo Stato alle aziende.
    Dato che misure di questo tipo richiamano alla memoria l’assistenzialismo alle imprese tipico dei governi della vituperata prima repubblica, si è deciso di cambiargli il nome nella più immaginifica “riduzione del cuneo fiscale”. Questo è il massimo risultato ottenuto, che spinge gli uomini del segretario a prospettare inusitate redistribuzioni del reddito verso il basso, quando l’unica redistribuzione certa è quella che incasseranno lorsignori.
    Se dalle fantasie vogliamo invece passare alle cose concrete, vediamo cosa dice un personaggio di provata fede liberista: “Nel programma dell’Unione si trovano indicati, tra l’altro, interventi specifici di notevole rilievo in tema di assetto concorrenziale dei mercati e delle liberalizzazioni” (Mario Monti, Corriere della Sera 12 febbraio).
    Chiunque può immaginarsi da quale parte stia la verità.
    In ogni caso l’impronta liberista e filoatlantica si rafforza ogni giorno e sarà così fino al 9 aprile, figuriamoci dopo. Tutto questo è naturale come l’alternanza delle stagioni, inutile scandalizzarsene.
    Ma è proprio questo il punto: Bertinotti non ha torto a dire che non si poteva chiedere di meglio, ma il problema è domandarsi che fine farà il suo partito attestandosi su un’alleanza di governo che farà certamente di peggio. E il problema, arrivando alla questione della prospettiva delle minoranze interne, è quello di domandarsi quale senso avrà ancora nel prossimo futuro la loro collocazione interna al Prc.
    Se Bertinotti scava consapevolmente la fossa a Rifondazione per derivarne un nuovo soggetto, tipo “Partito della Sinistra Europea” o qualcosa del genere, le minoranze interne sembrano assistere allo scavo che le travolgerà senza alcuna prospettiva di autonomia politica e strategica. Se la maggioranza può pensare di “cambiare il proprio popolo”, considerate le praterie lasciate incustodite dalla corsa verso il Partito Democratico, le minoranze rischiano semplicemente di perdere la propria base a causa del loro conservatorismo di fondo che le rende nervose ma incapaci di uscire dalla gabbia bipolare.
    Il punto è che per resistere al bertinottismo non basta l’ideologia, occorre anche la politica e, soprattutto, la strategia.

    Le minoranze del Prc alla prova della verità
    Cinque anni di governo Berlusconi hanno consentito alle minoranze del Prc di vivacchiare. Naturalmente, se guardassimo soltanto alle dinamiche interne al partito, dovremmo registrare una forte crescita complessiva dell’opposizione a Bertinotti, che al congresso dello scorso anno si è attestata attorno al 40%, articolandosi su ben 4 distinte mozioni. Se guardiamo invece all’incidenza politica generale di questo pur articolato 40% ci accorgiamo che essa è molto vicina allo zero.
    Come mai questo scarto? Per il semplice motivo che l’identità delle minoranze si connota prevalentemente su elementi di carattere ideologico sempre più deboli rispetto alle dinamiche della nostra epoca. I tre filoni principali sono quelli del togliattismo (area Ernesto), del trotzkismo radicale (Progetto Comunista) e del trotzkysmo moderato e movimentista (Sinistra critica). Se il vizio del primo è un continuismo destinato inevitabilmente a soccombere di fronte al discontinuismo bertinottiano, la radicalità del secondo è troppo legata ad un dogmatismo che ne limita irrimediabilmente prospettive e possibilità di interlocuzione e di crescita. In quanto al terzo, esso si presenta come una variante di sinistra del bertinottismo di cui condivide il movimentismo, tendendo a non assumerne fino in fondo le conseguenze politiche (alleanze di governo, eccetera).
    Si tratta di tre identità deboli, certo preferibili all’accozzaglia opportunista della corte bertinottiana, ma strutturalmente incapaci di prospettare un’alternativa strategica.
    I togliattiani pensano ancora ai tempi lunghi della storia, magari (alcuni di essi) puntando alla ricongiunzione con il Pdci sulla base di una presunta “identità comunista”. I trotzkysti radicali, divisisi per l’ennesima volta proprio sulla candidatura di Ferrando, sembrano voler rilanciare la battaglia interna anche dopo essere stati messi sostanzialmente alla porta. I “sinistri critici” non possono far altro che oscillare perennemente, com’è nella natura delle loro concezioni politiche.
    Tutte queste componenti arrivano dunque impreparate alla prova della verità.
    Alcuni elementi di debolezza sono stati messi in evidenza proprio dalle vicende delle ultime settimane.
    Le critiche a Bertinotti sono spesso dure, quanto insufficienti sul punto centrale, quello dell’assunzione del bipolarismo come cornice ineluttabile dell’agire politico. Quando si accetta la priorità del “battere le destre”, “cacciare Berlusconi”, eccetera, senza valutarne le immediate conseguenze in termini di autonomia politica e di prospettiva strategica, si finisce inevitabilmente per proporre linee politiche più deboli di quelle della maggioranza.
    Marco Ferrando, volendo smentire ogni ipotesi scissionista, ha affermato che bisogna invece battersi contro la scissione che si sta verificando tra l’attuale linea del partito e quelle che sono state le sue ragioni fondative. In apparenza un argomento ragionevole e sensato. In realtà un argomento retorico e privo di qualunque efficacia, come sarebbe stato puramente retorico e privo di qualunque efficacia opporsi al compromesso storico sulla base delle tesi del 1921.
    Quella “scissione”, frutto in realtà di un processo lungo e frastagliato, si è già prodotta da tempo e le tesi di maggioranza del congresso di Venezia, così come l’ingresso organico nell’Unione, sono soltanto l’approdo di questo percorso.
    Sarebbe dunque necessario prenderne atto, trarne le dovute conseguenze, indirizzare la propria iniziativa in mare aperto anziché dedicare il novanta per cento della propria attività a fare le pulci a Bertinotti.
    Ma vivacchiare è più facile, almeno nell’immediato. E’ così che sono nate le candidature delle minoranze. Di per se un principio sano e democratico, anche se le minoranze sono state anche qui “minorate” da una maggioranza bulimica (7 posti complessivi, di cui 6 all’Ernesto, dopo che la cacciata di Ferrando ha determinato l’esclusione dell’intera componente di Progetto Comunista). In sostanza poco più del 10% dei 60 seggi previsti.
    Ma il problema vero non è quello dei numeri, bensì quello della fedeltà richiesta sul voto di fiducia a Prodi. Nei fatti le minoranze accettando le candidature hanno accettato di stare al gioco, di condividere in qualche modo le responsabilità di governo. Certo, in cambio avranno un pò di visibilità e risorse economiche maggiori: ma se si profila l’abisso a cosa serviranno mai questi vantaggi?
    Non è per niente casuale che le minoranze siano incapaci di cogliere al balzo le stesse occasioni che gli si presentano. Il caso Ferrando sarebbe stata un’occasione straordinaria per inchiodare Bertinotti in una posizione assolutamente scomoda. Bastava dire: se escludete Ferrando rinunciamo anche noi alle nostre candidature dato che condividiamo la sostanza delle affermazioni che gli vengono contestate, se lui è incompatibile lo siamo anche noi. Se volete andare alle elezioni con il 40% del partito contro, accomodatevi, noi non ci pieghiamo. Niente di tutto questo. Sinistra Critica ed Ernesto si sono pronunciati contro l’esclusione, ma solo per questioni di metodo (“qualsiasi modifica delle liste deve passare dal Cpn”, “le minoranze devono essere rappresentate anche nei gruppi parlamentari”, eccetera). Un pò poco se davvero si vuol dare battaglia, un niente se si considera la gravità del diktat bertinottiano.
    E così, mentre la prova della verità si avvicina, le minoranze hanno dato cattiva prova di se.

    Il probabile governo dell’Unione e le sue conseguenze
    A meno di due mesi dalle elezioni lo scenario più probabile resta quello dell’affermazione del centrosinistra che porterà al governo l’Unione e la stessa Rifondazione Comunista.
    Sarà questa la prova della verità. Una prova decisiva, al termine della quale nulla sarà rimasto come prima.
    Per giungere ad alcune conclusioni, occorre allora affrontare quattro questioni, partendo dal generale per arrivare al particolare.

    Prima questione, il governo: cosa rappresenterà il probabile governo Prodi? Quale sarà la sua politica e quali conseguenze determinerà?
    Innanzitutto, cosa cambierà rispetto al quinquennio berlusconiano? Il governo che sta per lasciarci si è caratterizzato per quattro cose: una politica internazionale completamente allineata a Washington; una politica economica liberista quanto confusa e sconclusionata; una classe dirigente in genere penosa, a volte impresentabile; un leader che antepone spesso le proprie (personali) priorità a quelle più generali delle classi dominanti.
    Se partiamo da queste quattro caratteristiche, ci rendiamo subito conto di quali saranno le differenze del probabile governo Prodi.
    Sul primo punto (politica estera) il mutamento della forma corrisponderà ad un rafforzamento della sostanza. E’ esattamente questo che intendono dire Prodi, D’Alema e Bertinotti quando assumono un portamento apparentemente più dignitoso di fronte agli USA solo per potersi poi accreditare come alleati più seri. Alleati di un paese in guerra, che ne sta occupando altri, che sta preparando nuove aggressioni, che ha scatenato di fatto quella guerra di civiltà che tutti dicono di non volere.
    Sul secondo punto (politica economica) l’impianto dell’Unione è addirittura più organicamente liberista di quello del centrodestra, ed è questo un motivo di vanto dei suoi esponenti autoproclamatisi “riformisti”. Non dimentichiamoci (altro motivo di vanto) che le grandi liberalizzazioni, come le grandi privatizzazioni, nonché i grandi assalti allo stato sociale sono stati fatti tutti (ma proprio tutti) dai precedenti governi di centrosinistra e che Berlusconi ha soltanto continuato la loro opera devastatrice. Ecco perché – abbiamo già visto il parere di Monti – i grandi centri di potere (con le oligarchie finanziarie al primo posto) sono schierati con il centrosinistra.
    Sul terzo punto (la qualità della classe dirigente) il centrosinistra non brilla, ma non sarà difficile fare meglio dei berluscones. Attenzione, questa diversa “qualità” è relativa soprattutto alla capacità di creare consenso, cioè di turlupinare le classi popolari, attività nella quale potrà essere utile tanto il mortadellismo di Prodi, quanto il funambolismo di Bertinotti.
    Sul quarto punto c’è ovviamente differenza, ma non solo nel senso che non c’è un equivalente di Berlusconi nel centrosinistra, ma soprattutto in quello che le priorità generali delle oligarchie finanziarie diventeranno legge.
    Lo spazio non consente un ulteriore approfondimento di questo punto, ma il programma dell’Unione è pubblico, pubblici sono gli orientamenti di voto dei banchieri e di Montezemolo, come pubblici (e pubblicati ogni dì) sono i commenti della grande stampa nazionale.
    Ovvio che costoro “tirino” il programma prodiano in senso ancor più liberista, mentre Bertinotti deve far vedere di “tirarlo” dall’altra parte, ma l’orientamento di voto di lorsignori non appare proprio in discussione.
    E’ questo un particolare che non conta? A leggere Rossana Rossanda sembrerebbe proprio di no.
    Ecco cosa ha sentenziato sul Manifesto: “Io mi sono letta quel malloppo (il programma dell’Unione ndr) senza delusione alcuna. Non mi ero affatto aspettata di più, come poteva essere? La coalizione si è data e si è formata su un obiettivo primario: battere la Casa delle Libertà. E non è poco, è una condizione della democrazia. Soltanto con Berlusconi fuori di scena si potrà ricominciare a parlare di politica”.
    Su un punto ha perfettamente ragione, che non era possibile aspettarsi qualcosa di diverso, come nulla di diverso potevamo aspettarci da chi come Rossanda, nel 1995, di fronte al governo Dini, dichiarò la necessità di “baciare il rospo”.
    Di bacio in bacio, di rospo in rospo, la sinistra (e non solo quella moderata) ha scritto la propria fine come fattore di speranza di cambiamento.
    E’ questo il punto da cui partire, che troverà una plateale quanto annunciata e prevedibilissima conferma nel futuro governo Prodi.
    Le conseguenze di questo quadro sono facilmente immaginabili, basta che pensiamo alla morta gora del quinquennio 1996-2001, aggravato però da una condizione di pesante crisi sociale ancor prima che economica e, soprattutto, dal contesto determinato dalla “guerra infinita” scatenata da Bush.
    Se l’antiberlusconismo non è soltanto tifo da stadio, ma anche speranza di un cambiamento, esso rimarrà tremendamente deluso. Forse non vi saranno sfracelli, ma un lento, inesorabile, profondo distacco dal ceto politico della sinistra questo certamente sì. Rifondazione Comunista non ne sarà immune, anzi per certi aspetti potrà esserne la prima vittima.

    Seconda questione: il Prc. Quale ruolo riuscirà veramente a svolgere questo partito?
    La maggioranza bertinottiana su questo ha tracciato da tempo una linea molto precisa. Non sarà un ruolo secondario, non sarà un ruolo di semplice contenimento. Il Prc punta ad essere una componente di primo piano della futura compagine governativa. Lo ha ricordato Prodi: non siamo più all’accordo elettorale (la cosiddetta “desistenza”) del 1996, siamo all’accordo di governo vero e proprio.
    Questo non cancellerà di certo differenze e tensioni, anzi per certi versi le esaspererà, ma dentro una cornice ben definita. Sbaglieremmo perciò a valutare gli attuali approdi del Prc come espressione di pura subalternità, magari dettata dalla necessità di “sconfiggere le destre”. Così non è, nel senso che è ancora peggio: l’attuale deriva non è vissuta dalla maggioranza del partito come “necessità”, bensì addirittura come “possibilità”.
    Leggiamo, ad esempio, la dichiarazione di voto a favore della sottoscrizione del programma dell’Unione fatta, nella Direzione del 10 febbraio, da Giovanni Russo Spena a nome della maggioranza. In essa si scomoda Raniero Panzieri per indicare i due paradigmi su cui giudicare un programma: la tendenza che esprime e la sua dimensione sociale. Fatta questa premessa, l’ex segretario di Dp arriva rapidamente al giudizio ravvisando nel programma di Prodi “Una impronta, una tendenza progressiva nella direzione di un riformismo radicale”. E ancora, pescando qua e là: “non vi è dubbio che vi siano obiettivi molto positivi dalle politiche internazionali, alle politiche della cooperazione, alle politiche delle migrazioni”. “In termini di politica economica il percorso di redistribuzione della ricchezza è tracciato con sufficiente precisione”. Resosi forse conto di essersi spinto un pò troppo avanti, ecco l’autoassoluzione preventiva nel caso (prudentemente non escluso) le cose andassero male: “Non penso che esso (il programma, ndr) costituisca le Tavole della Legge; penso che l’approdo del prossimo quinquennio sarà determinato dalla creatività e dal sapere collettivo dei conflitti sociali, di comunità, di territorio; dalla capacità di prendere le mosse dal programma per spostare continuamente la mediazione in avanti”.
    Questo non è opportunismo, è furfanteria allo stato puro: le masse sono avvisate, se il governo Prodi farà le porcherie che certamente farà la colpa sarà soltanto della loro scarsa creatività, amen.
    Insomma, Rifondazione gioca con l’attesa messianica della cacciata di Berlusconi (è interessante a questo proposito una breve visita al sito della campagna elettorale dove si possono leggere i giorni, le ore, i minuti e i secondi che ci separano dal 9 aprile), ma nemmeno più di tanto, preferendo un approccio da alleato serio e composto, che tira a “sinistra” la giacca del conducente senza mettere mai in discussione la rotta che sta seguendo.
    Del resto cosa chiedono a Rifondazione le classi dominanti? Gli chiedono esattamente di presidiare il fianco sinistro della coalizione. Un presidio che in qualche caso esigerà la presa di distanza dal resto della coalizione, in altri casi un’azione di pompieraggio nei confronti delle lotte affinché non escano dal controllo bipolare.
    Il 9 febbraio Sergio Romano, che ha un grande senso della realtà, ha tessuto le lodi di Bertinotti in un editoriale del Corriere della Sera, in un luogo, cioè, da sempre deputato ad impartire gli orientamenti di fondo della classe dominante. La tesi di Romano è molto semplice: Bertinotti è l’uomo giusto per portare i voti degli “antagonisti” nel carrozzone unionista; senza quei voti Prodi non vince; è assurdo perciò criticare Bertinotti per la sua “ambiguità”. Questa ambiguità è necessaria, e senza di essa Prodi resterebbe a Bologna. Ben detto e in poche parole.

    Terza questione: il ruolo di Bertinotti nell’americanizzazione della politica italiana
    Questa questione è cruciale. Quanto conti Bertinotti in Rifondazione Comunista, un partito in cui si è iscritto come segretario, è cosa nota. L’attuale Rifondazione senza il suo segretario non sembrerebbe neppure possibile, tant’è che la ricerca del sostituto va avanti senza sosta ma anche senza soluzioni credibili da un bel pò di tempo.
    Ma a Bertinotti Rifondazione sta stretta. E’ così che si dedica da anni alla piena trasformazione (alla fine anche nominalistica) del partito, e pure in questa scadenza elettorale ha trovato il modo di modificare ulteriormente il simbolo, che ha visto ingrossarsi la parola “Rifondazione” al cospetto di uno striminzito “Partito Comunista”. E’ così che lavora alla propria ascesa alla presidenza della Camera, un ruolo assai singolare per un uomo che si vorrebbe di frontiera, che fino a ieri veniva descritto come estremista, massimalista ed inaffidabile.
    Dunque se il Prc è in larga misura il suo segretario, Bertinotti vuole andare oltre il suo partito. Ecco perché dobbiamo occuparcene come di un elemento a se stante.
    L’obiettivo della presidenza della Camera è in apparenza talmente assurdo, per un segretario di un partito che si vuole ancora comunista nel momento in cui si appresta ad andare al governo con quella che viene concepita come una “coalizione democratica”, da far pensare unicamente ad una logica personalistica, narcisistica ed egocentrica.
    Sono tutti elementi che notoriamente non difettano al nostro aspirante, ma francamente dobbiamo pensare anche ad una logica politica. Una logica che è impossibile rintracciare se continuiamo a pensare in termini “classici”, un pò come fanno le minoranze interne. Una logica che appare invece plausibile se osserviamo il ruolo di “Grande Traghettatore” che Bertinotti si è assunto in questi anni. Il suo non è un semplice traghettare dall’opposizione al governo, dalle frasi altisonanti dei comizi alla logica ragionieristica dei conti pubblici. Questo tragitto non avrebbe niente di nuovo e di sorprendente. Altri, ben più importanti dell’ex sindacalista della Cgil, l’hanno percorso con i ben noti risultati.
    No, il traghetto di Bertinotti è destinato ad andare oltre, ad americanizzare dopo la cosiddetta “sinistra moderata”, anche quella cosiddetta “alternativa”. Così si spiega il caso Ferrando, l’ossessione della nonviolenza intesa come disarmo degli oppressi, la spirale “guerra-terrorismo” per mettere sullo stesso piano l’imperialismo aggressore ed i popoli che gli resistono, la giustificazione di Hiroshima e l’opportunismo sulle foibe.
    E’ poco?
    Certo, l’americanismo di sinistra è laico e non religioso come quello dei teocons, è liberal nel campo dei diritti individuali che diventano l’ultima frontiera identitaria di una sinistra senza più principi, è liberista anche sulle droghe piuttosto che proibizionista, annienta paesi come la Jugoslavia ma in nome di nobili ideali umanitari. E’ questa del resto la carta d’identità dei radicali, di Pannella e Bonino, non a caso accolti nell’Unione con il plauso entusiasta di Bertinotti.
    Se comprendiamo che Fausto Bertinotti è ormai un esponente di punta, incaricato di coprire la fascia sinistra, del partito trasversale americanista-sionista, l’unico partito veramente abilitato a governare in questi tempi bui, molte cose si spiegano, compresa la possibile (perché certa non è) presidenza della Camera. Ricoprendo quella carica, non solo legherebbe ancor di più le sorti del suo partito a quelle del governo, ma potrebbe esercitare, nell’inedita veste istituzionale, quel ruolo di rompighiaccio dell’americanismo di “sinistra” di cui il totalitarismo imperiale ha bisogno per potersi presentare come democratico e pluralista.

    Quarta questione: le minoranze del Prc. Come reagiranno le minoranze al nuovo contesto in cui ben presto si troveranno giocoforza immerse? In altre parole: ci sarà qualcuno che troverà la forza di uscire dal pantano?
    Vedremo. Siccome lo sconquasso si preannuncia alquanto serio niente può essere escluso.
    Una cosa appare estremamente probabile: nessuno gli toglierà le castagne dal fuoco e vivacchiare non sarà più possibile. L’ideale per i vivacchiatori sarebbe che dopo un periodo di tira e molla nella maggioranza governativa, tra “sinistra” e “destra” della coalizione, si verificasse lo scaricamento del Prc da parte del resto dell’Unione con contestuale imbarco di una parte del centrodestra (essenzialmente l’Udc). Questa sarebbe un’autentica manna per i galleggiatori: i fatti avrebbero dimostrato l’incompatibilità del Prc con il programma dell’Unione, Bertinotti sarebbe stato sconfitto, la destra rimarrebbe all’opposizione. Così, salvatisi l’anima verso se stessi e verso un “popolo di sinistra” unito solo dall’antiberlusconismo, avanti per qualche anno con l’opposizione, naturalmente nella prospettiva di una nuova coalizione autenticamente di sinistra, eccetera, eccetera.
    Molto probabilmente non andrà così. Non solo per le ragioni addotte da Sergio Romano, non solo perché Prodi sa perfettamente di non poter governare senza una copertura a sinistra, non solo perché così salterebbe di fatto il bipolarismo. Ma anche per una ragione banalmente aritmetica: i voti del Prc sono decisivi, i suoi seggi saranno presumibilmente di più di quelli dell’Udc. Infine, anche supponendo una Udc disposta a traghettare armi e bagagli al gran completo (ipotesi poco probabile), cosa farebbero a quel punto il Pdci e gli stessi Verdi? Non siamo più nel 1998, e a nessuno può sfuggire che il profilo politico assunto dal Prc è nel complesso assai più compatibile di quello del Pdci. Perciò la manna probabilmente non arriverà e se vi saranno sconvolgimenti al momento del tutto imprevedibili, essi arriveranno comunque dopo un lungo periodo di logoramento nel quale il Prc (inclusi i suoi parlamentari della minoranza) dovrà sostenere il governo, le sue misure antipopolari e le sue scelte atlantiste di politica estera.
    Se vivacchiare sarà dunque veramente difficile, sono pronte le minoranze ad un salto di qualità? Guardando alle attuali posizioni la risposta non può che essere negativa.
    Esaminiamo, ad esempio, le motivazioni con le quali hanno espresso il loro voto contrario all’accordo sul programma dell’Unione.
    In esse è contenuta, in ognuna delle tre posizioni espresse, una proposta politica alternativa a quella della maggioranza. Andiamo a vedere di cosa si tratta, cominciando da “Sinistra critica” (Cannavò, Turigliatto). Al punto 6 della dichiarazione di voto si legge: “Rifondazione comunista dovrebbe perseguire la strada di un accordo elettorale per battere le destre, ottenere un impegno preciso all’abrogazione delle leggi Berlusconi per consentire la nascita del governo e restare fuori dal futuro, e ancora solo probabile, esecutivo di centrosinistra”.
    Dunque accordo elettorale ed appoggio esterno. Ed è questa anche la posizione espressa da Grassi (area Ernesto), che rifacendosi all’analogia con la discussione tra i comunisti indiani, e pur apprezzando i risultati raggiunti a livello programmatico, afferma che “questo livello di intesa non mi pare sufficiente per giustificare un nostro ingresso nel governo”. Quindi anche per il leader della più importante minoranza “sarebbe stata preferibile” la scelta dell’appoggio esterno.
    Come si può vedere siamo ancora ai sottili distinguo, all’equilibrismo di chi non vuol dire sì, ma non può pronunciare un no. Da questo punto di vista ben più forte è la posizione di Bertinotti che traccia una politica e ne trae le logiche conseguenze.
    Più netta e precisa è la posizione di Ferrando che parte perlomeno da un giudizio chiaro: “Non siamo dunque di fronte ad un programma «inadeguato» per l’alternativa, come si ostinano a definirlo Ernesto ed Erre (Sinistra Critica, ndr). Siamo di fronte al programma delle classi dirigenti del paese”. Questa buona partenza non deve però illudere sulle conclusioni politiche. L’alternativa proposta da Ferrando è “Rompere col centro dell’Unione e battersi per l’unità delle sinistre (quali?ndr) e dei movimenti attorno a un programma indipendente e a un polo di lotta indipendente”.
    Insomma, se Ernesto ed Erre formulano una proposta debole, Progetto Comunista (o quel che ne è rimasto dopo la sua divisione in due tronconi) ne enuncia una assolutamente fantasiosa.
    In tutti e tre i casi non si parte mai dall’analisi concreta della situazione concreta – il bipolarismo con le sue stringenti logiche, da prendere o lasciare – ma si preferisce arrampicarsi sugli specchi. In realtà, negli anni passati, questa arrampicata Rifondazione Comunista l’ha praticata spesso ed il suo massimo specialista era proprio quel Fausto Bertinotti che alla fine ha scelto cosa fare da grande. Ad un’identica scelta sono oggi chiamate le minoranze interne.

    Per chi non si rassegna al presente
    I fatti si incaricheranno, come sempre, di confermare o smentire le analisi fin qui svolte e le previsioni abbozzate sugli scenari della prossima legislatura.
    Una cosa è certa: un’ondata maleodorante sta soffocando da anni la società italiana. Essa non viene soltanto dalle odiose politiche del centrodestra, viene più in generale dalla trasformazione della politica in pura amministrazione, in gestione degli affari (in senso stretto e in senso lato) dei gruppi di potere dominanti. Il tutto sotto il controllo dei centri finanziari internazionali e del centro imperiale statunitense.
    Il centrosinistra è parte di questo processo non meno del centrodestra. Partecipare a questo gioco equivale ad avallarlo.
    Chi non vuole rassegnarsi al presente non può confidare sulle manovre di corto respiro, sui sottili distinguo, sulle astuzie del politicantismo. Il bipolarismo va respinto in toto, non basta essere contro a parole, bisogna esserne fuori nei fatti.
    Rifondazione Comunista non è più un partito di frontiera, incerto tra l’opportunismo ed il massimalismo. Ormai il “massimalismo” è stato fuso nell’opportunismo per dar luogo ad una integrazione senza ritorno. Con le scelte di questo ultimo anno in particolare il Prc è ormai parte integrante, e non più conflittuale, di questo regime. Dunque non può essere – oggi con tutta evidenza – un luogo di organizzazione della resistenza al liberismo ed all’imperialismo.
    Se chi è in minoranza nel Prc non prende atto di questi evidenti dati di fatto, traendone tutte le conseguenze, finirà per condannarsi all’impotenza, all’insterilimento della propria battaglia, in breve all’inutilità politica.
    Con la sua presenza al governo il Prc si scaverà la fossa. In parte i becchini stanno proprio nel gruppo dirigente del partito, ormai proiettato verso nuovi lidi, non sappiamo quanto radiosi. In parte saranno i fatti – ben oltre quanto messo in conto da Bertinotti e soci – a disintegrare la vecchia base di consenso del partito. Su questo meritato esito possiamo essere fiduciosi. Cercheranno allora un “altro popolo” per non veder crollare il loro fatturato elettorale e per potersi salvare come ceto politico. Chi non potrà invece salvarsi saranno proprio le minoranze se sceglieranno di rimanere tali, componenti interne di un partito interno al sistema bipolare.
    Il governo Prodi sarà disastroso, non solo a causa delle sue priorità programmatiche e dei suoi indirizzi di classe. Sarà disastroso anche per il venir meno del collante antiberlusconiano, unico vero argomento di cinque anni di “opposizione”. A Berlusconi questa sinistra dovrà fare prima o poi un bel monumento, ma sfortunatamente per Prodi, Fassino, Rutelli e Bertinotti l’uomo nero di Arcore non potrà essere eterno ed allora le colpe della sfascio generale ricadranno anche su di loro. Su un ceto politico che ha potuto attraversare una legislatura senza partorire un’idea che non fosse quella delle oligarchie dominanti, solo grazie al raffronto con le nefandezze del Paperone d’Italia.
    Ben presto tutto questo finirà e forse allora potranno nascere risposte più avanzate.
    Vedremo chi sarà capace di darle.

    E allora il 9 aprile...
    E già il 9 aprile andrà data una prima risposta, e l’unica che possa far male al marciume di centrosinistradestra sarà l’astensione, l’unico modo attualmente disponibile per dare un segnale di ripulsa e di resistenza.
    Occorre fare in modo che non tutti cadano in trappola, che si cominci a manifestare il rifiuto di questa politica che è la negazione della democrazia, che ci propone una falsa alternativa per occultare la crisi di una società che non solo non offre più alcuna prospettiva di una vita migliore, ma che garantisce ai più un domani assai peggiore.
    Vogliono che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Non possiamo stare a questo gioco.
    Rifiutare oggi l’inganno bipolare, con l’astensione, è dunque il modo migliore per cominciare a lavorare alla costruzione di un vero polo alternativo, fuori e contro l’attuale regime.
    E’ una via difficile, un percorso controcorrente. Ma è l’unico che può incontrare il comune sentire di chi avverte, oggi spesso ancora confusamente, l’esigenza di ribellarsi all’oppressione attuale.
    E’ l’unico che merita di essere percorso da chi non intende adeguarsi allo schifo presente e futuro.

    [1] Sulla legittimità di questa “sentenza” si è pronunciato successivamente il Collegio di Garanzia del partito che ha riconosciuto che: “la consultazione (telefonica e telematica ndr) avvenuta dei membri del Cpn non è assolutamente espressione della volontà dell’organismo”. Ma (c’è sempre un ma!): “In caso di comprovata urgenza e rischio di danno irreparabile per il partito, gli organi esecutivi possono compiere atti, come quello di eventuali designazioni, riservati agli organismi dirigenti che li hanno nominati, salvo l’obbligo di riferire del loro operato agli stessi organismi dirigenti alla prima occasione utile”.
    Traduzione: il voto telefonico dei membri del Cpn non è valido, ma in ogni caso la decisione della segreteria resta visto “il rischio di danno irreparabile al partito”. In quanto alla “prima occasione utile”, essa sarà ovviamente dopo il 9 aprile!

  2. #2
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    Ma.....io un tempo ero iscritto a Rifondazione e posso dire che sono 10 anni che sento parlare del ruolo del PRC nell'Ulivo e delle minoranze del PRC, ecc.
    La mia meditata opinione è che Rifondazione trova il suo posto naturale in alleanza con i DS e la Margherita, mentre le minoranza del PRC stanno bene dove stanno e possono concertare qualche briciola e non usciranno mai. Sono anche loro al loro posto naturale, lasciamole stare e non chiediamoglio nulla.
    Non a caso le scissioni importanti si Rifondazione sono state a destra a causa dell'attrazione dei DS (e dei posti di governo o sottogoverno); a sinistra se ne sono andati sempre solo degli isolati......l'ultimo, Ferrando, solo perché lo hanno espulso, altrimenti starebba ancora cercando di spostare a sinistra l'asse del partito, per spostare a sinistra quello della coalizione, del governo ecc. Un po' come sollevare una montagna con un crick.....

 

 

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