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    Lightbulb I partiti Indipendentisti Sardi : uno studio

    I PARTITI INDIPENDENTISTI IN SARDEGNA: PARTITI ANTISISTEMA?

    di Carlo Pala (
    palcaroru@tiscali.it)
    Dottorando di Ricerca in Scienza della Politica
    Università degli Studi di Firenze
    Dipartimento di Scienza Politica


    XX Convegno Annuale SISP, Bologna 12-14 settembre 2006
    Sezione: fuori sezione
    Panel: Partiti contro: i partiti antisistema in prospettiva comparata

    Proponenti: Dott.ssa Giorgia Bulli e Dott. Filippo Tronconi
    Sessione III
    Chair: Dott. Vittorio Mete
    Discussant: Prof. Mario Caciagli




    Introduzione

    Il variegato mondo dei partiti etnoregionalisti non sembra ancora aver beneficiato, nella letteratura politologica, del successo scientifico avuto dall’analisi rokkaniana del cleavage centro-periferia, di cui questi partiti sono diretta emanazione (Lipset e Rokkan, 1967). Nonostante la dimensione territoriale della politica stia assumendo un’importanza crescente negli ultimi decenni, gli studi sui principali attori di tale dimensione in scienza politica continuano a essere limitati. I partiti etnoregionalisti, protagonisti della politicizzazione dei conflitti territoriali nelle moderne democrazie occidentali europee (e sempre più anche nelle recenti democrazie dell’Est europeo), ricevono un’attenzione tutto sommato marginale nell’ambito del mare magnum sulle famiglie di partito e sui partiti in generale. Le riforme istituzionali in senso regionalista e federalista in vari Paesi europei hanno come promotori, spesso non riconosciuti, proprio i partiti etnoregionalisti, al di là dell’esiguità dei voti conquistati dalla maggioranza di essi. La stessa ricomparsa di ciò che Caciagli chiama fait régional, in modo particolare all’interno di una prospettiva europea e delle sue conseguenze in riferimento alla riorganizzazione stessa del ruolo delle Regioni in ambito comunitario, è spiegabile in parte grazie al ruolo avuto da questo tipo di partiti nei tre stadi nazionale, regionale e sovranazionale (Caciagli 2006). Ancora, il ruolo di primo piano assunto da alcuni di questi partiti addirittura a livello centrale di governo, con un buon potenziale di influenza rispetto alle policies poste in essere dai vari esecutivi in questione, dovrebbe convincere maggiormente rispetto all’utilità di studi più approfonditi.
    Un errore che si commette di frequente, anche a livello scientifico e non solo politico tout court, è quello di considerare la famiglia di partiti etnoregionalisti, nel senso di von Beyme (1987) e Ware (1996), come una classificazione unitaria. Al contrario, questa famiglia "spirituale" di partiti ha un’ulteriore classificazione interna che permette di attribuire una "etichetta" più precisa ai partiti considerabili etnoregionalisti.
    Questo lavoro si concentra più specificamente a un tipo di partiti considerati all’interno di tale classificazione: i partiti indipendentisti (o separatisti). Le pochissime volte che la letteratura si è occupata specificamente di partiti indipendentisti, sono sempre da mettere in relazione o al comportamento politico di questi (a volte legati ad organizzazioni violente e armate) o, appunto, come sottocategoria di partiti etnoregionalisti, tra i quali vengono generalmente ricordati. Quindi non ci sono, in modo particolare in chiave comparata, studi che ne analizzino la struttura partitica, il bagaglio ideologico dei militanti e dirigenti, la loro organizzazione come le scelte strategiche che pongono in essere per sopravvivere all’interno del proprio sistema politico. Certamente le cause principali di questa mancanza sono da attribuirsi al bassissimo numero di voti e consensi ricevuti dalla maggior parte dei partititi indipendentisti in Europa, che non stimolano particolarmente l’attenzione degli scienziati politici.
    Ciò che generalmente si fa d’istinto, quando si parla di questi partiti, è di considerarli subito come partiti sovversivi, con una ideologia pericolosa per il Paese cui fanno riferimento e ricorrenti, almeno potenzialmente, a pratiche non democratiche per realizzare i propri obiettivi. Li si considera, dunque, pur non conoscendoli ancora a fondo, come partiti antisistema.
    Questo lavoro vuole contribuire a rilevare alcune dimensioni di analisi per definire un partito indipendentista come antisistema e poi applicare e declinare le dimensioni trovate a un caso concreto di studio. Tali dimensioni, come cercheremo di chiarire in seguito, possono essere inoltre utilizzate anche per gli altri tipi di partiti di famiglia "etnica". In Italia, pur non mancando grandi partiti etnoregionalisti storici, i partiti dichiaratamente indipendentisti sono davvero molto pochi. Se è vero che i maggiori partiti etnoregionalisti italiani sono stati attraversati più volte e per lungo tempo da sentimenti separatisti (o di irredentismo vero e proprio, come la SVP) e se diversi sono i motivi, sia di carattere "interno" ai partiti stessi che di carattere esterno, di "ambiente" politico nei quali si trovavano ad operare, ad oggi non sono certamente definibili come indipendentisti. L’unica regione dove possiamo rintracciare partiti indipendentisti di un certo "peso" è la Sardegna. Il nostro case study diventa quindi l’isola e i partiti indipendentisti che vi operano.
    Il prossimo paragrafo cercherà di individuare le dimensioni che si ritengono utili per definire un partito indipendentista, come antisistema. Ricorrendo agli studi e alle definizioni in letteratura sul concetto di partiti antisistema e di antisistemicità del partito, vedremo che differenziazione sarebbe utile inserire per i partiti indipendentisti, rispetto ai caratteri utilizzati in generale in relazione a questo tema.
    Il terzo paragrafo propone una prima applicazione delle tre dimensioni ai partiti indipendentisti in Sardegna, tenendo in considerazione sia le specificità dei partiti in sé sia le (deboli) relazioni col sistema partitico di riferimento degli stessi. Per fare questo, è necessario sottolineare la differenza, inevitabile, tra sistema partitico nazionale e sistema partitico regionale nei quali le organizzazioni separatiste sarde operano.
    Infine, il quarto paragrafo sarà dedicato alle conclusioni del nostro lavoro, in cui si cercherà di analizzare i risultati ottenuti e la rispondenza delle dimensioni di introdotte in precedenza.


    I partiti indipendentisti "geneticamente" come antisistema?

    Quando Sartori è intervenuto con i suoi studi, nell’ambito della definizione empirica dei sistemi di partito, e nella conseguente determinazione dei partiti antisistema, si ritrovava con poche analisi empiriche, che restavano incomplete e che non davano un’immagine di esaustività. Se Eckstein (1968) e Riggs (1968), oltre a essere stati tra i primi ad intervenire sul tema, negavano l’assoluta preminenza dei partiti all’interno dei sistemi di partito, introducendo anche altri elementi del sistema politico che dovevano essere considerati (come i sistemi elettorali, il parlamento e l’esecutivo) e Duverger (1961) interveniva con forza sull’importanza che i sistemi elettorali avevano nel definire le caratteristiche esteriori (partitiche) dei sistemi di partito, classificandoli quasi esclusivamente sulla base del loro numero, Sartori ha cercato di classificare i sistemi di partito e il loro funzionamento in maniera più organica. Ovviamente il numero dei partiti da considerare era un elemento importante anche per quest’ultimo; il quale, a differenza di Duverger, con il «conteggio intelligente» e il concetto di potenziale di coalizione e di ricatto dei vari partiti, ha iniziato a comprendere il ruolo strategico dei partiti all’interno del sistema. Il rischio che il politologo italiano vedeva nei precedenti studi, era quello di un’eccessiva preponderanza, o degli aspetti interni del sistema di partito (cioè dei partiti come singole organizzazioni) a discapito dell’ambiente nei quali erano inseriti, o, al contrario, di una sopravvalutazione delle altre componenti del sistema politico (dai sistemi elettorali al funzionamento reale delle istituzioni di governo e rappresentanza) sul ruolo specifico giocato dai partiti nel sistema stesso (Sartori, 1970 e 1976). Ma pur cercando di riequilibrare i punti di vista divergenti in questione, per Sartori occorreva introdurre un’altra variabile, prima disattesa, che invece influenzerebbe i sistemi di partito: l’ideologia dei partiti. Infatti, assieme al numero dei partiti da prendere in considerazione, un altro elemento fondamentale per delineare le caratteristiche del sistema di partito è il livello di polarizzazione ideologica, ovverosia la collocazione ideologica degli elettori lungo un asse immaginario destra-sinistra politica. Attraverso tali criteri, Sartori costruisce poi la sua famosa tipologia dei sistemi partitici che ancora oggi è conosciuta e, talvolta, ancora criticata.
    Se questa tipologia, sostanzialmente di carattere politologico, è legata al tentativo di spiegare automaticamente (proprio da un punto di vista "meccanico" e automatico) cosa accade all’interno di un sistema partitico, come agiscano i suoi attori principali che sono i partiti e come i sistemi elettorali influiscano (o non influiscano) direttamente nel suo funzionamento, nonostante lo stesso studioso si sia sforzato di ragionare sull’origine dei sistemi di partito, occorre però prendere in considerazione un’altra importantissima teoria che cerca di studiare come i sistemi di partito (e poi i partiti, non in così netta successione) si siano originati. L’altra teoria-tipologia, certamente non meno famosa della precedente, è stata elaborata da Lipset e Rokkan (1967, cit.).
    Pur non disdegnando un approccio che faceva diversi riferimenti alla scienza politica, Lipset e Rokkan utilizzarono concetti più storico-sociologici per spiegare l’origine dei sistemi di partito. Il loro punto di partenza è dato dall’analisi dei processi di modernizzazione socio-economica e di democratizzazione politica e istituzionale in Europa, più o meno a partire dai tentativi di costruzione degli Stati nazionali. Gli autori individuarono così quattro tipi di fratture (cleavages, appunto) sulle quali si sarebbero incanalati i conflitti che hanno scosso i sistemi politici occidentali e la cui "trasformazione" in partiti politici non fu assolutamente un passaggio né immediato e né semplice. Dalla celebre analisi, si ricordano le fratture tra Stato e Chiesa, tra Città e Campagna, tra Capitale e Lavoro e, infine, tra Centro e Periferia. Non ritenendo utile soffermarsi sulla spiegazione di tutte le fratture, prenderemo a riferimento solo l’ultima, che è quella che maggiormente utilizzeremo e di cui principalmente ci serviremo in questo lavoro. Questa frattura, originatasi nel momento di formazione degli Stati nazionali e del successivo processo di accentramento territoriale, si riferisce in particolare ai conflitti tra un centro politico, culturale (elemento molto importante) ed economico versus un’area periferica, che veniva poco alla volta incorporata al centro politico e che generalmente (ma non sempre) non possedeva le risorse di cui disponeva il centro. Quando il conflitto tra centro e periferia si politicizzava, i territori di quest’ultima si organizzarono in movimenti di protesta e di lotta verso il centro, con la comparsa, per la prima volta nei sistemi politici europei, di partiti etnoregionalisti il cui principale compito era quello di diventare imprenditori etnici delle istanze della regione periferica verso il centro (Tursan, 1998). La lingua, a parte diverse forzature "storiche" sulla sua importanza reale in questo tipo di conflitti (Anderson, 1996), divenne l’elemento più importante e facilitante per la costruzione di una lingua identitaria nazionale, contrapposta alla nuova lingua del centro. Per ciò che a noi qui riguarda (i partiti e i sistemi di partito), Lipset e Rokkan sottolineano come, prima della frattura Capitale-Lavoro che sarà poi fondamentale per l’imprinting di buona parte dei sistemi sia politici che partitici europei, le altre tre fratture summenzionate fossero già abbastanza consolidate. In particolare quella centro-periferia, è stata una tra le più "immediate", nel senso che è stata tra le prime a creare partiti politici direttamente conseguenti della frattura stessa. Addirittura gli autori affermano che i contrasti decisivi nei, e tra i, vari sistemi di partito, erano emersi prima dell’ingresso e costituzione dei partiti operai; non solo, ma il loro carattere e specificità fu influenzato dai movimenti e dalle organizzazioni partitiche, con le loro ideologie, che trovarono in quell’arena. Compresi i primissimi partiti etnoregionalisti sorti in Europa.
    Quantomeno per ciò che attiene in generale il concetto moderno di partiti etnoregionalisti, senza le suddivisioni interne di cui si è accennato sopra, ciò che è stato detto finora sembrerebbe confliggere il titolo stesso di questo paragrafo. I partiti etnici, anti-centro e a base regionale, per una buona parte degli stessi, si sono trovati subito all’interno dei sistemi partitici originari.
    I due brevi excursus su classici della letteratura politologica, hanno un interesse particolare per lo studio che si vuole effettuare in questa sede. È dall’analisi di Sartori sui sistemi di partito che traiamo una definizione di partiti antisistema da cui partire ed è da quella di Lipset e Rokkan sui contrasti tra centro e periferia politici, che capiamo l’origine dei partiti di matrice indipendentista. Per il primo, la nozione di partito antisistema andava legata alla presenza di un sistema di partiti a cosiddetto pluralismo polarizzato, in cui il centro politico del sistema fosse già occupato quasi sempre da un grande partito di centro e alle ali estreme dello schieramento partitico vi erano dei partiti con tendenze centrifughe e non "alleabili" reciprocamente. I partiti antisistema, con queste caratteristiche, sono stati definiti dallo stesso autore come partiti che potenzialmente non avrebbero tanto cambiato il governo di turno in questione, bensì l’intero sistema politico e di governo nel quale erano inseriti. I partiti antisistema, all’opposizione del governo quasi per definizione, non sarebbero mai stati in grado di condividere i valori politici e le credenze presenti in generale nel sistema politico. Il loro carattere e il loro conseguente comportamento politico diventava una opposizione di principio. Il fattore più importante che queste forze politiche ponevano sul campo era un certo impatto delegittimante il regime medesimo. E lo strumento con il quale far apparire chiaro tutto ciò, era l’ideologia e il bagaglio ideologico che veniva "trasferito" ai militanti di questi partiti (Sartori 1976, cit.). Le conseguenze sul sistema divenivano subito chiare. Partiti che generalmente erano collocati alle ali estreme non tendevano ad avvicinarsi, né ideologicamente né politicamente, agli altri partiti dello spazio politico rappresentato dall’asse destra-sinistra. Inoltre, questa distanza spaziale e ideologica provocava delle ripercussioni sullo stesso sistema di alleanze di governo. Essendo all’interno di un sistema partitico con un numero di partiti considerevole, la competizione diventava centrifuga, i partiti antisistema irresponsabili e non disposti al compromesso politico; le coalizioni che si formavano per il governo, quindi, avvenivano con l’auto-esclusione degli stessi partiti in questione più che con l’esclusione "scientifica" e strategica. I partiti antisistema erano, in definitiva, organizzazioni che rappresentavano un’ideologia assolutamente differente e non assimilabile a quella degli altri partiti del sistema politico ed erano quindi caratterizzati dal massimo possibile di distanza ideologica nell’immaginario asse in rappresentanza dello spazio politico. Pur non ritenendo utile soffermarci su questo aspetto in questa sede, occorre ricordare che Sartori, quando ha definito i partiti antisistema, aveva in mente il caso italiano, almeno fino a tutti gli anni sessanta. Le critiche che questa definizione ha ricevuto sono in parte ascrivibili al grande dibattito che è scaturito successivamente allo studio dello scienziato politico italiano, soprattutto in riferimento al ruolo dei grandi partiti antisistema cui si riferiva Sartori. Critiche che però, non essendosi rivolte tanto alla definizione di partiti antisistema quanto all’applicazione pratica (pensando al caso italiano) di tale definizione, non hanno intaccato il significato di partito antisistema, tanto che per riferirsi a questi partiti ancora oggi ci si deve rifare quasi obbligatoriamente al politologo citato. Recentemente, un articolo di Capoccia (2002) ha rivalutato il concetto di partito antisistema alla luce di due specifici campi di attribuzione, all’interno dei quali studiare lo stesso concetto. I partiti antisistema vanno analizzati, per Capoccia, sia, naturalmente, nell’ambito dei sistemi di partito, sia in quello, non meno importante, dei regimi democratici. Posto che l’elemento ideologico resta fondamentale, l’autore sottolinea come, in riferimento ai sistemi di partito, un partito antisistema è tale se ha una certa differenza ideologica verso gli altri del sistema; ma siccome occorre valutare anche il regime, è necessario prendere in considerazione non solo la distanza ideologica verso gli altri partiti, ma il carattere ideologico proprio inerente il partito verso il sistema.
    Diviene necessario, andando oltre Sartori, arricchire il significato di partito antisistema andando a vedere più nello specifico in che grado lo sia, sulla base delle caratteristiche salienti delle relazioni col sistema politico circostante. Occorre quindi introdurre un nuovo concetto che riesce a misurare se e quanto un partito sia antisistema: Capoccia lo chiama antisistemicità del partito.
    L’antisistemicità di un partito andrebbe vista sia in ambito relazionale che in ambito ideologico (Capoccia, cit., pag. 11). Dal punto di vista relazionale il partito antisistema viene valutato in base alla relazione dell’ideologia del partito con i valori fondamentali del regime in cui opera. Spesso questi partiti sono isolati dagli altri proprio per il tipo di valori che vorrebbero rappresentare, in relazione con gli altri partiti e con il sistema nel suo complesso. Prendendo a riferimento il reale funzionamento di un sistema partitico e la presenza di partiti definibili antisistema al suo interno, si producono tre tipi di conseguenze per il sistema stesso: la multipolarità (la presenza cioè, di un centro che lotta, e spesso governa, contro la estrema destra e l’estrema sinistra nella quale si collocano i partiti antisistema), lo stiramento (o disgiunzione) dello spazio politico (ovverosia, il processo che colloca i partiti antisistema in opposizione radicale verso gli altri) e, infine, la competizione centrifuga (che è legata all’aspetto specifico di propaganda di questi partiti). Tutto ciò provoca un accrescimento della distanza dello spazio elettorale, un basso potenziale di coalizione e messaggi delegittimanti da un punto di vista del messaggio politico inoltrato nel sistema. L’alta distanza e differenza ideologica del singolo partito rispetto agli altri si traduce quindi in termini "spaziali".
    In rapporto con l’antisistemicità ideologica, che diviene assolutamente necessaria per comprendere il grado di pericolosità di un partito antisistema per la democrazia stessa, si guarda in particolare ai referenti ideologici e ai fini di un partito antisistema; questi devono essere compatibili con il regime democratico medesimo. Non basta quindi avere un’ideologia molto distante dai partiti rimanenti nello spazio politico, ma occorre comprendere quanto fondamentalmente questa ideologia accetti il sistema democratico come tipo ideale e reale di regime (Capoccia, cit., pag. 24).
    Dalla combinazione di questi due indicatori, l’autore ricava una tabella a doppia entrata, nella quale la presenza o l’assenza dei due tipi di antisistemicità costituiscono una tipologia dei partiti antisistema. Se la presenza di ambedue gli indicatori descritti sopra, stabiliscono i tipici partiti antisistema e l’assenza degli stessi, al contrario, i tipici partiti pro-sistema, i casi di presenza di un tipo di antisistemicità e l’assenza dell’altro creano qualche problema classificatorio. La situazione più complessa è data dalla presenza di antisistemicità ideologica e assenza di quella relazionale; da questo tipo, l’autore indica i partiti antisistema irrilevanti e quelli accomodanti. I partiti in questione sono effettivamente insignificanti per il sistema politico circostante, non hanno un’azione di polarizzazione del sistema ma sono antisistema solo ideologicamente, agendo più nei confronti dell’elettorato che nei confronti del sistema. Gli accomodanti vengono distinti dagli irrilevanti per le dimensioni degli stessi: i primi talvolta assumono dimensioni di una certa portata pur non influenzando il sistema partitico di riferimento. Con la presenza di antisistemicità relazionale e assenza di quella ideologica, abbiamo i partiti antisistema polarizzanti. Questi ultimi sono invece caratterizzati da un’alta instabilità elettorale e da una non-coalizzabilità e "infedeltà" nei confronti di qualsivoglia coalizione potenziale o reale di un determinato Paese; attuano quindi un’azione di "disturbo" politico nei confronti del sistema, avendo i numeri elettorali a proprio vantaggio per riuscirci.
    Questa nuova tipologia, che verrà utilizzata più avanti per l’oggetto del nostro lavoro, si propone come miglioramento della "semplice" distanza ideologica sartoriana. Nell’analisi di Capoccia, infatti, si pongono le basi anzitutto per analizzare i partiti antisistema non solo per un regime democratico, ma per tutti i tipi di regimi. Se poi la classificazione di Sartori era leggermente "dinamica" (cioè, accennava solamente al grado di rapporti possibili con gli altri partiti, soffermandosi maggiormente sul carattere proprio ideologico dei partiti antisistema), quella di Capoccia colma questo vuoto e pone sotto una duplice lente di ingrandimento le organizzazioni antisistema, misurandone e chiarendone anche la qualità stessa di antisistemicità.
    Tornando ai partiti indipendentisti, si è detto in precedenza che vengono considerati antisistema senza però realmente conoscerli a fondo. Ciò che sicuramente appare indubbio, è il fatto che tali partiti siano espressione del conflitto centro-periferia che si è ricordato sopra. Distinguendosi dagli altri tipi di partiti etnoregionalisti, quelli separatisti certamente si differenziano per il grado di radicalità maggiore delle loro rivendicazioni rispetto alle altre forze politiche. Anche da un punto di vista meramente ideologico, appare subito chiaro che questi partiti abbiano un’ideologia e un bagaglio di valori totalmente "altri" e alieni rispetto alle altre organizzazioni del sistema. Pure se all’interno di un determinato sistema politico dovessero eventualmente operare altri partiti antisistema che non sono etichettabili, però, come indipendentisti. Il fatto di essere, per loro natura, concentrati su un territorio o su un’insieme di regioni, li rende differenti e particolari rispetto agli altri. Lungi dal voler cadere nella banalità, ricordare questi aspetti giova per il fine che ci prefiggiamo in questo lavoro.
    Difatti, se vogliamo cercare di capire se e quanto i partiti indipendentisti possano essere ascritti alla famiglia partitica "trasversale" (ideologicamente parlando, s’intende) degli antisistema, non possiamo utilizzare solo le definizioni e le categorie esistenti ad oggi in letteratura. Dobbiamo ricorrere a delle dimensioni di analisi che ci consentano di poter valutare empiricamente se i partiti indipendentisti possano, da un punto di vista analitico e scientifico, rientrare in questa categoria. Prima di procedere, è utile ricordare cosa lo stesso Sartori affermava nei suoi lavori degli anni ’70 sui sistemi di partito e sui partiti antisistema. Probabilmente è un aspetto che ancora oggi non viene preso nella giusta considerazione, non viene quasi ricordato, in quanto è chiaro il riferimento (o i riferimenti) empirico concreto della sua analisi in generale. Sartori, però, dice chiaramente che di partiti antisistema si può parlare non solo in presenza di quelli comunisti e fascisti (i soggetti ai quali decisamente si riferiva), ma anche di altre "entità" che possano rientrare nelle sue definizioni. Probabilmente Sartori non si riferiva ai partiti indipendentisti, quando parlava di altre entità, ma certo è che i suoi studi, in questo punto, sono abbastanza aperti a considerare partiti con altre caratteristiche rispetto a quelle da lui descritte.

    E qui arriviamo a un punto assolutamente centrale e fondamentale per lo studio che vogliamo portare avanti. La totalità degli studi, compresi quelli che abbiamo richiamato in questa sede, sui partiti antisistema e sui sistemi di partito non discutono neppure sul fatto che di sistemi e di partiti antisistema si parla in relazione a un ambito di politics. E questo ambito di politics si riferisce praticamente sempre allo Stato-Nazione (o all’insieme degli Stati-Nazione) e allo spettro politico determinato dal sistema di partiti che esiste all’interno dello stesso. Tutta l’analisi si svolge su un piano relativo al potere, alle Istituzioni principali, ai regimi politici, ai partiti politici, ai sistemi elettorali e l’elenco potrebbe continuare. È il comportamento e la vita dei soggetti politici principali in questo spazio, più o meno circoscritto, della politica che interessa la stragrande maggioranza degli studiosi nel momento in cui si parla di sistemi e partiti antisistema. Sicuramente l’aspetto centrale della politica risiede in questo spazio e non si può assolutamente prescindere dallo stesso per comprendere il funzionamento reale dei sistemi politici contemporanei. Se parliamo di partiti antisistema, lo facciamo oramai automaticamente in relazione al loro spazio di politics. E se di partiti antisistema parliamo, e della loro antisistemicità, li consideriamo, naturalmente e di conseguenza, come anti-politics.
    Per quanto fondamentale essa sia, però, la dimensione della politics non esaurisce i molteplici significati della politica e soprattutto non diventa esaustiva per la comprensione dei fenomeni che accadono nella stessa. La lotta politica può essere fatta anche in una prospettiva nella quale la politics è solo un mezzo per definire altri aspetti della politica. I partiti indipendentisti si devono inserire in quest’ottica, in mancanza della quale non si comprenderebbe appieno il loro agire, la loro ideologia e la loro strategia, oltre che aspetti inerenti l’organizzazione interna di questi partiti. In breve, per i partiti etnoregionalisti in generale, ma per quelli indipendentisti in particolare e ancora di più, la dimensione della politics, per quanto irrinunciabile, non è la sola o perlomeno la più importante. L’aspetto centrale nel quale studiare e analizzare questa tipologia di partiti rimanda al concetto di polity. Come si ricordava all’inizio, l’importanza del territorio è fondamentale per questi partiti. Prima che (o più che) il tipo di regime o il funzionamento istituzionale, per questi partiti è il riassetto territoriale che diviene di importanza "vitale". E l’importanza che viene data all’idea di "territorio", "regione", "nazione", "lingua", "cultura", "etnia", e così via, è direttamente proporzionale al grado di rivendicazioni espresse da questa famiglia di partiti all’interno dei quali quelli di matrice indipendentista o separatista assumono una radicalità massima.
    Ecco perché, se vogliamo capire quanto i partiti indipendentisti possano essere considerati antisistema, non possiamo solo rivolgerci al carattere di politics (con cui comunque devono fare i conti), ma considerare, soprattutto, il carattere di polity. Non è detto che i partiti in questione siano per un tipo di politics diversa; molto spesso appare che i partiti indipendentisti, in relazione ai loro propositi ideologici, non siano antidemocratici o contrari del tutto al tipo di organizzazione istituzionale dello Stato che intenderebbero "abbandonare". Certamente, però, vogliono, prima di tutto, mutare il sistema di polity piuttosto che quello di politics. La polity è il loro obiettivo principale e ultimo, per il quale, molto spesso, sacrificano la loro libertà legale e istituzionale. Se non si riconoscono nel sistema di polity nel quale sono inseriti, per poter essere definiti antisistema, è chiaro che dobbiamo presupporre che siano anti-polity. Se Sartori diceva che i partiti antisistema avrebbero cambiato, se avessero potuto, non tanto il governo ma il sistema di governo, comunque all’interno della stessa polity, ai partiti antisistema di matrice indipendentista, aggiungiamo, non interessa né cambiare il governo né il sistema di governo; interessa cambiare radicalmente l’assetto territoriale nel quale si sentono costretti a vivere ed operare. Ogni altro, eventuale, cambiamento di politics sarebbe un processo da realizzare ad uno stadio successivo.
    Se i partiti indipendentisti sono anti-polity, dobbiamo comprendere se questo implichi che siano anche antisistema. Per fare questo, occorrono delle dimensioni precise di analisi, nelle quali declinare i comportamenti dei partiti indipendentisti, e valutare se in effetti, in rispondenza a tali dimensioni che cercheremo di delineare, si possano definire antisistema.
    Ciò che è importante in questo momento è capire che non possiamo "trattare" i partiti indipendentisti come gli altri partiti antisistema, in quanto, come si è visto, rispondono principalmente a una diversa "faccia" della politica: quella della polity, appunto. Per cui, non trovando in letteratura degli spunti di analisi in tal senso, che prendano i partiti indipendentisti trattandoli sotto una lente di ingrandimento diversa rispetto a quella della politics, proveremo, nel prossimo sottoparagrafo, a individuare una serie di dimensioni di analisi che ci possano aiutare a studiare come i partiti indipendentisti (e in parte, quelli etnoregionalisti genericamente intesi) si debbano intendere antisistema. E naturalmente l’ambito principale cui faremo riferimento non sarà più la politics, per la quale si è visto come gli studi più che autorevoli non manchino, ma la polity. Questo ci servirà anche per comprendere se i partiti indipendentisti siano "geneticamente" antisistema, visto e considerato che tenteremo di osservarli nel loro "ambiente naturale".


    2.1 L’antisistemicità dei partiti indipendentisti: le principali dimensioni di analisi

    Pur non mancando in letteratura diversi studi sui partiti indipendentisti (in modo particolare sui baschi e sui corsi, ma non solo), sono del tutto assenti quelli che cercano di capire come integrarli all’interno degli antisistema.
    Per la verità, nella trattazione di questi partiti, diversi autori fanno immediato riferimento all’idea di partiti antisistema, ma danno per scontato tale aspetto, non indagandolo più a fondo. Uno studio recentissimo, che analizza le modalità di formazione di coalizioni a livello municipale in Belgio, prova ad addentrarsi in questo problema (Geys, Heyndels e Vermeir, in corso di pubblicazione). Questo lavoro, pur basato sull’ex Vlaams Blok (VB), il partito indipendentista fiammingo belga, delinea il comportamento di una forza indipendentista al momento della formazione delle coalizioni di governo. Anche se lo studio è concentrato fondamentalmente a livello municipale, non mancano continui riferimenti al livello centrale, dove VB è considerato senza mezzi termini, partito antisistema. Pur tenendo in grande importanza il fatto che VB sia in effetti un partito, sì indipendentista, ma fondamentalmente populista di estrema destra e xenofobo, è proprio sul suo carattere separatista che gli autori incentrano la loro attenzione. La loro conclusione è che, in presenza di un grande partito indipendentista e antisistema, se il sistema è "costretto" ad accettarlo e a integrarlo nello stesso, occorre spesso formare delle coalizioni minime vincenti, per arginare la minaccia al regime democratico. Ma questo è necessario avvenga anche, e soprattutto, nella regione principale di riferimento del partito in questione; solo così si può formare quello che gli autori chiamano cordone sanitario attorno al partito. In pratica, una sorta di conventio ad excludendum di principio, che tutti i partiti (sia anche quelli etnoregionalisti con tendenze separatiste, come la Volksunie) della sfera democratica pongono in essere verso VB, "accerchiandolo" politicamente e riducendone così il pur indiscutibile peso elettorale. Quella che si pone, in effetti, per gli autori del lavoro è una sorta di esclusione ideologica, che impedisce di fatto al partito indipendentista di potersi coalizzare ad ogni livello e di non arrecare così nessun pericolo per il sistema politico-democratico belga. Il cordone sanitario posto a protezione del sistema politico e partitico circostante, identifica VB come un partito antisistema. Ma lo studio insiste più su caratteristiche e conseguenze che il partito "subisce" dagli altri che su azioni poste in essere dallo stesso. Questo significa che vengono fornite delle motivazioni per l’esclusione di un partito dalle possibili coalizioni di governo locali, sicuramente importanti per capire come reagisce il sistema in questione di fronte ad un grande partito indipendentista. Ma viene definito antisistema come risultante, ovverosia come l’esito di un processo di cui il partito appare solo come un protagonista passivo. Pur molto importante, l’analisi non si sofferma su caratteristiche intrinseche del partito che lo inquadrino come antisistema. Tale diventa più per il comportamento politico degli altri partiti del sistema che per il proprio comportamento.
    Un altro lavoro recentemente ha cercato di capire cosa accadesse in quei sistemi di partito nei quali operassero grossi partiti etnici (Reilly, 2003). Pur tenendo in considerazione il fatto che il paper in questione non si sofferma su una distinzione tra le tipologie di partiti etnici, ciò che viene osservato è che il funzionamento di un partito etnico sia più visibile tanto più grande si presenta il sistema partitico nel quale opera e tanti più partiti a base etnica agiscano in quel sistema. Reilly sottolinea come questi partiti possano diventare pericolosi per il proprio regime (a prescindere dalla democraticità o meno di questo), nel momento in cui fossero costretti ad "indurire" le proprie richieste e rivendicazioni. Di conseguenza i partiti etnici antisistema tenderebbero a raggrupparsi intorno a quelle che l’autore chiama fedeltà etniche, ovverosia i momenti e gli spazi di mobilitazione dell’elettorato attorno a specifici temi inerenti l’etnia e la territorialità rappresentate da questi partiti. Queste fedeltà diventano abbastanza difficili da superare per riportare i partiti verso un’orbita sistemica, per cui l’autore evidenzia tutta una serie di azioni che il sistema politico può compiere per riuscirci: dall’allargamento dei confini del sistema partitico, ad inclusione piena di questi partiti, all’utilizzo di un sistema il più proporzionale possibile fino ad un decentramento dello Stato di un certo grado. L’insieme di queste azioni è definito centripetalismo dei partiti etnici, stante ad indicare il raggiungimento della piena "sistemicità" di questi ultimi. Per cui, dare incentivi di tipo etnico, trovando e realizzando un supporto etnico trasversale tra tutti i partiti, diminuendo il grado di retorica e di rivendicazione dei partiti etnici; creare una vera e propria arena di contrattazione, ove i politici di tutte le parti politiche possano negoziare la permanenza di questi partiti nel sistema; infine, sviluppare partiti di centro, "etnicamente" aggregativi, in grado di appellarsi all’elettorato con un’ampia gamma di policies. Si ha quindi un’integrazione dei partiti etnici di tipo, come lo chiama lo stesso autore, top-down, quindi dall’alto e non dal basso come invece ci si attenderebbe in questi casi.
    L’approccio usato quì è più di "ingegneria politica" che di inquadramento teorico, ma diviene utile perché esplica come i partiti etnici "resistano" al sistema che li circonda e provino a respingerne le sollecitazioni, costituendosi in blocchi ideologici. In realtà, almeno per ciò che attiene i partiti di tipo indipendentista, le fedeltà etniche molto spesso non vengono condivise con gli altri partiti etnoregionalisti eventualmente presenti. E neppure con altri partiti indipendentisti del sistema. Divengono antisistema anche con coloro i quali dovrebbero avere più vicinanza ideologica e di strategia politica; questo viene ben descritto in un recente studio sui partiti indipendentisti dell’Irlanda del Nord, nel quale si mostra che la polarizzazione del sistema partitico assieme alla eccessiva frammentazione delle forze regionaliste, non conducono verso l’apertura e l’integrazione da parte del sistema per le forze indipendentiste (come lo Sinn Fèin), che restano più antisistema quanto più polarizzano la loro posizione ideologica (Morisi, 2006).
    L’aspetto ideologico sembra essere un punto caratterizzante tutte le analisi riguardanti i partiti indipendentisti, relative alla antisistemicità di questi. Per di più, è sempre in risposta alle sollecitazioni o ai comportamenti dei vari sistemi partitici e/o politici di riferimento, che si collocano i partiti come antisistema. Non vi è a tutt’oggi in letteratura un controllo empirico fatto sulla base di un inquadramento teorico che permetta di valutare scientificamente l’antisistemicità (o, al contrario, la pro-sistemicità) dei partiti indipendentisti. Dopo aver sollevato il problema della polity, occorre sistematizzarlo all’interno di un contesto organico di riferimento con l’utilizzo di dimensioni che possano servire allo scopo nella maniera più oggettiva possibile.
    In questo studio proponiamo l’utilizzo di tre dimensioni di analisi che ci paiono particolarmente utili per osservare le caratteristiche dei partiti indipendentisti e che possono essere utilmente declinate sia a casi di studio singoli sia in prospettiva comparata. Naturalmente non bisogna mai dimenticare che lo scopo di queste dimensioni di analisi è quello di valutare se i partiti indipendentisti possano definirsi antisistema. Le tre dimensioni proposte riguardano:

    In primis, il mutamento radicale della polity;
    la non-alleanza con gli altri partiti nazionali;
    l’azione politico-strategica non-convenzionale.

    È utile, prima di arrivare all’analisi empirica di caso che proponiamo nel prossimo paragrafo, spiegare specificamente ogni dimensione per comprendere meglio come debba essere adoperata e cosa si debba effettivamente analizzare per ciascuna di essa.
    Per ciò che attiene il mutamento radicale della polity, questa dovrebbe rappresentare l’elemento centrale di ogni analisi sull’antisistemicità dei partiti indipendentisti. Abbiamo visto precedentemente come questi partiti vengano considerati antisistema, pur senza conoscerli a fondo, solo dal punto di vista della loro ideologia. I partiti indipendentisti si differenziano da altri partiti della famiglia etnoregionalista per il grado di rivendicazioni politiche che esprimono; questo è generalmente più "alto" riguardo proprio alla relazione che deve esistere tra centro e periferia da loro sostenuta. A differenza degli altri partiti autonomisti o federalisti, quelli indipendentisti si rapportano al cleavage centro-periferia in maniera radicale. Non c’è spazio, all’interno del loro progetto politico, per concetti come federalismo o decentramento. Il carattere essenziale e peculiare di queste forze politiche consiste nella richiesta di una secessione totale della regione o del territorio che essi rappresentano, dal centro politico col quale sono in lotta. Il cambiamento totale della polity è il fine ultimo che anima questi partiti. Per considerare un partito indipendentista però, occorre che si valuti tutta la storia politica dello stesso. Nell’ambito dei partiti etnoregionalisti, infatti, non è infrequente rilevare come l’ideale separatista sia utilizzato "a intermittenza". Un leader più o meno carismatico, un congresso di partito vinto da una corrente interna più che da un’altra, particolari contingenze storico-sociali, convenienze di carattere strategico e pragmatico, possono portare un determinato partito regionalista verso posizioni più estreme e viceversa. È stato osservato come certe forze politiche, eventualmente al governo o nell’orbita dello stesso, perdano il loro tratto indipendentista che avevano al momento in cui si trovavano all’opposizione, per recuperarlo una volta finita l’esperienza di governo e ricollocatisi in minoranza (Tronconi, 2005). Più che un’ideale vero e proprio, il separatismo diviene un fattore di opportunità politica da sollevare all’elettorato in determinate occasioni. Noi proponiamo di non considerare partiti indipendentisti quelle forze che, per i motivi più diversi, non abbiano avuto una continuità nell’avanzare politiche separatiste. Naturalmente, così facendo si esclude una buona parte di partiti etnoregionalisti europei che si è caratterizzata dall’ideale indipendentista "a intermittenza". Non dovrebbero essere presi in considerazione neppure coloro i quali, una volta al governo, non abbiano più portato avanti il proprio ideale. Infatti, la partecipazione al governo di partiti indipendentisti non è preclusa per poterli considerare come antisistema; ma l’operato del partito all’interno della compagine governativa non deve perdere la propria coerenza ideologica. Sono quindi partiti identificabili come indipendentisti, quei partiti che, dal momento della loro fondazione e costituzione (o trasformazione da movimenti in partiti, perché scesi nell’agone elettorale), siano sempre stati promotori di un processo di separatismo, abbiano sempre proposto agli elettori tale fine politico ultimo e, soprattutto, abbiano sempre mostrato apertamente con quali mezzi (democratici o meno) raggiungere tale fine. Non è particolarmente importante sapere se il sistema di riferimento all’interno del quale operano tali partiti sia democratico. I partiti indipendentisti posti fuori legge all’interno di uno Stato (anche qui, democratico o meno), hanno inequivocabilmente uno status diverso da quelli che possono muoversi liberamente all’interno del sistema politico cui, nolenti, fanno parte in quanto sono già dichiarati antisistema a priori. Visto che in questo lavoro si propongono delle dimensioni che possano essere utilizzate per verificare se un partito indipendentista sia antisistema o no, è chiaro che tali casi "estremi" non interessano, se non per altri motivi. È quindi fondamentale che il partito venga "accettato" all’interno del proprio sistema. Il ruolo di anti-polity che il partito considerato svolge, è sicuramente (e conseguentemente) sintomo di una certa antisistemicità dello stesso. Nel momento in cui una forza politica propugna la separazione di una certa regione del Paese dal resto dello stesso, diviene intrinsecamente antisistema. Ciò che è di grande importanza, ma che non viene mai abbastanza sottolineato, è che antisistema lo diviene più per motivazioni legate alla polity che per motivazioni legate alla politics di un determinato sistema politico. Indipendentemente dalle dimensioni dei partiti presi in considerazione e dalla loro forza elettorale, queste organizzazioni sono considerate dai restanti partiti del sistema una minaccia solo nel momento in cui possano eventualmente attentare all’integrità del sistema politico. Ma tale integrità è riferita al cambiamento del tipo di regime con tutto ciò che ne consegue a livello istituzionale. Se questa minaccia non esiste (e nella maggior parte dei casi, è così), l’aspetto della polity non costituisce mai un elemento dirimente, perché semplicemente non in discussione. Ma il problema del territorio in politica non può essere subordinato sempre e comunque al regime che quel territorio governa. Può, e infatti costituisce, un problema in sé. Per quanto la minaccia per l’integrità del sistema sia lontana e remota, crediamo si possa considerare antisistema un partito che proponga un cambiamento della polity. Negare l’importanza del territorio in politica significherebbe negare lo stesso sistema di organizzazione territoriale che un determinato Paese adopera e affermare che questo sia un processo "meccanico" e non influenzato dalla politica. All’interno dell’idea di territorio, questi partiti non pongono solo una questione di carattere geografico e di confini fisicamente rintracciabili tra la loro "nazione" e quella "ospite". I richiami alla diversità di popolo, alla lingua, a una storia diversa che non di rado ha visto una determinata regione auto-governata o governata da altri, con un’economia che dipende (o fa dipendere) il centro dalla regione, sono fattori assolutamente inscindibili dal "mero" problema della territorialità. Nell’antisistemicità di un partito indipendentista non bisogna solo osservare e analizzare il grado di rivendicazione delle sue esclusive politiche, ma anche e soprattutto le caratteristiche di diversità che il partito richiama a sé rispetto al proprio centro. Questi aspetti vanno necessariamente inseriti nel concetto di polity, che solo in presenza di questi indicatori può dirsi pienamente sviluppato.
    Ma fermarsi alla pur indispensabile dimensione della polity non sarebbe sufficiente. In questo modo, si capirebbe certamente il grado di polarizzazione ideologica del partito, la sua ideologia intrinseca, gli elementi che utilizza per giustificare ai propri occhi e a quelli degli altri il motivo stesso della sua esistenza. Ma non si comprenderebbe appieno il suo comportamento politico. Per valutare se un partito indipendentista sia da considerare antisistema occorre valutare se abbia una relazione, appunto, col sistema di partiti circostante. Ciò che fondamentalmente dobbiamo comprendere, quindi, è se e come (oltre che quanto) il partito indipendentista si relazioni con gli altri. Sulla base di ciò che abbiamo detto a proposito della polity, relativamente all’importanza data da questi partiti a tutti i fattori e le componenti di diversità rispetto al "mondo" rappresentato dal centro, occorre verificare il quantum dell’accettazione, in termini, politici, di questo mondo "proposto" dal centro. Qui sta un punto molto importante, in quanto si possono dividere i partiti etnoregionalisti "moderati", come gli autonomisti o i federalisti, da quelli considerabili "estremi" come gli irredentisti o, appunto e ancor più, gli indipendentisti. Se infatti per i primi molto spesso esiste ed è facilmente empiricamente verificabile un certo grado di accettazione del sistema partitico circostante, pur senza rinunciare alla propria proposta politica, per gli indipendentisti il grado di accettazione è prossimo allo zero. A questo proposito, ci si riferisce qui alla possibilità di allearsi in occasione di elezioni locali o nazionali con altri partiti politici. Per considerare un partito indipendentista antisistema, proponiamo si debba valutare la sua non-alleanza con gli altri partiti presenti nel sistema partitico nazionale. In occasione delle elezioni, cioè, occorre valutare se il partito indipendentista stringe alleanze con altre forze politiche in vista di arrivare al governo con loro. Questi tipi di partiti non si alleano con alcuna altra forza politica presente nel territorio, rappresentante lo scenario politico nazionale. Se alcuni partiti etnoregionalisti entrano spesso in coalizione e ottengono posti di governo (più frequentemente a livello regionale che nazionale, ovviamente), quelli indipendentisti rifiutano l’alleanza con le forze che rappresentano effettivamente il centro che vogliono combattere. Questo accade anche quando esistano nel sistema partitico forze politiche che ideologicamente potrebbero essere prossime a questi partiti. Per i partiti che indicheremo per comodità centralisti, cioè espressione del sistema politico nazionale, a prescindere dalla loro ideologia, non si aprono le porte dell’alleanza con le forze indipendentiste presenti. Queste, infatti, rifiutando totalmente la polity di appartenenza, conseguentemente rifiutano anche l’espressione politica della stessa. Non c’è alcuna differenza tra sistema politico nazionale o regionale (anche se a livello locale talvolta è possibile): i partiti indipendentisti respingono a prescindere l’alleanza con queste forze, a maggior ragione a livello regionale dove sono più visibili all’elettorato e devono mantenersi coerenti con i loro proclami. I partiti indipendentisti possono essere in condizione di allearsi con quelli autonomisti o federalisti solo se questi a loro volta non sono alleati con altre forze di carattere centralista. Questa è una variabile che consideriamo di grande importanza nella valutazione di un partito antisistema di matrice indipendentista. Se per tutta la storia politica del partito non vi sono state alleanze con alcuna delle forze rappresentanti il centro, tranne con altre forze regionaliste (magari anche di altre regioni), il partito deve essere considerato antisistema.
    La terza dimensione che si è individuata, dopo gli obiettivi primari e ideologici del partito rappresentati dal mutamento della polity e quelli più "politici" e strategici relativi alla non-alleanza con alcuna altra forza espressione del centro, è relativa al comportamento politico esteriore del partito e alla sua partecipazione politica intrinseca. L’azione politica che contraddistingue questi partiti è generalmente di tipo non-convenzionale, per indicare come questo genere di partiti siano caratterizzati da forme di partecipazione alla vita politica differenti rispetto alle altre organizzazioni politiche. Ciò non deve indurre a pensare che la violenza sia il solo mezzo che queste forze hanno a disposizione per cercare di far valere le proprie ragioni. L’uso della violenza politica è ed è stato connaturato a molte formazioni di carattere indipendentista, in modo particolare con il supporto di movimenti e organizzazioni spesso armate e colluse in maniera più o meno blanda con i partiti che si presentano alle elezioni. Se il partito usa mezzi violenti come norma per l’azione politica si pone come antisistema di per sé. Ma, si diceva, non è necessario che si abbia l’uso della violenza per considerarli antisistema. Un’origine abbastanza comune di queste organizzazioni politiche è da ricercarsi nel mondo dei movimenti sociali di stampo etno-nazionalista (Melucci e Diani, 1992); è da questo tipo di organizzazioni che hanno preso poi alcune forme di azione di carattere non convenzionale, improprie per un partito politico definibile come tale. Infatti, forme le più disparate di protesta sono in uso in questi partiti per "movimentare" lo scenario politico circostante; da manifestazioni di piazza in cui si colpiscono simbolicamente le istituzioni emanate dal centro, ad azioni in cui i militanti "disobbediscono" non pagando le imposte "straniere"; dall’uso di un linguaggio (magari espresso con la lingua identitaria) "colorito" utilizzato anche all’interno delle istituzioni locali nelle quali siedano esponenti del partito, ad azioni di sabotaggio di imprese nazionali ree di sfruttare impunemente le risorse locali, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ciò che interessa a questo punto è verificare il grado di poca istituzionalizzazione di questi partiti, il doversi e volersi distinguere anche nelle modalità di rivendicazioni politiche. Il carattere di partiti-movimento induce a sfidare il sistema partitico e politico cui si appartiene con metodi non convenzionali che spesso colpiscono la gente (ergo, l’elettorato) per l’audacia con la quale sono realizzati ma che hanno come scopo principale quello di delegittimare il centro. Seppure come conseguenza, non immediata, delle altre due dimensioni, e in aggiunta alle stesse, questa rappresenta l’attacco frontale al sistema centrale più visibile agli occhi dei cittadini. La sensibilizzazione degli abitanti della regione e l’opera di "catechizzazione", fondamentale per costruire una opposizione di principio al sistema, si ricollega con l’aspetto della polity nel momento in cui si ideologizza il territorio e lo si "re-insegna" agli stessi abitanti e, nei limiti consentiti, lo si trasferisce a livello di politics quando si decide di rifiutare il coinvolgimento nel sistema partitico non alleandosi con alcuna forza centralista. Naturalmente i parametri e i valori di riferimento per misurare l’antisistemicità di un partito indipendentista variano in considerazione del caso esaminato in relazione a questa terza dimensione. Mentre le prime due sono più "statiche" e più omogeneamente distribuite, in questo caso si è in presenza di un aspetto molto più "dinamico" che può comportare difficoltà di interpretazione da caso a caso ma che riteniamo debba essere ugualmente utilizzato, assieme agli altri aspetti, per collocare un partito indipendentista come antisistema.
    Prima di passare al nostro case study, sarebbe utile fare un’ultima valutazione. Nel parlare di partiti indipendentisti come antisistema, naturalmente occorre avere un sistema di riferimento per considerarli (o non considerarli) tali. E di sistema si parla intendendo generalmente il sistema di partiti. Valutare l’antisistemicità di un partito significa verificare, lo abbiamo visto, il grado di distanza e di polarizzazione ideologica che lo separa dagli altri. Prendendo in considerazione la politics, abbiamo visto che i partiti antisistema classici (quelli a cui si pensa normalmente in letteratura e anche nella realtà politica) sono quelli che si pongono in contrapposizione al regime e alle regole che sovrintendono lo stesso, almeno nella definizione di Sartori; diventano quindi anti-politics non ponendosi minimamente il dubbio legato ai confini della comunità politica alla quale appartengono, perché già dati e "scontati". Per i partiti indipendentisti, invece, il rapporto è più complesso dal momento in cui si sostituisce come ordine di importanza, la polity alla politics. Queste forze diventano così, principalmente, anti-polity.
    Sulla base di questo punto, ci si può chiedere se davvero si abbia bisogno del sistema di partiti per considerare i partiti indipendentisti come antisistema oppure se, in considerazione dell’aspetto di polity, li si possa considerare antisistema da soli, in sé e per sé. Questo è possibile se dal concetto di sistema di partiti ci si sposta a quello di sistema politico. In questo caso, il concetto di sistema di partiti è inglobato in quello, più generale, di sistema politico. Quest’ultimo è riferibile all’insieme di istituzioni e di processi politici che, seppure avvenendo in maniera interdipendente, si possono considerare all’interno di determinati confini e riferibili quindi alla stessa polity, quand’anche li si voglia e li possa studiare in maniera comparata. Se vi sono forze politiche che non accettano la polity che si ritrovano, si collocherebbero antisistema a prescindere. Il grado di ricettività di un sistema partitico, piuttosto che un altro, determina tutto al più il grado di capacità di accoglimento delle rivendicazioni di parte delle popolazioni in vista di favorirne il più ampio coinvolgimento. Ma se il partito non determina problemi per l’ordine costituito (non rischia davvero di cambiare la polity esistente, nel caso degli indipendentisti), il sistema partitico di un regime democratico è in grado di "accoglierlo" ugualmente. In questo caso si potrebbe scoprire che un partito indipendentista è ininfluente per il sistema circostante, tanto che anche considerarlo antisistema parrebbe un puro esercizio accademico. Se al contrario lo si considera dal punto di vista del sistema politico, pur permanendo un’eventuale antisistemicità partitica, più o meno avvertita da tutte le forze presenti in campo, il partito indipendentista è davvero antisistema. In questa analisi nel momento in cui sono state trovate le tre dimensioni, si è cercato di considerare il sistema partitico come parte del sistema politico. Le principali conclusioni cui si è giunti finora dipendono dall’integrazione dei due aspetti. E la risposta affermativa alla domanda del titolo di questo secondo paragrafo, anche.
    Nel prossimo paragrafo, occupandoci del caso della Sardegna, cercheremo di tenere ferma questa precisazione che riteniamo utile nel momento in cui si parla di partiti indipendentisti.


    Partiti indipendentisti come antisistema: il caso della Sardegna

    La Sardegna è a tutt’oggi l’unico territorio in Italia ad avere partiti indipendentisti, seppure il loro peso elettorale e di iscritti resti abbastanza limitato. Altre regioni con partiti etnoregionalisti più forti di quello principalmente operante nell’isola (il Partito Sardo d’Azione, d’ora in poi PSdAZ) non sono rappresentate da partiti separatisti, né nel sistema partitico regionale né in quello nazionale. Nascono nuove formazioni autonomiste sia in Sicilia che in Friuli, ad esempio, ma nessuna di queste ha caratteri marcatamente indipendentisti. Nell’isola invece pare esserci stato, nell’ultimo decennio, un "rigurgito" indipendentista che ha attraversato la società sarda e ha interessato il sistema partitico regionale. Il caso della Sardegna, oltre che per l’esclusività di questo tipo di formazioni, è interessante particolarmente per il fatto che qui è nato uno dei primi partiti italiani e insieme uno dei primissimi partiti etnoregionalisti in Europa, il PSdAZ. Sarebbe oltremodo lungo soffermarci sulla storia dell’ideale del sardismo e sul suo aspetto di forte caratterizzazione, anche per le formazioni partitiche "italianiste" che facevano politica nell’isola. L’attenuarsi col tempo delle forti posizioni radicali del PSdAZ nel momento della sua nascita e la comparsa, a partire dalla fine degli anni sessanta e primi settanta, di movimenti etnonazionalisti sardi che cominciavano a chiedere a gran voce la considerazione dell’opzione separatista, è stato il primo terreno fertile per lo svilupparsi di movimenti, prima, e partiti, poi, di chiara matrice indipendentista. La spiegazione di una così lunga "attesa" dal momento della fondazione del PSdAZ (1921) agli anni sessanta, va ricercata, a parte il regime fascista, nel fatto che il Partito Sardo è sempre riuscito a far convivere le anime federaliste, autonomiste, indipendentiste e socialiste (per un breve periodo, queste ultime). E, contrariamente a quanto spesso sottaciuto dalla critica storica, quella indipendentista non è stata sempre marginale. Parte dei successi elettorali che il Partito Sardo ebbe dalla fine degli settanta ai primi ottanta, sarebbero da ascrivere anche alla militanza di esponenti indipendentisti che scelsero di militare nel PSdAZ.
    La comparsa di movimenti separatisti sardi rappresenta lo stimolo per la costituzione di partiti qualche decennio più tardi. Movimenti come Su populu sardu e il violento MAS (Movimento Armato Sardo), crearono quel terreno fertile, assieme ad altre formazioni ancor più piccole, per la "rinascita" dell’ideale indipendentista nell’isola. Nell’ambito di questo "clima" politico, si gettarono le basi per la formazione di partiti politici che furono costituiti principalmente da transfughi del PSdAZ, non più soddisfatti dalle posizioni sempre più morbide sull’opzione separatista, da esponenti di movimenti che si convinsero dell’importanza a partecipare alle elezioni, e da una classe di intellettuali isolani che, sulla stessa stregua di quanto avveniva in tutta Europa in quella fase chiamata revival etnico, erano convinti dell’assoluta preminenza della lingua e cultura sarda rispetto a quella italiana.
    Oggi ci sono due partiti indipendentisti in Sardegna, che diverranno oggetto della nostra analisi: Indipendentzia-Repùbrica de Sardigna (d’ora in poi, IRS) e Sardigna Natzione (SN, da adesso). Parliamo di partiti, in quanto sono ancora attivi movimenti etnonazionalisti che, pur non presentandosi alle elezioni, sono abbastanza diffusi nel territorio isolano; di questi, però, non ci si occuperà in questa sede.
    Sulla base delle tre dimensioni proposte precedentemente, occorre valutare se i partiti indipendentisti presenti e operanti in Sardegna possano essere definiti antisistema. Pur essendo i due partiti scelti differenti e a sé stanti, li analizzeremo assieme per ognuna delle dimensioni sottolineandone le differenze eventualmente presenti. Prima di questo occorre specificare un aspetto interessante per lo studio. IRS è un partito nato successivamente a SN, a seguito di quelle frizioni e divisioni abbastanza comuni in tutti i partiti indipendentisti europei (Müller-Rommel, 1994). Diversi transfughi di SN, reputando il partito "mezzo indipendentista", decidevano nel 2000 di formare una nuova formazione politica a seguito delle sollecitazioni del leader dissidente Gavino Sale. Questo, attuale leader di IRS, in perenne conflitto con Bustianu Cumpostu (leader di SN), decide che le posizioni politiche non potevano più essere coincidenti e che l’opzione indipendentista non era abbastanza visibile agli occhi dei sardi. Tutto ciò sta a dimostrare sia la matrice comune di militanza degli iscritti a questi partiti (elemento che ritroveremo anche a breve nell’analisi) sia la disgregazione molto spesso attorno a posizioni di tipo personale e personalistico che segnano molto spesso il destino di queste formazioni.
    Una dimensione comune ai due partiti è relativa al mutamento radicale della polity. IRS e SN si dichiarano formazioni indipendentiste. Come ulteriore elemento di riconoscimento nell’appartenenza a questa categoria di partiti etnoregionalisti, serva che entrambe fanno parte e sono riconosciute dall’associazione europea dei partiti indipendentisti dei "senza stato", dalla quale sono escluse tutte le altre forze regionaliste che non pongono l’opzione separatista come propria o prioritaria nella loro azione politica. Assieme a baschi, catalani, corsi, bretoni, irlandesi, galiziani e così via, i sardi sono rappresentati in questa assise dai due partiti suddetti. Ad ogni modo, non vi è dubbio del fatto che i due partiti in questione siano animati dalla stessa finalità e che questa sia rintracciabile da tutti i documenti di partito (in primis dai loro statuti), dai siti web, e dalle varie campagne elettorali che svolgono. A questo proposito occorre dire che la scelta indipendentista è ribadita dalle due forze politiche sia in occasione delle elezioni nazionali, naturalmente, sia in quelle regionali e locali, come vedremo meglio dopo. La polity, il cambiamento radicale della polity, è l’elemento predominante della loro strategia politica e della loro finalità: fare della Sardegna una repubblica indipendente dall’Italia. Il separatismo, oltre che essere in questo momento il fattore che li separa profondamente dal PSdAZ più autonomista (ed eventualmente, federalista), è l’unico fine che la Sardegna deve perseguire senza mezzi termini. La precisione con cui questi partiti ribadiscono la loro volontà nell’utilizzo del termine indipendentismo è escludente qualsiasi altra ipotesi. Deve apparire chiaro che il mutamento della polity è possibile e, per di più, auspicabile. Non ci soffermeremo sulle pur interessanti motivazioni storiche, sociali, politiche ed economiche che vengono utilizzate da queste forze per giustificare le proprie rivendicazioni; spesso non sono molto distanti da quelle che usa il PSdAZ nelle sue battaglie politiche. È importante sottolineare come, per queste formazioni, debba essere perseguito solo il separatismo della Sardegna da Roma per "ridare dignità al popolo sardo". Sia IRS che SN rifiutano l’idea che un maggiore autonomismo o federalismo, in un quadro di decentramento politico-amministrativo in Italia, possa essere la soluzione, per il semplice fatto che non si può paragonare la Sardegna al resto della penisola. Il decentramento federale, anzi, lungi dal trovare un positivo accoglimento, anche come primo passo per una futura indipendenza dell’isola, è visto da entrambe le due formazioni un mezzo per tenere la Sardegna "legata" ancora a Roma. Infatti, la scelta indipendentista è stata quella che ha sempre animato senza interruzioni questi partiti dal momento della loro nascita (SN nel 1993 e IRS nel 2000) e che permette di poterli considerare indipendentisti per le motivazioni di cui sopra si è detto. Ma la polity vista solamente come un problema "geografico" e di confini (per quanto questo, nel caso della Sardegna, sia particolarmente visibile e "aiuti" la propaganda delle due forze) non basta. Della polity che si vuole cambiare non c’è solamente un territorio, che è la base, ma anche il popolo che ci vive, che ne rappresenta l’essenza. I continui proclami all’autodeterminazione del popolo sardo, da parte soprattutto di IRS, dimostrano come la polity sia vissuta in maniera "totale". Non si tratta semplicemente di separare un territorio da uno Stato per la creazione di un altro a seguito di motivazioni solo storiche, solo economiche, solo culturali e quant’altro. Il separatismo è avanzato nella consapevolezza che il popolo di riferimento sia "diverso" da quello che assieme lo rappresenta. Ciò che non viene mai dimenticato, nell’azione politica di questi partiti, è mostrare la differenza che esiste tra il popolo italiano e quello sardo. Ecco che quindi la sola lingua sarda (e i conseguenti appelli perché la si difenda come propria lingua, a differenza dell’italiano) non basta più. Le strategie politiche di queste organizzazioni mirano incessantemente a mostrare che la Sardegna e i sardi sono diversi, declinando e giustificando tali affermazioni sulla base di tutta una serie di motivazioni "multi-causali" a carattere sociale, storico, culturale, economico. Con il massimo il 2% di voti conseguiti a livello regionale e lo 0,7-0,8 a livello nazionale, questi partiti non recano alcuna minaccia al sistema partitico. Sia che si consideri il sistema partitico nazionale che quello regionale o locale. Ma sulla base di ciò che dicevamo precedentemente, non si può considerare un partito indipendentista solo in relazione al sistema partitico di riferimento. Bisogna ricorrere al sistema politico, che integra anche i problemi legati al concetto di polity. Due forze indipendentiste come IRS e SN, pur modeste dal punto di vista elettorale, devono necessariamente essere considerate anti-polity, prima che anti-politics. Sono ambedue forze che si dichiarano per una repubblica, solo che non è e non deve essere quella italiana nei loro intendimenti. Per i motivi che sono stati esposti relativamente a questa dimensione, possiamo parzialmente concludere che i partiti indipendentisti sardi sono antisistema, dal momento che si parla di sistema politico.
    L’essere anti-polity conduce al comportamento dei due partiti indipendentisti sardi in relazione alla seconda dimensione di analisi. Anche gli indipendentisti sardi dell’IRS e di SN attuano strategie di non-alleanza con le forze politiche presenti nel sistema, ma con un’importantissima distinzione tra i due partiti sul livello regionale e locale. Per le elezioni nazionali non si è mai verificato che questi partiti si fossero alleati con altri partiti da loro stessi definiti italianisti. Il rifiuto e il diniego a una possibile alleanza con forze che possano fare riferimento a un’organizzazione e diffusione non eminentemente regionale, è totale. L’IRS in modo particolare ha proprio scritto nel suo statuto che non è possibile condividere qualsivoglia esperienza politica di governo con alcuna forza del panorama politico presente a Roma. In occasione delle elezioni nazionali, questi due partiti sfruttano il momento per "contarsi" e verificare la loro influenza nell’elettorato sardo, quasi più per sancire una leadership all’interno del mondo indipendentistico isolano che per una precisa strategia politica. Ma un primo elemento di divisione tra l’IRS e SN lo troviamo per le elezioni regionali, anche se comunque non tale da sovvertire quanto appena detto. Infatti SN è ricorsa all’alleanza con il PSdAZ (che spesso invece non alcun problema ad allearsi con le altre forze italianiste, in misura prevalente col centrosinistra ma sporadicamente anche col centrodestra) alle lezioni regionali del 2004 e siede in alcuni Consigli Comunali in giunte a guida sardista. La differenza fondamentale sta, quindi, nel fatto che IRS è totalmente irremovibile nel suo proposito di non-alleanza con alcuni, mentre SN, solo col PSdAZ alle regionali (e sempre che quest’ultimo non fosse già precedentemente alleato con altre forze politiche) e in pochissime occasioni a livello municipale ma con una forte guida e/o presenza del PSdAZ. L’alleanza non è stata raggiunta neppure in quei casi in cui partiti politici avessero portato avanti battaglie comuni con i militanti di IRS e SN, quasi a ribadire che su singoli temi ci si poteva trovare d’accordo ma non sulla possibile alleanza di governo, in quanto espressione di due polities differenti e, almeno per gli indipendentisti, in lotta tra loro. Le forze politiche ideologicamente più vicine a diverse battaglie (come i partiti di sinistra radicali e quelli ambientalisti) sono ancora molto lontane per una possibile alleanza. Ripetutamente, in occasione di elezioni, il PSdAZ attua una sorta di "mandato esplorativo" per verificare la disponibilità di queste forze all’alleanza con altri partiti di emanazione nazionale ma non si è mai giunti a un accordo. Certamente, la forza e il peso elettorale abbastanza modesti di queste due forze non "preoccupa" il sistema partitico isolano, e men che meno quello nazionale. Naturalmente vi sono partiti all’interno del panorama politico isolano che non si alleerebbero mai con chi propugna l’indipendenza dell’isola senza mezzi termini. Per questi partiti che sono parte del sistema partitico isolano, IRS e SN sarebbero da considerare antisistema. Per i partiti separatisti sardi, invece, il sistema partitico isolano (e nazionale, s’intende), rappresentando una polity contro la quale essi lottano, è vissuto come totalmente "altro". Abbiamo proposto di considerare precedentemente il sistema partitico come parte integrata a quella del sistema politico; i partiti indipendentisti sono anzitutto anti-polity, ma se non accettano le forze politiche presenti all’interno del sistema di partiti, diventano inesorabilmente anche anti-politics. Nel caso della Sardegna non è importante valutare quanto i partiti indipendentisti isolani siano modesti se non insignificanti per il sistema partitico stesso e ancor più per il tipo di regime, rappresentando un pericolo stesso per la democrazia. Diviene giocoforza obbligatorio, dall’analisi del loro comportamento politico, registrare la non disponibilità all’alleanza con forze politiche che non siano quelle quantomeno di stampo etnoregionalista.
    Ma lo studio delle dimensioni proposte per l’analisi sull’antisistemicità di questi partiti deve ancora verificare la terza. L’azione politica, la partecipazione politica, di questi partiti deve essere messa in rapporto a un carattere di non convenzionalità che si è proposto essere un fattore importante per considerare antisistema un partito indipendentista. Il caso sardo pare essere particolarmente utile a questo scopo. Potrebbe essere un’affermazione vera quella secondo cui l’elettorato di questi partiti (in maniera molto più visibile per l’IRS) è in costante crescita grazie anche alle forme di partecipazione che questi partiti scelgono di attuare agli occhi dei cittadini. IRS è un partito che fa del movimentismo una sua peculiare strategia, ad effetto sull’opinione pubblica isolana e non solo. Pur essendo la violenza e i metodi di lotta politica violenti e terroristici naturalmente banditi da questi partiti politici, IRS e SN non sono nuovi a forme di partecipazione non convenzionale. Persino dentro le istituzioni, IRS, all’opposizione in Provincia di Sassari, col suo leader e consigliere provinciale Gavino Sale, si è resa protagonista di forme "originali" di intendere la vita istituzionale. Anche a livello simbolico, questi partiti si discostano dal PSdAZ, rifiutando ad esempio i quattro mori come emblema della "nazione sarda", perché storicamente simbolo di un’altra invasione che succede alla precedente ed adottando, l’IRS, l’albero di Eleonora d’Arborea come simbolo dell’unico momento di "indipendenza" che ha vissuto la Sardegna nella sua storia. I partiti indipendentisti sardi sono particolarmente attenti all’uso di simboli e di simbologie che richiamano alla mente l’idea di una nazione futura indipendente; ed è particolarmente visibile lo sforzo e l’impegno a renderli conosciuti e diffusi in tutta l’isola tanto da poter essere riconosciuti immediatamente, con un forte impatto d’immagine. Ma è con azioni "clamorose" che IRS e SN si sono fatte conoscere dall’opinione pubblica isolana. IRS, da quando è nato, si è reso protagonista di varie decine di manifestazioni a forte impatto: dal ritrovamento e dimostrazione dell’esistenza di scorie radioattive nel sottosuolo sardo provenienti dal "continente", alla partecipazione di tantissimi suoi militanti nella lotta degli allevatori isolani sul prezzo del latte, riversandone vari litri per protesta sotto il Consiglio Regionale; dalla "cancellazione" dei nomi delle città e paesi espressi in italiano con il nome in lingua sarda, alla "espropriazione" dei terreni che impedivano l’ingresso al mare in alcuni punti dell’isola; dalla tentata occupazione delle piste di alcuni aeroporti isolani per protestare a favore della continuità territoriale della Sardegna, fino alla oramai celebre incursione a villa Certosa dell’ex Presidente Berlusconi, fatto che fece il giro del mondo. SN, pur essendo meno movimentista che l’IRS, si è distinta soprattutto recentemente, nella protesta arrivata sino in Costa Smeralda contro una festa organizzata in opposizione ad un provvedimento della Giunta Regionale conosciuto come "tassa sul lusso", per la quale si sono introdotti forzatamente in una proprietà privata distribuendo volantini ai presenti, prima di essere allontanati con la forza. Certamente l’elenco di manifestazioni sui generis potrebbe continuare ancora, ma gli esempi fatti dimostrano che la partecipazione politica intesa da questi partiti esula decisamente dalla norma dei comportamenti di altri tipi di partiti. È invece utile notare come le forme di attivazione politica vengano fatte attorno a grandi temi che toccano i cittadini sardi e la "spettacolarità" di talune azioni è volutamente ricercata per sottolineare le oggettive problematiche che riguardano l’isola. Il carattere movimentista di questi partiti è favorito dalla grande partecipazione giovanile, che rappresenta il valore aggiunto nella mobilitazione politica e che permette una più ampia partecipazione non convenzionale. Pur non potendo essere impiegata da sola come dimensione per stabilire o meno l’antisistemicità di questi partiti, si è detto in precedenza che è comunque un elemento importante. Da quest’ambito si possono osservare sia gli atteggiamenti di differenziazione rispetto al comune operato politico degli altri partiti, sia la sostanziale divergenza rispetto ai metodi di lotta politica impiegati. Se sembra finora appurato che a questi partiti non possano essere ascritti gli ultimi episodi di terrorismo che da vari anni scuotono l’isola e per i quali di recente sono stati comminati vari arresti di esponenti dell’indipendentismo sardo che non hanno mai militato nei due partiti considerati, è altrettanto indubbio che questi partiti abbiano scelto una lotta politica più visibile ed eclatante. Questo senza isolarsi dalla società sarda, anzi cercando di creare dei circuiti in cui si possano inserire per continuare l’opera di influenza della cittadinanza. Per cui anche dal punto di vista della non convenzionalità delle forme di azione politica, questi partiti sembrano soddisfare la terza e ultima dimensione. Dunque, se è vero che l’antisistemicità di un partito indipendentista passa anche per le sue modalità poco istituzionalizzate di lotta e pratica politica, i partiti in questione è innegabile vi facciano continuamente ricorso.


    Conclusioni

    La Sardegna non ha mai avuto una storia partitico-politica nettamente diversa da quella del resto d’Italia. Nell’isola, ad esempio, non vi sono mai stati casi di partiti assimilabili alla Valle d’Aosta o al (Trentino) Alto Adige, in merito alla "omogeneità" delle opzioni politiche. Nonostante qui sia nato uno dei primissimi partiti politici italiani e il primo etnoregionalista in Italia (e tra i primi in Europa), questo non ha ugualmente permesso di avere in Sardegna un partito egemonico del sistema partitico regionale. Certamente il PSdAZ ha attraversato, a fasi alterne, momenti elettoralmente favorevoli ad altri meno, ma non è mai riuscito, come l’UV e la SVP per esempio, ad avere il controllo della Giunta regionale e della maggioranza in Consiglio per lunghi periodi. Questo perché fondamentalmente possiamo dire che la Sardegna sia una etnoregione con un cleavage centro-periferia non pienamente sviluppato. Con questa definizione intendiamo dire che l’isola, nonostante abbia senza dubbio i caratteri specifici che la possano differenziare dal resto d’Italia, non sia mai riuscita a "politicizzare" intensamente questa differenza trasformandola in uno strumento politico di lotta verso il centro politico-amministrativo dello Stato. Addentrarci nelle motivazioni specifiche ci porterebbe molto lontano. Crediamo di poter affermare, però, che se non sono mai nati dei partiti separatisti forti nell’isola, una causa è anche quella della mancata politicizzazione del conflitto centro-periferia comunque indubbiamente esistente. Ma abbiamo anche visto come in Sardegna, ad ondate più o meno continue, vi sia stato e vi sia tuttora il tentativo di ricostruire quelle basi politiche per sviluppare, appunto, quel cleavage. Nel momento in cui il più grande partito etnoregionalista sardo accoglie posizioni più moderate al suo interno, automaticamente l’opzione indipendentista prende nuovo vigore. Seppure decisamente minoritaria, il fatto che la Sardegna possa essere definita etnoregione, come abbiamo proposto, significa che vi sono sempre quegli elementi di differenziazione che possono essere colti. E, come stanno facendo i due partiti indipendentisti sardi (forse, in questa fase politica, più l’IRS che SN), anche coltivati. Le motivazioni che giustificano la Sardegna come case study sembrano esserci tutte, dal momento che la polity è sempre stato un perenne problema da affrontare e al quale sono state proposte soluzioni via via diverse.
    Per questo, l’eventuale antisistemicità dei partiti considerati può a buon diritto essere studiata. Discostandoci da quello che genericamente si intende con i termini antisistema e antisistemicità, questo lavoro ha tenuto in considerazione due indicatori per spiegare la variabile dipendente. Il primo, è riferito all’antisistemicità partitica e l’altro a quella relativa al sistema politico. La possibilità di dividere questi due aspetti, a partire dal concetto di antisistema, la fornisce anche Capoccia nel suo studio (cit., pp. 27-28): nel momento in cui rileva l’opportunità di studiare (ed eventualmente considerare) partiti antisistema, anche quei partiti che sono irrilevanti per il sistema partitico ma non così per quello politico, almeno relativamente ad alcuni suoi aspetti. Anche se l’autore non fa esplicito riferimento, in questo caso, a partiti di matrice separatista, noi possiamo rintracciare, in virtù di quanto detto finora, un preciso aspetto nel nostro caso, relativo alla polity. E i partiti che sono stati esaminati in questo lavoro, seppure non in generale, ma solo per le dimensioni che si sono proposte per il rilevamento di forze indipendentiste antisistema, pare essere interessante, almeno per le indicazioni fornite dallo stesso Capoccia.
    L’antisistemicità partitica negli indipendentisti sardi è abbastanza evidente. Come detto sono partiti che non si alleano con gli altri (a parte il caso di SN, ma pur sempre con un partito etnoregionalista) in quanto di emanazione centralista. I caratteri di partiti antisistema, però, sembra siano nel caso sardo più legati a una caratteristica di non-alleanza per ragioni sia strategiche che ideologiche, che invece per un effettivo "pericolo" al sistema partitico regionale. Mancando infatti qualsiasi riscontro da parte del sistema politico nazionale per questi partiti, l’unica arena su cui poter svolgere un’analisi più approfondita pare essere quella regionale e locale, come peraltro avviene in quasi tutti i partiti indipendentisti. L’antisistemicità riferita al sistema partitico dei partiti separatisti sardi appare sicuramente visibile ma non per ciò che attiene una possibilità di sovvertire la forma di governo, ad esempio; si è visto che la forza elettorale di questi partiti è assolutamente insufficiente per poter solo lontanamente attentare al sistema. Divengono partiti antisistema molto più perché non decidono di allearsi con alcuna forza politica che sia direttamente "dipendente" dal centro romano che per il fatto di possedere caratteristiche antisistemiche riferite ai rapporti con gli altri partiti esistenti. Ciò che li rende antisistema è il rifiuto del sistema stesso a prescindere, quindi, piuttosto che la lotta cambiarlo, considerando questi partiti i rimanenti espressione di una polity contro la quale si combatte.
    E torna a essere l’aspetto relativo al problema della comunità politica, quello a rivestire l’importanza maggiore. IRS e SN sono partiti anti-polity per le caratteristiche che più volte si sono ricordate. Il carattere di antisistemicità sotto questo punto di vista è più complesso. La separazione di una parte del territorio da un altro mina il significato stesso di sistema politico in quanto l’elemento di polity è parte integrante e inscindibile dello stesso. Il sistema partitico può anche trovare l’accordo delle forze indipendentiste, ma relativamente agli aspetti che possano, eventualmente, essere esportati in un "nuovo" sistema partitico conseguenza di un nuova polity. Così può non esserci dissenso, da parte di queste forze politiche, al fatto che possano esserci diversi partiti polarizzati piuttosto che due partiti tendenti al centro, viceversa; o che un sistema elettorale esistente nello Stato di riferimento possa essere "esportato" anche nella nuova polity. O che le Istituzioni democratiche presenti possano essere prese a modello nell’eventuale nuovo stato indipendente. Se gli aspetti di politics possono essere accettabili, quello che non lo può assolutamente essere diviene il "contenitore" degli stessi. IRS e SN più volte hanno espresso la volontà, in un futuro Stato sardo indipendente, di rispettare tutte le sensibilità presenti nella società e tutte gli strumenti di politics propri di uno Stato democratico.
    Inevitabilmente per i partiti separatisti sardi il rifiuto del sistema partitico è una ovvia conseguenza delle premesse politiche dalle quali essi muovono. Non possono allearsi con forze che rappresentano la comunità alla quale dichiarano di non voler appartenere. Per riprendere Capoccia e la sua tipologia di partiti antisistema, possiamo dire che questi partiti possono essere definiti partiti antisistema irrilevanti. Ma non tanto per il concetto che il nome suscita, relativamente al fatto che questi partiti siano tutto sommato molto modesti. Quanto per il fatto che gli irrelevant anti-system parties hanno una antisistemicità ideologica ma non quella relazionale, i partiti sardi possono essere definiti così, visto che se ci fosse l’antisistemicità relazionale, avrebbero avuto atteggiamenti di opposizione esacerbata verso altri elementi di politics. E si è detto che non è l’obbiettivo principale di questi partiti. Se invece considerassimo solo il sistema politico allora, avremmo tutte e due i tipi di antisistemicità e quindi avremmo due perfetti partiti antisistema.
    Pensiamo però che il caso degli indipendentisti sardi possa essere descritto come quello in cui la presenza di un’opposizione radicale e totale al sistema politico della polity appare come condizione sufficiente per considerarli antisistema. Il sistema partitico è importante solo per il grado di importanza che questi partiti, seppur molto piccoli, danno. Se lo ignorano, come in Sardegna, non alleandosi con alcuno, saranno definibili antisistema da questo punto di vista. Ma per un partito indipendentista la polity decide sulla politics. E il sistema politico racchiude quello partitico.
    Sarebbe interessante estendere ad altri partiti indipendentisti europei in chiave comparata questi studi. Ma occorre secondo noi tenere presente il fatto che l’analisi di partiti separatisti debba necessariamente considerare il doppio significato di antisistemicità. È questo, inoltre, un altro modo per conoscere meglio la variante indipendentista della grande famiglia dei partiti etnoregionalisti, cui ancora la letteratura politologica stenta nel dare attenzione.








































    Riferimenti bibliografici

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    http://209.85.129.104/search?q=cache...nk&cd=32&gl=it

    http://www.sisp.it/sisp_convegnoannuale_paperroom_download.asp?id=503.

  2. #2
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    Uno studio che ha dei lati interessanti, non concordando naturalmente sulle diciture "separatisti". Si trova anche un passaggio sulla sistematicità presente anche in alcuni scritti di URN Sardinnya.
    Alla fine non c'era certo bisogno di analisi approfondite per capire che alcuni movimenti oggi sono estraniati dallo scenario politico (e sociale) poichè proprio "antisistema", trasmettenti quindi un costrutto tendente ad una immagine obsoleta ed isolazionista.
    Nella società moderna di massa, qualsiasi elemento distorsivo da essa o richiamante dinamiche non moderatistiche (massimaliste spesso nei ns casi) viene automaticamente espulso e privato della sua credibilità.
    E' il primo effetto sociologico che si trasmette alla pubblica opinione.

  3. #3
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    Hai dato una lettura assolutamente superficiale del testo.

    Essere antisistema è per noi un obbligo.

    Non vogliamo essere la periferia povera dell'Italia ma neanche la periferia povera del mondo.

    Non ci interessa creare uno Staterello satellite dell'America e della Nato, stile stati dell'ex URSS.

    Noi stiamo pensando a un modello di civiltà alternativo e non siamo per niente isolati ne tanto meno isolazionisti.

    Non ci riconosciamo nei modelli economici e culturali imposti dala globalizzazione forzata.

    Siamo dei resistenti.

  4. #4
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    Noi stiamo pensando a un modello di civiltà alternativo e non siamo per niente isolati ne tanto meno isolazionisti.

    Non ci riconosciamo nei modelli economici e culturali imposti dala globalizzazione forzata.

    Siamo dei resistenti.
    E' proprio questo il punto che più volte si sottolinea su URN Sardinnya:
    L'indipendentismo non si può e non si deve presentare come un modello sociale.
    Se non la si pianta di voler imporre le utopie, l'opinione pubblica non assorbirà mai l'immagine di una indipendenza che sappia stare nei canoni del mondo contemporaneo, e, sia sotto un profilo tanto sociologico quanto culturale, vi vedrà obsoleti ed isolazionisti:
    Ed è ciò che nella pratica si è creato ed avete creato, tutto il resto sono chiacchiere e teoremi privi di riscontro.
    La globalizzazione inoltre non è forzata, è il mercato, oltre che la naturale espansione sociale apportata nelle culture dalle tecnologie del 900 e dai mass media, opporsi, non solo rende tutto più utopico, ma altresì in controtendenza con la naturale evoluzione della storia.
    Scindere il concetto di lotta alla globalizzazione da quello di indipendenza è un gradino fondamentale, ed è un passaggio in cui ad esempio il sardismo tradizionale, risulta per vasti settori certamente avanti.
    Il problema è sempre e solo quello: Se non si esce dalla mentalità post-sessantottina della contestazione a tutto, non si và da nessuna parte.

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da Patriot - SRD Visualizza Messaggio
    Uno studio che ha dei lati interessanti, non concordando naturalmente sulle diciture "separatisti". Si trova anche un passaggio sulla sistematicità presente anche in alcuni scritti di URN Sardinnya.
    Alla fine non c'era certo bisogno di analisi approfondite per capire che alcuni movimenti oggi sono estraniati dallo scenario politico (e sociale) poichè proprio "antisistema", trasmettenti quindi un costrutto tendente ad una immagine obsoleta ed isolazionista.
    Nella società moderna di massa, qualsiasi elemento distorsivo da essa o richiamante dinamiche non moderatistiche (massimaliste spesso nei ns casi) viene automaticamente espulso e privato della sua credibilità.
    E' il primo effetto sociologico che si trasmette alla pubblica opinione.

    E imbesse custa analisi faltat de duos puntos meda importantes:

    1. Faeddat de partidos indipendentistas comente elettoralmente irrilevanti kena narrer PO COMO!
    Errore fondamentale: sos partidos Indipendentistas trivagliana in prospettiva futura, le percentuali elettorali aumenteranno proporzionalmente all'estinzione di una generazione di anziani (dopoguerra e sessantotto) educata al servilismo verso l'italia.

    2. Sos cattolicos! In custa analisi faltan sos cattolicos, ki in Sardinnya dezidin tottas sas eletziones! Il probelma degli indipendentisti (e il loro scarso consenso) è dovuto molto a certi rimasugli di anticlericalismo sinistrorso stile pepponico (da Peppone) che regala ai partiti cattolici (Margherita, UDC, Forza Paris, AN, in parte FI) un buon 40% di voti!
    La Sardegna non è la Toscana o l'Emilia Romagna! Sardinnya est fitza de sos Judikados, de una forte Traditzione cattolica!
    Si la canzellamos, canzellamos sas festas de campagna, su Carrasegare, S. Efisio, sa Pasca, ecc... Praticamente canzellamos nois mattessis!
    Proamos a immazinare unu partidu Indipendentista Nazionalista Sardu de tipu Democristianu (esempi: SVP, CiU): keltzo biere cantu leada!

    Custos fattores faltan dae s'analisi, su tipu connosket su mundu Indipendentista e sa politica Sarda de manera unu pagu superficiale!

  6. #6
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    Hai ragione su questo aspetto, ma non stavo parlando di quello, con riferimento al testo, ma all'elemento più vasto che ricordava anche Nurra: La lotta antisistema, che poi genera tutta una serie di problematiche e si ricollega cmq anche a quanto hai detto: il post-sessantottismo.
    Da lì parte ad esempio l'anticlericalismo che hai ricordato contro la tradizione cattolica diffusa in Sardegna.
    E' una spirale.

    Per quanto riguarda il tempo antecedente al "post-sessantottismo" indipendentista ci son più questioni politiche che ideologiche.
    Ad esempio storicamente, nell'azionismo, è falsa la circostanza secondo cui il psdaz sarebbe stato anti-cattolico a priori.
    Diversi testi di Lussu sono sempre stati aperti alla realtà di fede in Sardegna, il cattolicesimo appunto.
    Ma come ovvio la contesa con i giganti quali la DC, esplicitamente filo-Vaticana, hanno creato un paradosso storico per cui da un lato si doveva assecondare il popolo, dall'altro combattere l'impossibile: la DC che rappresentava il popolo con vari mezzi, anche con la "fede" appunto, oltre che al clientelismo.
    Insomma, la DC ha rinnovato la rappresentanza popolare del culto cattolico anche dopo il periodo fascista.

    Mio padre (che è stato sardista nel secolo scorso) mi raccontava di certe situazioni per cui se eri DC potevi anche trovare un misero posto di lavoro, se eri sardista, avevi già un piede nella fossa.
    Così fu costretto a cercare la fortuna in Germania...

    Sul testo di sopra, dicevo ad esempio che non condivido la dicitura "separatista" intesa nel senso classico del termine (per definire i movimenti identitari).
    Si separa qualcosa che in genere fa parte di un corpus unico, non tanto giuridico, ma culturale.
    La Sardegna pur essendo un corpus unico giuridico con Roma, non lo è certamente sotto il profilo culturale, pertanto non c'è nulla da separare.
    C'è solo da liberare.
    Su URN Sardinnya ragionando su questo punto con amici siamo arrivati alla conclusione in alcuni scritti che comunque in questo periodo storico si può accettare la dicitura separatista, non per i movimenti, ma per il popolo in se, qualora in futuro si determinino le condizioni necessarie ad una scissione giuridica da Roma, non tanto per presa di coscienza culturale, magari economica.
    Detta in modo semplice: E' forse falso che oggi una stragrande maggioranza di Sardi è italiana a tutti gli effetti?
    Sotto quest'ottica nasce anche un elemento culturale che può essere assoggettato alla popolazione del ns territorio.
    In questa dinamica si inserisce il "sardismo diffuso".
    Ecco dove servirebbero (rispetto ad alcuni del recente passato) SERI studi di sondaggistica per capire le tendenze e le dinamiche in evoluzione presso la popolazione.

    La morale comunque rimane una: Se da un lato il sardismo (diffuso) si è incastonato in tutti i settori della natzione, dall'altro, la confusione identitaria è il sintomo della fase di declino in cui la natzione avanza:
    Ed è il pericolo maggiore che bisogna frenare.

  7. #7
    Meda sabios paris
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    Citazione Originariamente Scritto da Patriot - SRD Visualizza Messaggio
    Hai ragione su questo aspetto, ma non stavo parlando di quello, con riferimento al testo, ma all'elemento più vasto che ricordava anche Nurra: La lotta antisistema, che poi genera tutta una serie di problematiche e si ricollega cmq anche a quanto hai detto: il post-sessantottismo.
    Da lì parte ad esempio l'anticlericalismo che hai ricordato contro la tradizione cattolica diffusa in Sardegna.
    E' una spirale.

    Per quanto riguarda il tempo antecedente al "post-sessantottismo" indipendentista ci son più questioni politiche che ideologiche.
    Ad esempio storicamente, nell'azionismo, è falsa la circostanza secondo cui il psdaz sarebbe stato anti-cattolico a priori.
    Diversi testi di Lussu sono sempre stati aperti alla realtà di fede in Sardegna, il cattolicesimo appunto.
    Ma come ovvio la contesa con i giganti quali la DC, esplicitamente filo-Vaticana, hanno creato un paradosso storico per cui da un lato si doveva assecondare il popolo, dall'altro combattere l'impossibile: la DC che rappresentava il popolo con vari mezzi, anche con la "fede" appunto, oltre che al clientelismo.
    Insomma, la DC ha rinnovato la rappresentanza popolare del culto cattolico anche dopo il periodo fascista.

    Mio padre (che è stato sardista nel secolo scorso) mi raccontava di certe situazioni per cui se eri DC potevi anche trovare un misero posto di lavoro, se eri sardista, avevi già un piede nella fossa.
    Così fu costretto a cercare la fortuna in Germania...

    Sul testo di sopra, dicevo ad esempio che non condivido la dicitura "separatista" intesa nel senso classico del termine (per definire i movimenti identitari).
    Si separa qualcosa che in genere fa parte di un corpus unico, non tanto giuridico, ma culturale.
    La Sardegna pur essendo un corpus unico giuridico con Roma, non lo è certamente sotto il profilo culturale, pertanto non c'è nulla da separare.
    C'è solo da liberare.
    Su URN Sardinnya ragionando su questo punto con amici siamo arrivati alla conclusione in alcuni scritti che comunque in questo periodo storico si può accettare la dicitura separatista, non per i movimenti, ma per il popolo in se, qualora in futuro si determinino le condizioni necessarie ad una scissione giuridica da Roma, non tanto per presa di coscienza culturale, magari economica.
    Detta in modo semplice: E' forse falso che oggi una stragrande maggioranza di Sardi è italiana a tutti gli effetti?
    Sotto quest'ottica nasce anche un elemento culturale che può essere assoggettato alla popolazione del ns territorio.
    In questa dinamica si inserisce il "sardismo diffuso".
    Ecco dove servirebbero (rispetto ad alcuni del recente passato) SERI studi di sondaggistica per capire le tendenze e le dinamiche in evoluzione presso la popolazione.

    La morale comunque rimane una: Se da un lato il sardismo (diffuso) si è incastonato in tutti i settori della natzione, dall'altro, la confusione identitaria è il sintomo della fase di declino in cui la natzione avanza:
    Ed è il pericolo maggiore che bisogna frenare.
    Po dolu sa differentzia intre e a mie e sos partidos Indipendentistas est ki issos cretten ki s'inimigu printzipale de su Populu Sardu e de sa Natzione Sarda sien sas Bases Nato, deo imbesse creo ki sien Pippo Baudo, Striscia la Notizia e s'Iscola italianizzada, cuntra sos cales si devian indirizzare tottu sas gherras politicas!
    In sa gherra culturale po sa Sardizzazione de s'Iscola, po faghe passare s'80% de sas iscolas pubblicas Sardas a sutta sa Regione (cun programmas e testos didatticos) si podian unire de abbereru Psd'Az, SN, IRS, Progetto Sardegna e atteros partidos nazionalitarios e faghe calki cosa de cuncretu!
    Ma nono, sighimos a andare in 2 battos cuntra sos apparekkios amerikanos e faghimos a riere sas pedras!

  8. #8
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    Sono d'accordo.

  9. #9
    Omia Patria si bella e perduta
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    Citazione Originariamente Scritto da Davide Nurra Visualizza Messaggio
    Hai dato una lettura assolutamente superficiale del testo.

    Essere antisistema è per noi un obbligo.

    Non vogliamo essere la periferia povera dell'Italia ma neanche la periferia povera del mondo.

    Non ci interessa creare uno Staterello satellite dell'America e della Nato, stile stati dell'ex URSS.

    Noi stiamo pensando a un modello di civiltà alternativo e non siamo per niente isolati ne tanto meno isolazionisti.

    Non ci riconosciamo nei modelli economici e culturali imposti dala globalizzazione forzata.

    Siamo dei resistenti.
    Bravo!!!
    Io ho stima per gli indipendentisti sardi che sono capaci di coniugare tematiche nazionali sarde e rivendicazioni sociali.
    L'articolo è molto interessante, anche per chi come me conosce molto poco l'argomento. Comunque vorrei sottolineare che voi sardi siete fortunati, almeno da voi c'é vita fuori dal bipolarismo......da me, in Lombardia, polo e unione sono una cappa peggiore dello smog e della nebbia, impossibile da squarciare. Al di fuori dei poli ci sono solo quelli del partito umanista (GRANDISSIMI) e qualche scheggia impazzita della lega che vuole restaurare il regnum longobardorum...... insomma siamo messi male.

  10. #10
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    Io ho stima per gli indipendentisti sardi che sono capaci di coniugare tematiche nazionali sarde e rivendicazioni sociali.
    Questo è vero, ma non riescono a coniugarsi col Popolo.
    Il chè non mi pare poco....
    E non si tratta solo del'azione italiana, è l'indipendentismo stesso, che spesso e volentieri, miope poichè su posizioni ideologiche stantie, non riesce ad aprirsi alla nostra cittadinanza.
    Il tema "antisistema" trattato dall'argomento in questione è una delle chiavi per spiegare l'allontanamento della Pubblica Opinione dall'indipendentismo.
    L'ho ripetuto in mille post, oggi, essi sono come un serpente che si morde la coda.

 

 
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