LA RELIGIONE DI SARKOZY
Tutti i tabù violati dal candidato all’Eliseo dell’Ump, dal Consiglio
del culto musulmano alla revisione della legge sulla laicità
di Marina Valensise
Anche in fatto di religione, Nicolas
Sarkozy, candidato del partito gollista
alle elezioni presidenziali di Francia, coltiva
idee di rottura. Alcune – rivoluzionarie
– ha già avuto modo di realizzarle, come
il Consiglio francese del culto musulmano,
rappresentativo di tutti gli islamici
francesi, istituito nel 2002, durante il suo
primo mandato come ministro dell’Interno
e dei culti. Altre sono in programma,
come la revisione della legge del 1905 sulla
separazione tra stato e chiesa, per superare
la vecchia idea di laicità ed estendere
il finanziamento pubblico alla costruzione
delle moschee. E tutto lascia pensare
che a queste idee Sarkozy resterà fedele,
a dispetto della campagna elettorale
che potrebbe dettare tattiche di moderazione
per federare meglio la chiracchia, e
a dispetto dello stesso ruolo di presidente
in nome di un ecumenismo laicista per devozione
alla storia patria.
Lo dimostra l’ultima intervista sul Monde
uscita ieri pomeriggio, nella quale
Sarkozy replica al segretario socialista,
François Hollande, il quale lo ha accusato
di appropriarsi dell’eredità della sinistra e
dei sacri numi di Jean Jaurès, Léon Blum
ed Emile Zola. Sarko difende l’idea di un’unica
storia di Francia, storia comune e non
comunitaria, una sintesi che superi le divisioni
tra destra e sinistra, senza distinguere
tra Pascal e Voltaire, ancien régime e rivoluzione,
tra re taumaturghi e regicidi, tra
le crociate e le vittorie rivoluzionarie, tra le
cattedrali e l’Encyclopédie, lasciando
chiunque libero di citare De Gaulle o
Jaurès, senza dire da che parte sta.
Che Sarkozy intenda restare fedele a
una lettura non conformista della storia
per affrontare senza complessi il tabù della
laicità lo dimostra la prima uscita pubblica
all’indomani dell’investitura ufficiale.
Sarkozy ha deciso di fare una visita al
Mont Saint Michel, l’abbazia benedettina
sorta su una promontorio della costa normanna
nel X secolo, in onore dell’Arcangelo
che, secondo la leggenda, forò il cranio
del vescovo di Avranches Uberto con
un dito, perché era rimasto indifferente
alla sua richiesta. Ligio al precetto gollista,
che fa dell’elezione presidenziale l’incontro
tra un uomo e un popolo, Sarkozy –
che si professa cattolico, e si riconosce
membro della chiesa cattolica, pur essendo
un praticante “episodico” – voleva respirare
la “France éternelle” e renderle
omaggio dopo il tripudio al congresso dell’Ump,
che l’aveva plebiscitato candidato
col 98 per cento.
Giacca scura, girocollo blu, all’indomani
dell’investitura, dunque, è salito in cima all’abbazia
medievale, seguito da una muta
di giornalisti e teleoperatori. A metà strada
ha incontrato un frate dell’ordine di Gerusalemme,
che vive lì da cinque anni e testimonia
la tormentata storia di un monastero
benedettino che la rivoluzione trasformò
in carcere per i trecento monaci refrattari
alla costituzione civile del clero, e che tale
rimase finché nel 1863 non fu chiuso per
decreto da Napoleone III. “Secondo la tradizione
di San Paolo, noi preghiamo molto
per chi esercita il potere in nome della nazione
– gli ha detto il monaco, sulle scale
dell’abbazia – Si ricordi che la freccia in cima
al campanile è un dito puntato verso il
cielo”. Sarkozy gli ha sorriso, gli ha stretto
la mano, poi s’è guardato intorno e, appena
ha intercettato uno sguardo complice fra il
suo seguito, ha risposto: “Hollande adesso
penserà che sono diventato un ranocchio
da acquasantiera…”. “E invece no”, ha aggiunto
subito. “Io credo soltanto che le preghiere
sincere siano le preghiere discrete”.
Poi, arrivato in cima al Mont, si è affacciato
dai bastioni per contemplare il mare e
scandendo le parole perché i microfoni le
captassero ha detto: “Io penso che qui, al
Mont Saint Michel, la morale laica e la morale
spirituale si siano incontrate. La Francia
è frutto di questo incontro”.
Il giorno prima, alla Porta di Versailles,
era riuscito a ipnotizzare per un’ora e mezza
le decine di migliaia di militanti accorsi
da tutta la Francia sui 52 autobus e gli otto
Tgv messi a disposizione del partito (quanti
fossero realmente è controverso: il sindaco
di Marsiglia Jean Claude Gaudin, alle 11
ne ha salutati 78 mila, Alain Juppé, due ore
dopo, 100 mila. Ma il Canard Enchainé ha
tirato fuori un piano generale della sala numero
uno, che prevedeva soltanto 20.949 sedie,
cifra smentita subito dai responsabili
Ump, che hanno distribuito 80 mila braccialettini
di plastica ai partecipanti, organizzando
file di due ore per far entrare chi
ne era sprovvisto). Parlando dalla tribuna
al centro della sala, Sarkozy ha ricordato
che “l’elezione presidenziale è una prova
di verità”, e ha confessato di essere cambiato,
perché le prove della vita gli hanno insegnato
che “non si può capire il dolore di
chi soffre, se non si è sofferto di persona” e
“non può tendere la mano ai disperati chi
non è stato disperato”.
Poi, alla folla che ascoltava rapita l’omelia
della consacrazione, Sarkozy ha raccontato
di essere cambiato il giorno in cui a
Tibhirina, in Algeria, aveva letto il testamento
spirituale di padre Christian de
Chergé, il priore del monastero di Notre
Dame de l’Atlas, che nella primavera del
1996 fu rapito, sequestrato e sgozzato con
altri sei monaci trappisti dai fanatici islamisti
del Gia. Sarko ha voluto rileggere le
ultime parole di quel martire cristiano: “Se
mi capitasse un giorno di essere vittima del
terrorismo (…), potrò, se piace a Dio, immergere
il mio sguardo in quello del Padre,
per contemplare con lui i suoi figli dell’islam
come lui li vede (…). E anche a te, amico
dell’ultimo minuto, mio assassino, che
non avrai saputo quel che stavi facendo. Sì,
anche per te voglio questo grazie, questo
ad-Dio… E che sia dato di ritrovarci, ladroni
beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre
nostro, di tutte e due”. A quel punto, sarà
per la scenografia a effetto al centro di un
emiciclo verso il quale convergevano le file
di sedie a raggiera, sarà per il ritmo possente
dell’oratoria sarkozista, per la maestria
nella presa sul pubblico, fatto sta che
Sarko è riuscito a trasmettere la verità semplice
e profonda del messaggio cristiano,
senza trivializzarla, quando ha spiegato di
aver imparato da quella morte “la forza
dell’amore”, “il senso vero della tolleranza”,
“quel che di sublime e di terribile le
grandi religioni possono generare”. E soprattutto
“a non confondere l’estremismo
col sentimento religioso”.
Esaurito il registro biografico, Sarkozy è
andato oltre e ha riproposto la sua lettura
spregiudicata della “laicité”. Aveva di fronte
Alain Juppé, un difensore ostinato di
quello che in Francia è un dogma, prima
che un principio di stato. Juppé, il repubblicano
d’acciaio, che nel 2003 tentò di convincere
il presidente Jacques Chirac a
emanare una legge per arginare la deriva
delle mense halal nelle scuole pubbliche e
degli orari separati per uomini e donne
nelle piscine comunali. Allora, sfidandolo
sulla laicità, Sarkozy s’era giocato la conquista
dell’Ump. E aveva in parte perso, visto
che, contrario com’era a legiferare sul
velo, s’era dovuto arrendere alla legge sul
divieto di portare simboli religiosi nelle
scuole pubbliche. Al momento dell’investitura,
però, come se nulla fosse, anzi sfidando
apertamente l’ex rivale Juppé e oggi alleato
– che fu il primo fondatore dell’Ump
nel 2002 e l’unica vittima della chiracchia
nel 2004, condannato all’ineleggibilità per i
fondi neri della Mairie di Parigi e costretto
ad assistere alla conquista sarkozysta del
partito – Sarko ha detto: “Opporre il sentimento
religioso alla morale laica sarebbe
assurdo”. E quasi a infierire contro un’idea
statica e logora di una tradizione gloriosa
ma inservibile ha aggiunto: “Noi siamo gli
eredi di duemila anni di cristianità e di un
patrimonio di valori spirituali che la morale
ha incorporato. Non dobbiamo contrapporli
l’uno all’altra, perché siamo il frutto
di questa sintesi e del meticciato tra la morale
laica e duemila anni di cristianesimo.
La laicità alla quale io credo – ha poi concluso
– non è la lotta contro la religione. E’
il rispetto di tutte le religioni”.
A parlare era il politico scaltro, il ministro
pragmatico che dopo mesi di tenace
negoziato era riuscito a tirarsi fuori dal
“Vietnam” della politica interna, siglando
un accordo sulla rappresentanza dei musulmani
di Francia. In vent’anni di mitterrandismo
e chiracchia, molti avevano preparato
la strada, ma nessuno era riuscito
nell’impresa: né il socialista Pierre Joxe, né
il gollista Charles Pasqua, né il sovranista
Jean Pierre Chevènement, né il coabitazionista
Daniel Vaillant. E invece Sarkozy, il
bonapartista, il decisionista, il tattico spregiudicato
nell’uso dei mass media e consumato
nell’arte della comunicazione, ha
stretto in una morsa le tre grandi federazioni
musulmane arrivando all’accordo, tra la
Fnmf, la grande moschea di Parigi (che rappresentano
l’islam ufficioso) e l’Uoif, l’Unione
delle organizzazioni islamiche di
Francia (che rappresenta l’islam ufficioso,
ben più subdolo e tentacolare, perché legato
alla predicazione dei Fratelli musulmani)
e forte di una diffusione nelle banlieue,
dove grande è il rischio che l’estremismo
covi nelle moschee clandestine, improvvisate
in garage e cantine.
Alla fine del 2002, Sarkozy riesce a mettere
insieme i loro rappresentati, fratelli
separati dell’islam francese. Li riunisce per
48 ore in un castello di proprietà demaniale
a Nainville-les Roches, nell’Essonne, per
una conferenza a porte chiuse. E per facilitare
gli scambi fa servire pasti halal e allestire
una sala di preghiera. “Fu la prima e
unica volta, dal 1905, che si è potuto pregare
ufficialmente in seno al ministero dell’Interno”,
avrebbe poi commentato fiero
Sarkozy nell’intervista al filosofo Thibaud
Collin e al padre domenicano Philippe Verdin
(“La République, les religions, l’espérance”)
pubblicata dalle Editions du Cerf,
nell’autunno 2004, alla vigilia della conquista
del partito. Quel libro è un diario di bordo
retrospettivo, in cui Sarko racconta in
prima persona com’è riuscito a sbloccare i
veti incrociati, grazie al metodo “win win”
e con modestia conclude: “Ero convinto che
avremmo vinto o perso insieme, e glielo feci
semplicemente capire”.
Dalla separazione tra stato e chiese, non
era mai successo che un ministro della Repubblica
si fosse tanto prodigato nella gestione
dei culti, anche a costo di perdere la
faccia, o sollevare critiche feroci. Davanti
all’accusa di aver legittimato come interlocutori
del governo i radicali dell’Uoif,
Sarkozy non ha spiegato come la sua, in fondo,
fosse una scelta obbligata, visto che era
impossibile impedire a cinque milioni di
musulmani il diritto di praticare liberamente
e pubblicamente la loro religione,
diritto garantito dalla Costituzione repubblicana.
La sua è una concezione non dogmatica
ma liberale della laicità, dove lo stato
laico non va contro la religione, come s’ostinano
a pensare gli anticlericali ostinati,
ma ne garantisce la libertà di culto; perché,
ispirandosi a Tocqueville, “riconosce il bisogno
che l’uomo ha sempre avuto di credere
e di sperare”, e lo considera una molla
della democrazia, anche a dispetto della
pratica che scema e delle chiese che si
svuotano. “Ho dovuto affrontare una situazione
in cui tutti erano perdenti – ha spiegato
Sarko parlando del negoziato con l’islam
– Una parte dei musulmani francesi si
sentiva sbeffeggiata nella sua identità. I
francesi non musulamani erano ogni giorno
più spaventati dalla presenza dell’islam,
che spesso veniva confusa con il terrorismo.
L’unico vincitore, in realtà, era l’estremismo,
che avrebbe prosperato meglio sulla
paura e nella clandestinità, anziché venire
allo scoperto”. Del resto, Sarkozy ha perseguito
la stessa idea, andando avanti baldanzoso
con un misto di audacia e di coraggio
quando, un anno dopo, nel novembre 2003,
ha accettato di farsi intervistare in tv con
Tariq Ramadam, il predicatore vicino ai
Fratelli musulmani, che irretisce nel mondo
intero folle di giovani vicini al fanatismo.
Quel giorno sapeva che puntava grosso,
ma l’ha spuntata, riuscendo a ottenere –
in diretta tv davanti a sei milioni di telespettatori
– un accordo di principio da parte
del musulmano più ostracizzato e più temuto
d’America perché le ragazze musulmane
si togliessero il velo, entrando a scuola.
In fondo, però, a spiegare l’assenza di
complessi, la libertà di movimento di
Sarkozy, la sua spregiudicatezza nei confronti
di tabù inespugnabili, è anche “il
sangue misto” del figlio di un aristocratico
ungherese, e nipote di un ebreo sefardita,
convertito al cattolicesimo e al gollismo che
gli ha fatto da padre. Nell’albero genealogico
di Sarkozy non si trovano giacobini decristianizzatori
né cattolici vittime del Terrore,
ma soltanto difensori del regno apostolico
di Ungheria contro i turchi, amministratori
pubblici, proprietari terrieri. E’ per
questo che la sintesi repubblicana, non comunitaria,
che egli propone della storia di
Francia come unica storia possibile, secondo
la lezione di Michelet, non è soltanto il
riflesso dei tempi, ma il portato di un’eredità
personale, che ne spiega l’efficacia: “E’
curioso – confessava Sarko dieci anni fa –
Anche se appartengo alla maggioranza, mi
sento più vicino alle comunità minoritarie e
mi piace l’attaccamento che hanno per la loro
cultura, per la loro famiglia”.
(primo di una serie di articoli)