Ru 486 (15 marzo 2007)
Aborto chimico, il «modello Toscana» ha il fiatone
di Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella
Chissà che strana idea si faranno i lettori della rivista Pharmacy World and Science sulla situazione della sanità italiana, scorrendo l’articolo «Mifepristone in Italia: il caso di un farmaco intrappolato fra etica e pratica clinica», a cura di un gruppo di medici e operatori sanitari dipendenti della Usl 11 di Empoli, in Toscana. Gli autori vorrebbero spiegare quali siano le barriere che impediscono l’introduzione della pillola abortiva in Italia, a partire dall’esperienza dell’ospedale di Empoli. Ma la storia che raccontano ha ben poco a che fare con i fatti; o forse i fatti, tradotti in inglese, acquistano un significato completamente diverso.
Si comincia con una svista scientifica, nelle prime righe: il mifepristone – principio attivo della pillola Ru 486 – secondo gli autori sarebbe indicato nelle gravidanze ectopiche (cioè extrauterine), quando invece è noto che proprio in quel caso è inefficace, anzi controindicato, perché, mascherando i sintomi, espone a rischi mortali. Si spiega poi che il farmaco non è diffuso in Italia per «ostacoli etici, religiosi e legali»; in particolare «non ha ancora ricevuto l’autorizzazione alla vendita dal Ministero per la Salute Italiano». Questa formula lascia immaginare che ci sia un freno istituzionale e politico alla commercializzazione della pillola abortiva. In realtà esiste un ente autonomo predisposto al controllo e alla registrazione dei farmaci, l’Aifa. E se un’azienda temesse comunque influenze politiche potrebbe ottenere l’autorizzazione necessaria a distribuire il farmaco in tutti i Paesi della Ue, rivolgendosi all’analogo ente europeo, l’Emea.
Roberto Banfi e gli altri autori dell’articolo sorvolano su tutto questo, e soprattutto sembrano ignorare che il Ministero non ha mai potuto ostacolare la registrazione del farmaco in Italia, per un motivo semplicissimo: la ditta non l’ha mai chiesta. La mancata diffusione della pillola abortiva in Italia è da imputare esclusivamente alla Exelgyn, l’azienda francese che la distribuisce, e che non ha mai voluto sottoporsi alle procedure e ai controlli necessari per ottenere di commercializzarla da noi. Non lo ha fatto neppure quando era ministro della Sanità Umberto Veronesi, che pure ha sempre rilasciato dichiarazioni a favore dell’aborto chimico.
I medici di Empoli informano i lettori che in Italia, a certe condizioni, i farmaci non registrati possono essere acquistati all’estero, e che «il Sistema sanitario regionale toscano ha fatto una legge specifica per approvare l’uso del mifepristone per l’aborto volontario in ospedale, in accordo con linee guida regionali condivise dalla maggior parte dei ginecologi toscani». Dell’esistenza di una legge regionale per l’uso di un farmaco non distribuito nel nostro Paese eravamo sinceramente all’oscuro, come anche di linee guida regionali, condivise da un così gran numero di ginecologi toscani. Sarebbe interessante conoscere il nome e il testo della legge, la data in cui è stata approvata, quali sono le linee guida regionali per l’aborto con la Ru 486, quali e quanti sono i ginecologi toscani che le hanno redatte, su richiesta di chi lo hanno fatto, da chi sono state recepite e soprattutto se è possibile che una Regione, in totale indipendenza dal Servizio sanitario nazionale, possa legiferare sull’uso di un farmaco non autorizzato. D’altra parte, chiariscono gli autori, «la Toscana ha una lunga storia di disaccordo con le regole nazionali».
I nemici della pillola sono indicati con chiarezza: il Vaticano e Berlusconi. Nell’articolo (un articolo che dovrebbe essere di carattere tecnico-scientifico) si cita il cardinale Barragan, e si spiega che «per guadagnare il voto cattolico il Ministro della Salute del governo Berlusconi ha reso più complicate tutte le procedure per importare il mifepristone e ha bloccato una sperimentazione già approvata a Torino, perché presumibilmente voleva salvaguardare la salute delle donne coinvolte. [...] ha anche minacciato ispezioni e controlli per verificare la correttezza delle nuove procedure».
Effettivamente, di solito sono gli ispettori ministeriali a ispezionare e controllare che le procedure vengano seguite correttamente, e non sapremmo chi altri dovrebbe farlo. Lo fanno, «presumibilmente», perché il compito di quel ministero è proprio tutelare la salute dei cittadini.
Ma invocando Berlusconi e il Vaticano tutto è già chiarito, anche nelle riviste scientifiche, e deve essere parso inutile a Banfi e colleghi entrare nei dettagli della faccenda: era superfluo spiegare che l’ispezione è avvenuta perché una donna aveva espulso l’embrione fuori dall’ospedale, e che questo è vietato dalla legge italiana; appariva un elemento secondario l’esistenza di un’indagine della magistratura, tuttora in corso; si potevano ritenere del tutto irrilevanti i pareri espressi dal Consiglio superiore di sanità sul fatto che l’interruzione di gravidanza debba essere praticata nella struttura sanitaria pubblica «fino a completamento dell’aborto e di tutte le cure del caso».
Sarebbe interessante spiegare ai lettori della Pharmacy World and Science che è stato proprio un ministro del governo precedente a consentire la sperimentazione all’ospedale torinese Sant’Anna, mentre è stata una giunta di centrosinistra a sospenderla definitivamente. Il dato è significativo: quelli che hanno deciso che con la sperimentazione, nonostante fosse quasi arrivata al termine, era meglio chiudere alla svelta, erano gli stessi che fino a pochi mesi prima la sostenevano strenuamente. È chiaro che l’assessore piemontese alla Sanità Mario Valpreda, di Rifondazione comunista, a un certo punto ha cambiato idea e ha preso improvvisamente sul serio le obiezioni avanzate dagli ispettori della farmacovigilanza. Ma sulle motivazioni che hanno portato a questa decisione, è calata una cortina di silenzio.
Gli autori dell’articolo avvisano che «gli ispettori sanitari riferiscono che in Italia il mifepristone è già disponibile al mercato nero e in ambulatori medici illegali». Siamo di fronte a una novità. Non conoscevamo gli allarmi lanciati dal Ministero sul mercato illegale di mifepristone, né ci eravamo accorti fosse tanto fiorente. Nell’articolo si insiste invece sulla pretesa sicurezza del metodo chimico, definito ancora come meno invasivo e meno doloroso, quando ormai persino chi, come il dottor Massimo Srebot di Pontedera, sosteneva queste tesi un anno fa, oggi mette le mani avanti e ammette che non è tutto rose e fiori.
In compenso, non c’è neanche una parola sulle 14 morti che si sono verificate nel mondo occidentale a seguito dell’assunzione della Ru 486; niente sulla percentuale di mortalità per aborto chimico dieci volte maggiore di quella per aborto chirurgico, niente di niente sulle infezioni mortali da Clostridium sordellii. Si continua a dire che il metodo chimico è stato già largamente sperimentato, e che la paura è solo effetto di una cattiva informazione. Le morti, e il misterioso rapporto della Ru 486 con il Clostridium, non appaiono motivo sufficiente per indagare ancora. Ma tutto questo non è una novità. Già al convegno tenuto nell’ottobre scorso a Roma dalla Fiapac, la Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione, avevamo registrato la stessa censura. I lavori del convegno, sponsorizzato dalla ditta che distribuisce la pillola abortiva, si erano aperti con il saluto ufficiale del ministro Emma Bonino, mentre il ministro della Sanità, Livia Turco, aveva mandato Maura Cossutta a rappresentarla. Durante l’incontro era venuta fuori la storia di un ennesimo caso di morte, riferito da un medico nel corso di un dibattito. Abbiamo atteso invano che i responsabili della Fiapac comunicassero il fatto alla stampa. La notizia è rimasta confinata tra gli addetti ai lavori, che evidentemente non ritenevano fosse necessario farla arrivare all’opinione pubblica.
http://www.avvenireonline.it/Vita/Ar...s/20070315.htm
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Allucinante!!