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  1. #1
    CON LA RESISTENZA!
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    "Il Ribelle è deciso ad opporre Resistenza. Il suo intento è dare battaglia, sia pure disperata"
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    Predefinito Come in guerra (di Massimo Fini)

    DI MASSIMO FINI
    Il Gazzettino

    Un classico scambio di prigionieri come in guerra













    Le modalità del rilascio di Daniele Mastrogiacomo dimostrano ciò che vado sostenendo da tempo. Che si può pensare ciò che si vuole del movimento talebano ma non si può considerarlo né un movimento banditesco né terrorista. Quando hanno fermato il giornalista italiano, l’interprete e l’autista lo hanno definito un “arresto”, perché i tre, secondo la loro prospettiva si erano introdotti illegalmente nel territorio da loro controllato. L’autista era una spia perché, in una situazione analoga quando aveva accompagnato un giornalista per un’intervista a un comandante talebano, aveva fornito agli inglesi le coordinate del luogo dove si trovava consentendogli di catturarlo.

    E l'hanno giustiziato come si fa, in guerra, con le spie. Accertato invece che né Mastrogiacomo né l'interprete erano spie non hanno richiesto denaro o «aiuti umanitari» ma uno scambio di prigionieri. Come si fa in guerra. Mastrogiacomo l'hanno trattato duramente, a causa delle condizioni difficilissime in cui si trovano ad operare (sono settimane che la Nato sta bombardando il sud dell'Afghanistan) ma con correttezza e, come avevano fatto con una giornalista inglese durante l'attacco americano del 2001, l'hanno restituito fisicamente integro.

    Del resto non si capisce da dove derivi questa bolla di infamia di movimento terrorista affibbiata ai Talebani. Non c'era un solo afgano nei commandos che attaccarono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non un solo afgano è stato trovato in seguito nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda. Ci sono arabi sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, tunisini, marocchini, ma non afgani. La pratica terrorista è estranea alla cultura e alla tradizione afgana e quindi talebana. Non si registra un solo atto di questo tipo, tantomeno kamikaze, durante i dieci anni di pur impari conflitto con gli invasori sovietici. E se dagli inizi del 2006 anche la guerriglia talebana ha cominciato a far uso di terrorismo - niente comunque in confronto con quanto avviene in Iraq - è per due ragioni sostanziali.

    1) Cinque anni di presenza occidentale in Afghanistan hanno inquinato la loro cultura più di quanto avessero fatto i sovietici in dieci.
    2) L'esasperazione e la frustrazione di dover battersi con combattenti che non combattono, ma con macchine, con aerei come i Predator e i Dardo americani, che non hanno equipaggio ma missili micidiali, i cui piloti, copiloti e puntatori stanno comodamente seduti a una consolle, manovrando il tutto da Nellis nel Nevada. Nonostante questo, si sa che cè un forte contrasto fra il mullah Omar, il leader carismatico del movimento, che è contrario, in armonia con la cultura afgana, ad attacchi terroristici che «colpiscano anche civili innocenti», e uomini come Dadullah che, agendo sul campo, possono vantare l'efficacia di simili metodi (e sono abbastanza convinto che se Mastrogiacomo ne è uscito indenne è perché il canale di Gino Strada era Omar che durante gli anni in cui era al potere lasciò lavorare liberamente Emergency).

    La colpa dei Talebani è di essersi trovati in casa, al momento dell'attacco alle Torri Gemelle, Bin Laden, questo ricchissimo e ambiguissimo arabo saudita che proprio gli americani avevano piazzato da quelle parti e foraggiato in funzione antisovietica. Ma Bin Laden era un problema anche per loro. Tanto è vero che quando Bill Clinton propose ai Talebani di ucciderlo si mostrarono disponibili. Il braccio destro del mullah Wakij, si incontrò due volte segretamente col presidente americano, il 28 novembre e il 18 dicembre 1988, e gli propose di fornirgli le coordinate esatte del luogo dove si trovava Bin Laden perché potessero colpirlo. Ma la responsabilità, spiegò Wakij, dovevano assumersela per intero gli americani, lasciando fuori il governo di Kabul, perché Osama in Afghanistan aveva costruito ospedali, scuole, strade, ponti, godeva quindi di grande prestigio presso la popolazione che non avrebbe accettato un suo assassinio per mano talebana. Ma inspiegabilmente Clinton, che pur aveva preso l'iniziativa, all'ultimo momento rinunciò.

    In ogni caso sono passati sei anni e Bin Laden non è stato preso e non è più possibile sostenere che gli americani e i loro alleati sono ancora in Afghanistan per dargli la caccia. Sono truppe di occupazione. Così almeno le considera l'88% dei maschi afgani interpellati dal britannico Senlis, uno dei più importanti centri studi di politica internazionale. Né è lecito dire che, Bin Laden o no, stiamo facendo la guerra ad Al Quaeda. Secondo lo stesso Senlis «nel movimento insurrezionale afgano... Al Quaeda non riveste un ruolo significativo».

    Adesso emergono anche sui media occidentali, sia pur timidamente, le ragioni per cui a suo tempo i Talebani si affermarono in Afghanistan e perché ottennero l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Perché tagliarono le unghie ai «signori della guerra» che, dopo dieci anni di conflitto con i sovietici, erano diventati più feroci che mai e vessavano la popolazione, taglieggiando, rubando, rapinando, ammazzando, stuprando. Talebani riportarono la legge e l'ordine, sia pure una dura legge e un duro ordine, nel Paese. Cosa che cercano di fare anche ora nelle zone da loro controllate impedendo gli arbitri della corrottissima polizia afgana (formata peraltro da poveracci che hanno accettato questo pericolosissimo ingaggio per potersi sfamare). Ma questo punto non è più nemmeno una questione talebana, con tutta evidenza è la rivolta di un popolo fiero e orgoglioso che non ha mai accettato occupazioni di stranieri, che li ha sempre cacciati come fece con gli inglesi e, recentemente, con gli invasori sovietici. Non è più una guerra talebana, è una guerra di popolo, dove ai Talebani si mischiano coloro che talebani non sono mai stati. Questa è la realtà. Continuare cocciutamente a ignorarla è un errore che ci potrebbe costare caro.

    Massimo Fini (http://www.massimofini.it.)
    Fonte: http://www.ilgazzettino.it
    http://www.comedonchisciotte.org/

  2. #2
    CON LA RESISTENZA!
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    Predefinito I talebani non sono terroristi (di Massimo Fini)

    DI MASSIMO FINI
    (Articolo non pubblicato)




    Sul Corriere della Sera dell’11/3 Angelo Panebianco ha scritto, papale papale: “Quella che, ancora poche settimane fa, si poteva presentare agli italiani, in un modo quasi rassicurante, come una “missione di pace e di ricostruzione dell’Afghanistan”, si mostra per ciò che di fatto è diventata: una missione di guerra”.

    Ora, questo è in patente e clamoroso contrasto con la nostra Costituzione che all’articolo 11 proclama solennemente: “L’Italia ha ripudiato la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Panebianco (e tutti quelli che la pensano come lui) si copre affermando che la missione è “benedetta dall’Onu”. E qui ci sono da fare due osservazioni. Una è formale. Nessuna risoluzione Onu può superare un articolo della Costituzione italiana. La seconda è sostanziale. Non si può infischiarsene dell’Onu quando fa comodo e richiamarsi alla sua autorità quando fa altrettanto comodo. L’attacco della Nato alla Jugoslavia del 1999, cui partecipammo anche noi (governo D’Alema) avvenne contro la volontà dell’Onu e in spregio del principio di diritto internazionale, fino ad allora mai messo in discussione da nessuno, della non ingerenza degli affari interni di uno Stato sovrano. E così è stato in Iraq. Spiace dirlo, ma sono stati proprio gli Stati Uniti a distruggere ogni autorità e credibilità dell’Onu.

    Panebianco afferma che un ritiro delle truppe occidentali, e quindi un successo dei Talebani, significherebbe darla vinta al terrorismo. Si può pensare quello che si vuole dei Talebani, gli ‘studenti delle Madrasse’, ma in nessun modo si può scambiare il loro movimento con un movimento terrorista. Ebbero il merito di sconfiggere i ‘signori della guerra’ che, dopo la sconfitta sovietica, spadroneggiavano in Afghanistan, ammazzando, taglieggiando, rapinando, rubando, stuprando, e di riportare la legge e l’ordine, sia pure una dura legge e un duro ordine, nel Paese. Ed ebbero l’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione che non ne poteva più delle prepotenze e della violenza del tutto arbitrale e senza legge (la Salaria è almeno una legge e uno può regolarsi) dei ‘signori della guerra’ molti dei quali oggi siedono nel governo Garzai che è alle dirette dipendenze dell’Amministrazione americana come tutti sanno e come è stato ammesso dallo stesso Garzai in un’intervista al “The New Yorker” del luglio 2005.

    Non c’era un solo afgano nei commandos che attaccarono le Torri Gemelle, e non è stato trovato un solo afgano nelle cellule, vere o presunte, da Al Quaeda. Gli afgani, talebani o no, sono dei guerrieri, crudeli e feroci anche, ma alla loro cultura è estraneo il terrorismo, tanto più quello kamikaze. Nei dieci anni di guerra contro l’Unione Sovietica, pur in una lotta impari, non si è registrato un solo atto di terrorismo, né dentro l’Afghanistan né fuori. E se dal 2006 hanno cominciato anche loro ad utilizzare questi mezzi arabi, ‘iracheni’, è per l’esasperazione e la frustrazione di trovarsi davanti combattenti che non combattono, ma macchine, come gli aerei Predator e Dardo muniti di micidiali missili ma senza equipaggio perché pilota, copilota e bombardiere se ne stanno comodamente seduti davanti ad una consolle a Nellis nel Nevada. Peraltro questi atti, se si raffronta la situazione afgana con quella irachena, sono ancora sporadici perché il mullah Omar è contrario ad attacchi “che colpiscono innocenti” (sono parole sue) e ha già degradato una volta Dudullah per esservi ricorso, così come rinunciò a colpire i seggi durante le elezoni-farsa del 1° settembre 2005 perché, come fece dire ad un suo portavoce, “il rischio di colpire civili è troppo alto”. Poi le esigenze della guerra contro forze occupanti così superiormente armate hanno preso il sopravvento (il settore dove i Talebani hanno riscosso il maggior successo è proprio quello comandato da Dudullah).

    La colpa dei Talebani è di essersi trovati in casa, al momento dell’attacco alle Torri Gemelle, Bin Laden, che peraltro era stato messo lì e foraggiato dagli americani in funzione antisovietica. Ma questo ricchissimo ed ambiguissimo califfo saudita era un problema anche per loro. Tanto è vero che quando Bill Clinton propose ai Talebani di ucciderlo si dimostrarono disponibili. Il braccio destro di Omar, Wakij Ahmed, incontrò segretamente due volte, il 28 novembre e il 18 dicembre del 1998, Bill Clinton e gli propose di fornirgli le coordinate esatte del luogo dove si trovava Bin Laden. Ma la responsabilità, spiegò Wikij, dovevano assumersela gli americani, lasciando fuori il governo di Kabul, perché Osama aveva costruito ospedali, scuole, strade, ponti, godeva quindi di grande prestigio fra la popolazione che non avrebbe accettato la sua uccisione per mano talebana. Ma all’ultimo momento Clinton, che pur aveva preso l’iniziativa, rinunciò. In ogni caso sono passati sei anni, Bin Laden non è stato preso, e non è più decente dire che gli americani e i loro alleati sono ancora in Afghanistan per dargli la caccia. Sono truppe di occupazione, così li considera l’88% dei maschi afgani interpellati dal britannico Senlis, uno dei più importanti centri studi di politica internazionale. Né è lecito dire che, Bin Laden o no, stiamo facendo la guerra ad Al Quaeda. Secondo lo stesso Senlis “nel movimento insurrezionale afgano…Al Quaeda non riveste un ruolo significativo”. E non è più nemmeno una questione talebana, ma è la rivolta di un popolo fiero ed orgoglioso che non ha mai accettato occupazioni di stranieri, che li ha sempre cacciati come fece con gli inglesi e, recentemente, con gli invasori sovietici. Non è più una guerra talebana, è una guerra di popolo, dove i Talebani si mischiano a coloro che talebani non sono mai stati. Questo è quello che abbiamo ottenuto dopo sei anni di un’occupazione non meno vergognosa di quella sovietica: far diventare talebano anche chi talebano non lo è mai stato ed anzi i Talebani li detestava. Davvero una bella performance.

    E noi italiani, che abbiamo fatto della nostra Resistenza un mito, anche eccessivo per la verità, in nome di schemi mentali che sono nostri, di istituzioni che sono nostre, di una concezione della vita e della morte che è nostra, di un modo di concepire la famiglia e il ruolo che in essa vi ha la donna che è nostro, ma che non è loro, dovremmo far la guerra ad un popolo che lotta per la propria libertà dallo straniero quando la Costituzione scrive che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offeso alla libertà degli altri popoli”? Ma lasciamola stare, quella gente. Lasciamola stare.

    Massimo Fini
    Fonte: www.massimofini.it/


    (Articolo non pubblicato)

    http://www.comedonchisciotte.org/

  3. #3
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    Predefinito

    Bravo Massimo Fini!Lucido come sempre nelle sue considerazioni.Onore alla resistenza Afghana.

  4. #4
    legio_taurinensis
    Ospite

    Predefinito non c'entra ma io lo metto...a lupanera piacerà

    Chi cancella Israele?
    Maurizio Blondet
    22/01/2007
    Ehud Olmert

    Ricevo questo messaggio: «Caro direttore, secondo lei, quale sarebbe la conseguenza della distruzione dello Stato ebraico per il mondo occidentale e per il cristianesimo?
    Questa domanda che le faccio non vuole entrare nella polemica israelo/palestinese, ma vorrei da lei, che è un lungimirante, un’analisi su un’ipotesi di questo di questo tipo.
    La saluto. Gianni».
    Cosa curiosa, la stessa domanda mi è stata appena posta da un lettore ebreo di nome Levy, in una lunga lista di domande inquisitorie («Lei è antisemita?»): «Supponiamo che lo Stato di Israele venga cancellato. Dove dovrebbero andare secondo lei gli israeliani, dopo la sua distruzione?».
    O questa è una coincidenza, oppure la propaganda sta facendo il suo lavoro e sta ottenendo il suo effetto.
    Israele è in pericolo di essere «cancellato».
    Dunque, ha diritto di distruggere preventivamente i nemici che lo vogliono «cancellare».
    Altrimenti dove andrebbero gli ebrei?
    La mia risposta sarà per forza più complessa del semplicismo propagandistico, e in parte ripeterà cose già dette.
    Pazienza.
    Anzitutto, stiamo ai fatti: Israele è la seconda o terza potenza militare mondiale.
    Dispone di 300 testate nucleari (più della Cina) e dei missili intercontinentali in grado di spedirle in ogni parte del pianeta.
    Oltre a ciò, grazie a quattro sommergibili Made in Germany in navigazione permanente e armati con missili a testata atomica, Israele è in grado di assestare il «secondo colpo» nucleare.
    Più precisamente, se uno Stato fosse così folle da lanciare una bomba atomica su Israele incenerendola, i sommergibili, sopravvissuti all’olocausto nucleare, punirebbero quel nemico azzerandolo.
    Questo «secondo colpo» è la massima garanzia di deterrenza di cui si abbiamo esperienza nella storia.
    E’ il principio «MAD» (Mutua Distruzione Assicurata) grazie al quale l’Europa ha vissuto oltre mezzo secolo di pace armata e nucleare fra USA ed URSS.
    Entrambe le superpotenze sapevano che un attacco nucleare a sorpresa avrebbe avuto come conseguenza, in ogni caso, la propria distruzione; nessuna «vittoria» di qualche significato sarebbe stata possibile sotto la MAD.
    Un genio strategico sovietico, il maresciallo Ogarkov, dedicò la vita a come «sferrare e vincere una guerra nucleare», ma non riuscì mai a proporre una soluzione che garantisse ai capi del Cremlino la sopravvivenza dell’URSS.

    Se non bastasse, il super-armato Israele ha il completo appoggio dell’ultima superpotenza rimasta, gli Stati Uniti.
    Ed ha anche l’appoggio della NATO e quello ufficiale di tutti i Paesi europei.
    Io dico che nessuno Stato, nessun Paese al mondo, dispone di una sicurezza tale contro la «cancellazione».
    E’ la massima sicurezza umanamente possibile nel mondo reale, dove tutto è incerto e dove un margine di rischio esiste sempre.
    La Francia, con molte meno bombe atomiche, si sente abbastanza sicura.
    L’Europa ha vissuto «sicura» sotto la spada di Damocle della guerra atomica, e ciò per mezzo secolo.
    Molti Paesi disarmati vivono sicuri, garantiti da alleanze enormemente meno solide di quella fra Israele e USA.
    Perché solo Israele non si sente mai sicuro?
    Perché grida che l’Iran lo vuole «cancellare» con una bomba atomica che, per giunta, non ha ancora?
    A questa domanda si possono dare più risposte, tutte plausibili.
    Una la può dare Freud, che parlerebbe di «proiezione inconscia»: attribuire agli altri le intenzioni che noi stessi nutriamo verso gli altri.
    La seconda: ad Israele non basta essere umanamente sicuro.
    Vuole essere sicuro in modo «sovrumano», ossia divino.
    Non vuole la sicurezza, ma l’invulnerabilità intangibile che è propria di Dio (e a cui Dio ha rinunciato, secondo noi cristiani, mandando il Suo Figlio sulla croce).
    Forse perché nella comunità ebraica si vive non già come una parte dell’umanità, soggetta ai rischi e agli imprevisti della comune umanità; si vive come Dio - il dio di se stesso - e si pretende la sovrumana invulnerabilità divina.
    Se questa tesi sembra paradossale e incredibile, si guardino gli atti: Israele viola continuamente la sovranità del Libano.
    Con ciò, esprime disprezzo per il principio di sovranità: vuole che la sola sovranità sia la sua, quella degli altri non conta nulla.
    Gli altri non hanno dignità né diritti.
    Non riconosce alcun diritto ai palestinesi, che si riserva il diritto di cannoneggiare a piacere, di opprimere con atrocità, e nelle cui case fa irruzione, e distruzione, a piacere.
    Questo non è solo un atteggiamento razzista, ma molto peggio, l’atteggiamento di un dio.

    Il messaggio è: «Noi non trattiamo con voi, perché voi siete nulla e noi tutto. La vita di un ebreo è di valore incomparabilmente superiore a quella di un non-ebreo. Non si tratta con vespe, formiche e insetti molesti, non si firmano con loro alleanze e accordi di pace: li si distrugge. Non accettiamo di aderire a condizioni che limitino, con trattati, il nostro potere».
    Insomma, vogliono la pace, ma «senza condizioni» da parte loro.
    Una pace assoluta, incondizionata, che si configura come dominio assoluto sui goym.
    Israele ha a lungo nascosto questa pretesa sovrumana sotto il vittimismo: siamo uno Stato piccolo, debole, indifeso e innocente, che tutti i vicini - chissà perché - vogliono distruggere.
    Israele non è né debole né innocente.
    E non da oggi.
    L’ebrea Livia Rokach, che fu sionista e che rigettò il sionismo dopo averne visto le trame in Israele (trasferendosi in Italia, dove fu uccisa da «ignoti») ha scritto nel suo «Israel Sacred Terrorism» cosa disse Moshe Dayan in un consiglio dei ministri dell’aprile 1955.
    Allora il presidente egiziano Nasser dichiarò che «la coesistenza con Israele è possibile». Washington colse l’occasione per proporre un accordo di pace complessivo, che comprendeva un «patto di sicurezza», ossia la protezione militare USA, con obblighi (ovviamente) reciproci.
    Dayan disse, testualmente: «Non abbiamo bisogno di un patto di sicurezza con gli USA. Un tale patto sarebbe solo un ostacolo per noi. Per i prossimi 8-10 anni, non abbiamo di fronte nessun pericolo dovuto ad un vantaggio di forze degli arabi. Anche se essi ricevono aiuti militari massicci dall’occidente (sic), noi manterremo la nostra superiorità militare grazie alla nostra capacità, infinitamente più grande, di integrare nuovi armamenti. Il patto di sicurezza ci legherebbe semplicemente le mani e ci negherebbe la libertà d’azione di cui avremo bisogno nei prossimi anni. Le azioni di rappresaglia, che non potremmo più attuare se legati ad un patto, sono la nostra linfa vitale. Esse ci rendono possibile mantenere un alto livello di tensione tra la nostra popolazione e nel nostro esercito».
    Conclusione: la risposta di Israele all’onesta offerta di Nasser fu la «operazione Gaza», un’incursione ebraica che colse di sorpresa e massacrò una quarantina di soldati egiziani.
    Così il patto fu cancellato.
    La cosa si è ripetuta infinite volte: ad ogni proposta di pace definitiva elevata da arabi, qualche provocazione israeliana o qualche «atto di terrorismo islamico» mandava tutto a monte.
    Ma le frasi di Dayan (le ha riportate Moshe Sharett, presente alla riunione, e per breve tempo primo ministro israeliano) sono molto significative per il nostro discorso.

    Dayan già sapeva, nel ‘55, che la superiorità militare di Israele era schiacciante.
    Che nessun pericolo reale veniva dal mondo arabo.
    Sapeva che Israele non sarebbe stato «cancellato».
    Sapeva che Israele non era debole, e nemmeno innocente.
    Sapeva che la pace non era ciò che serviva ad Israele.
    Ad Israele serviva continuare a fare «rappresaglie» (ossia incursioni in territorio altrui, giustificate come rappresaglia contro attacchi veri o presunti) per ampliare i propri confini.
    Ad Israele serviva, più di tutto, «mantenere un alto livello di tensione» fra la propria popolazione.
    Gli ebrei devono vivere sotto l’impressione di essere, da un momento all’altro, «cancellati».
    Ciò dà alla classe dirigente israeliana un dominio assoluto sul suo popolo: dobbiamo difendervi con ogni mezzo, altrimenti vi cancellano.
    Sharon è stato il genio di questa manovra: mettere Israele in pericolo per poi salvarla.
    Ciò comporta anche vantaggi ragguardevoli: finchè Israele «è in pericolo», la ricca Diaspora versa miliardi di dollari.
    Se Israele fosse in pace, Stato fra gli Stati, la mobilitazione del denaro ebraico si allenterebbe, si stancherebbe.
    Ma ciò, in fondo, non è che la replica di un meccanismo sperimentato nei secoli: state chiusi nel ghetto, obbedite ai rabbini, perché quelli di fuori vogliono cancellarvi.
    Ma ammettiamo, per pura ipotesi, la domanda dei lettori.
    Ammettiamo che Israele venga cancellato, dove andrebbero gli israeliani?
    In parte, la risposta là dà, inconsciamente, il lettore Levy.
    In altra parte della sua lettera, dice di essere vissuto 15 anni in Israele, ma di vivere ora in Italia. Perché mai?
    Non lo dice.
    Ma questo è il fatto: almeno un quarto, se non un terzo, della popolazione israeliana, ha doppia cittadinanza.
    Ha in tasca un doppio passaporto.
    Va ad abitare in Israele (per un po’) ma mantiene casa, interessi e vita a Parigi, Londra, Roma, New York.
    Israele è la patria, ma l’Europa o l’America è la casa per molti di loro.
    I due milioni di ebrei russi, che hanno rinunciato alla cittadinanza, vivono alla russa in Israele, parlano russo, stampano giornali russi, bevono vodka e si rodono di nostalgia per la Russia.
    Decine di migliaia di israeliani sono tornati ad abitare in Germania, dove hanno ripreso le migliori posizioni nei media e nella società, e dove si sentono a casa.

    Ora, è proprio questa situazione a «mettere in pericolo l’esistenza di Israele».
    Quando i palestinesi inaugurarono la tattica dell’attentato suicida, ben 700 mila israeliani se ne andarono.
    Per questo Sharon costruì il MURO, IL GHETTO CHE RENDE «SICURI» GLI ISRAELIANI.
    NESSUN ALTRO POPOLO HA QUESTO RIFLESSO, DI FRONTE AL TERRORISMO.
    GLI SPAGNOLI, DURANTE IL TERRORISMO BASCO, GLI ITALIANI DURANTE GLI ANNI DI PIOMBO DELLE BRIGATE ROSSE, NON SE NE ANDARONO DAL LORO PAESE.
    ERA IL LORO SOLO PAESE, DOVE POTEVANO ANDARE?
    PER GLI ISRAELIANI È DIVERSO, SANNO SEMPRE DOVE ANDARE. HANNO SEMPRE QUALCHE RADICE ALTROVE.
    COSA SIGNIFICA CIÒ? CIÒ RIVELA LA NATURA «ARTIFICIALE», IDEOLOGICA, DELLO STATO SIONISTA.
    E SI NOTI, QUESTO AVVENIVA ANCHE AI TEMPI DI ROMA, QUANDO ESISTEVA LO STATO D’ISRAELE.
    LA MAGGIOR PARTE DEGLI EBREI NON ABITAVANO LÌ, ATTORNO AL LORO TEMPIO, MA ALL’ESTERO. SOLO AD ALESSANDRIA D’EGITTO ABITAVANO PIÙ EBREI CHE IN TUTTA LA PALESTINA.
    Israele è una «patria» per cui si può uccidere, ma non un posto dove veramente si voglia vivere. Bisogna, per questo, che gli ebrei sentano Israele «in pericolo», ma tuttavia non tanto in pericolo da spingere quelli con doppio passaporto a squagliarsela.
    Bisogna continuamente dire (come dice la classe dirigente) che, se se ne tornano in Europa, i goym faranno un altro olocausto, un altro pogrom.
    Ancora una volta, Freud potrebbe spiegare questa permanente insicurezza e paura.
    Non si è sicuri se si vive nell’ambiguità, se non ci si confessa, almeno a se stessi, che non si è sicuri se essere europei o medio-orientali.
    Si è insicuri perché si vive in una speciE di inconfessata, radicale menzogna sulla propria identità, sulla propria presunta «elezione».
    Allora si proietta sugli «altri» la propria ambivalenza, la propria incertezza sull’esistere, sul come e in quanto «chi» esistere.
    Me lo rivela, senza saperlo, il lettore Levy.
    Il quale mi pone domande inquisitorie, che rivelano la più profonda ignoranza del modo di esistere e di pensare degli altri.
    Mi chiede ad esempio: «Secondo lei, gli ebrei dovrebbero convertirsi tutti al cristianesimo?».
    E’ ovvio che questo è un fantasma di paura: volete convertirci «tutti», dunque inglobarci, farci perdere la nostra identità.
    Io ho risposto al lettore: «Mi basterebbe che gli ebrei non continuassero a chiamare i goym ‘animali parlanti’, come siamo ripetutamente chiamati nel Talmud, e non insegnassero questo ai loro figli, nelle loro yeshivot (scuole rabbiniche)».

    Perché è questa la «cultura» ebraica: l’insegnamento dell’odio, del disprezzo e perciò della paura verso i goym.
    Si legga i testi dei Lubavitcher, i più espliciti.
    Dicono che è lecito strappare il fegato di un goy e trapiantarlo a un ebreo, se questo è in pericolo di vita, perché «la creazione intera esiste per il bene degli ebrei».
    Commentava Shahak: questo è nazismo allo stato puro.
    Dipende da Dio se gli ebrei si convertiranno a Cristo.
    Ma noi, come comunità politica internazionale, abbiamo il diritto di esigere che si convertano alla comune umanità.
    Che riconoscano nell’altro un uguale, con gli stessi diritti che loro pretendono per sé, e la stessa dignità.
    Altra domanda incredibile del lettore Levy: «Che cosa possiamo fare noi ebrei per il bene del mondo?».
    Per carità, abbiate pietà!
    Non cercate di fare il bene del mondo, abbiamo già visto il vostro bene!
    La domanda è rivelatrice in sé.
    I cinesi non si domandano cosa possono fare «per il bene del mondo», né se lo chiedono i francesi e gli italiani.
    I popoli autentici, non ideologici e non artificiali, si limitano a vivere nel mondo, cercando di assicurarsi una relativa sicurezza impegnandosi con trattati.
    A chiedersi attivamente cosa fare ancora per «il bene del mondo» sono gli ideologi di ideologie feroci: i comunisti sovietici, oggi i fondamentalisti messianici americani.
    Vogliono a tutti i costi farci del «bene», portare «la democrazia», il «mercato», la «libertà».
    Gli individui sì, devono chiedersi, ciascuno per sé, cosa possano fare di bene, come migliorare il mondo.
    Non i popoli in quanto tali.
    Un popolo che si domanda - o fa finta di domandarsi - cosa deve fare per il bene del mondo, è un popolo che si crede divino, che si crede Dio.
    No, caro lettore, cari ebrei.
    Vi chiediamo molto meno.
    Non di fare, come Dio, «il bene del mondo», ma semplicemente di non fare troppo male.
    Di non opprimere e affamare i palestinesi.
    Di non soffocare nel sangue e nella fame le loro speranze.
    Di non porre loro, ogni volta che accedono alle condizioni da voi dettate, sempre nuove condizioni: questo non è «bene», è slealtà e menzogna.
    Ci accontenteremmo che voi, dopo aver distrutto il Libano dalle fondamenta in 30 giorni con le vostre bombe, non continuaste a violarne ogni giorno - come denuncia l’ONU - lo spazio aereo, ossia la sovranità.
    Anche gli altri, nella civiltà, hanno diritto alla sovranità.

    Ci sarebbe piaciuto che la vostra lobby non avesse spinto la superpotenza USA a «fare il bene» degli iracheni, ammazzandone 650 mila e rendendone profughi oltre due milioni.
    Ci basterebbe che non esigeste oggi dagli americani che inceneriscano l’Iran, una nazione che non vi minaccia realmente, che non ha mai aggredito ma che è se mai stata aggredita da un Saddam Hussein su istigazione USA.
    Vi chiediamo di fare pace con condizioni oneste, che altri possano accettare senza eccessiva umiliazione.
    Anche per il vostro bene: perché una pace fondata sul dominio e sulla forza assoluta, non consente mai di dormire tranquilli.
    Specie se si dorme in case rubate, su terre che non vi appartengono, su letti strappati ad altri. Nonostante tutta la forza, si viene visitati da brutti sogni.
    Il vostro Freud può spiegarvi, ancora una volta, il motivo dei vostri sonni agitati, dei vostri fantasmi di essere «cancellati».
    No, per favore, non fate il nostro bene.
    Non siete Dio.
    Soprattutto, non siete il nostro Dio.

    Maurizio Blondet


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  5. #5
    Bart Colleoni
    Ospite

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    Massimo Fini come ogni volta propone articoli basati il meno possibile su ipotesi,ed ogni volta mi dà qualcosa che altrimenti non credo riuscirei a ricevere...per quanto riguarda MZ avevo letto un comunicato tempo fà in cui sospendeva i propri lavori ora mi pare stia ripendendo con forza...qualcuno ne sà qualcosa in più?

  6. #6
    Omia Patria si bella e perduta
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    Massimo Fini è un giornalista serio e intelligente......spesso non condivido quello che scrive, ma in questo caso concordo in pieno.

  7. #7
    legio_taurinensis
    Ospite

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    Molto meglio Blondet

  8. #8
    Bart Colleoni
    Ospite

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    Citazione Originariamente Scritto da Emiliano Visualizza Messaggio
    Molto meglio Blondet
    si un Ultrà Blondet?Comprensibile anche a me piace molto....dal mio punto di vista però sto provando un innegabile fascinazione per il suo manifesto e ciò che MZ potrebbe rappresentare per me...

  9. #9
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    MOVIMENTO ZERO si sta riorganizzando e a proposito fa un assemblea questa domenica a Milano, se vuoi iscriverti e organizzare un tuo gruppo nella tua citta' scrivi a andrea marcon email kalleforever@hotmail.com sta anche lui al nord

  10. #10
    Bart Colleoni
    Ospite

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    Citazione Originariamente Scritto da ANSUZ Visualizza Messaggio
    MOVIMENTO ZERO si sta riorganizzando e a proposito fa un assemblea questa domenica a Milano, se vuoi iscriverti e organizzare un tuo gruppo nella tua citta' scrivi a andrea marcon email kalleforever@hotmail.com sta anche lui al nord
    grazie per l'indirizzo lo farò sicuramente ho visto anche la riunione di domenica...per impegni precedenti non riuscirò ad essere presente a tuta la riunione spero di riuscire ad arrivare in tempo almeno per la fine....

 

 
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