Promemoria per D’Alema
Maurizio Blondet
24/03/2007

Dunque a quanto pare D’Alema, per salvare Mastrogiacomo, s’è impegnato con gli americani a far ammazzare alquanti nostri soldati, gettandoli nella guerra anglo-americana che si combatte in Afghanistan.
Sarà bene capire quanto sono contenti gli afghani di sei anni di occupazione occidentale, giustificata col fatto che dovevamo portare loro la libertà (dal chador), la democrazia e la ricostruzione economica.
Nella «ricostruzione» sono impegnati 37 Paesi che pagano ben duemila organizzazioni non governative (ONG), andate lì a insegnare a vivere agli afghani nella modernità, a spese di noi contribuenti occidentali.
Per esempio la nostra Cooperazione Italiana, emanazione del governo, sta insegnando agli afghani qualcosa che noi stessi non abbiamo ancora imparato: come creare un sistema giudiziario basato sul diritto, e la formazione di magistrati onesti.
In generale, le ONG sono emanazioni di governi o peggio, di servizi segreti o di lobby (come le fondazioni pagate da George Soros).
Esse amano presentarsi come il meglio dell’Occidente, il nostro volto altruistico e civilmente superiore.
Come ho potuto constatare di persona a Kabul, il solo effetto delle ONG e delle sue migliaia di dipendenti strapagati (12 mila dollari mensili è la norma) hanno avuto un effetto immediato: il rincaro degli alloggi, in affitto o in proprietà, a livelli inarrivabili per la popolazione locale che ha un reddito inferiore a 400 dollari l’anno.
Ciò perché, dopo 25 anni di guerra, gli scarsi alloggi decenti, o anche solo non bombardati, sono stati accaparrati e occupati dai ricchi benefattori-insegnanti della civiltà.
Avevo già notato qualcosa del genere in Nicaragua.
Là, Paese «socialista», erano accorse diverse migliaia di ONG della sinistra europea per fare assistenza allo sviluppo.
Ricordo i giovani addetti di una ONG italiana (assistenti sociali o maestre elementari che guadagnavano punteggi con la trasferta all’estero): abitavano insieme in una splendida villa di Managua, con incredibile patio colonnato.
Cosa facevano lì?
«Corsi di auto-stima ai bambini di strada», mi spiegò una nostra cosiddetta volontaria a 12 mila dollari-mese.
I «ninos da rua», specialmente le bambine dodicenni costrette a prostituirsi o soggette a stupri, non hanno abbastanza «auto-stima».
L’autostima era ciò che loro occorreva di più, non sottrarle alla prostituzione e alla fame; e questa i nostri italiani fornivano generosamente.
Il Nicaragua è tuttora il Paese più povero dell’America Latina.

Mi sono fatto questa strana idea: che la sua povertà invincibile sia in rapporto diretto con l’enorme quantità di ONG che lo «assistono».
L’idea deve essere albeggiata anche nella testa di quell’ex ministro afghano che, in colloquio con il giornalista Arnaud De Borchgrave, gli ha detto: «Questi [assistenti occidentali allo sviluppo] passano più di metà del loro tempo in riunioni, per coordinarsi tra loro. Noi abbiamo un detto: gli occidentali ci hanno insegnato il tango. Un passo avanti e tre indietro». (1)
C’è persino chi rimpiange i sovietici: «Almeno loro hanno fatto dighe, strade e case popolari» (verissimo, l’ho visto coi miei occhi).
L’Occidente fa solo riunioni di coordinamento.
L’Afghanistan ha trenta milioni di abitanti.
Di cui il 60 % ha meno di 20 anni e, naturalmente, nemmeno la più pallida idea di cosa sia la democrazia (ma non pare che noi ne abbiamo un’idea più chiara: altrimenti non ci terremmo Emilio Colombo e Mastella).
Il benefici portati dalle ONG non devono parere evidenti agli abitanti dei sobborghi shiiti di Kabul, dove abitano gli hazara.
Nel 2001, prima della liberazione dal chador, vi abitavano 400 mila persone.
Oggi sono due milioni, ammassati in casette di fango secco: e gli americani sospettano (ma guarda…) che quella folla immensa e senza mezzi, spesso profuga, sia «controllata da agenti iraniani».
Gli afghani che hanno voglia di parlare con gli esseri superiori occidentali vi racconteranno che circa 250 mila ettari di terreni pubblici sono stati accaparrati dai burocrati del corrotto governicchio Karzai e venduti a profitto.
Terreni che servivano per alloggiare quei milioni di profughi.
E’ il mercato, ragazzi.
Non che il concetto di «mercato» sia ignoto in Asia.
«Se esistesse un premio internazionale per la più perfetta catena di distribuzione, andrebbe al nostro mercato dell’oppio», ha detto l’ex ministro.
Venticinque capi-mafia controllano dall’alto in basso questa sola industria del Paese, che genera i due terzi del PIL afghano.
«Il ministro dell’Interno è praticamente comprato dall’industria dell’oppio».
Nella provincia di Helmand, da cui viene il 40 % dell’oppio, i talebani proteggono i contadini dagli occidentali che vogliono eradicare il papavero; e ricavano milioni di dollari dal loro servizio.
Sono gli stessi talebani che eradicarono l’oppio, prima che gli USA li bollassero come terroristi e rovesciassero il loro regime a suon di bombardamenti.

Molte ONG dicono di fornire i servizi che il governo, o gli accordi fra Karzai e i Paesi stranieri, trascurano o non sono in grado di dare.
Ma siccome il lavoro di «assistenza allo sviluppo» nelle province è diventato pericoloso, i volontari occidentali se ne restano nelle principali città, nelle belle case affittate anche a cento dollari al giorno, e pagano dipendenti locali per il lavoro sul campo.
Intanto gli anglo-americani e la NATO provvedono alla pacificazione.
Come?
Tra giugno e novembre 2006 hanno eseguito 2.100 bombardamenti aerei, 18 al giorno, contro Talebani e case e abitazioni in genere: dopo sei anni d’occupazione, siamo ancora al bombardamento della popolazione civile (è il metodo israeliano, ottimamente sperimentato a Gaza, un modello per gli USA).
Ma gli attacchi aerei non fanno nemmeno più paura, si dispiace De Borchgrave.
Cosa volete, in sei anni di liberazione, ci si abitua.
O forse ci hanno preso le misure, hanno perfetta conoscenza del nostro pressapochismo militare e del nostro cretinismo tattico e strategico.
«Il favore della popolazione constatato nei primi giorni della liberazione è svanito», nota ancora De Borchgrave.
Chissà perché, con tutto il bene che gli stiamo facendo coi B-52.
Il Center for Strategic and International Studies, emanazione CIA che agisce là come ONG umanitaria, ha cercato di capire il motivo di tanta freddezza.
L’ha fatto scientificamente, da vero avamposto occidentale, con oltre mille interviste in 34 province, approfonditi colloqui con 200 esperti, 13 sondaggi e riunioni di «focus group» e interpellando 182 altre ONG.
Si può immaginare quanto sia costato questo lavoro.
Ma i risultati sono sorprendenti, inimmaginabili.
Eccoli:
1) «Gli afghani perdono fiducia nel loro governo (sarebbe Karzai l’americano) a causa del crescere della violenza».
2) «Le attese del pubblico non sono esaudite e nemmeno gestite».
3) «Le condizioni sono peggiorate in tutte le aree scelte come modelli per lo sviluppo».
E magari voi, presuntuosi, state pensando che potevate fare personalmente le stesse scoperte praticamente gratis, guardando la BBC.
De Borchgrave conclude, lapalissiano: «Oggi, la situazione complessiva è infinitamente più complicata di quando l’Afghanistan fu liberato nel 2001. ‘Mantenere la rotta’ [è la frase di Bush, «stay the corse»] non ha alcun senso nell’Afghanistan odierno, che richiederebbe massicce infusioni di aiuti esteri e uno sforzo di decine di anni, il che richiederebbe più truppe NATO (oggi sono 20 mila) e miliardi di dollari per un futuro incalcolabile».

Solo soppiantare l’industria dell’oppio, da cui i due terzi degli Afghani ricavano il loro solo sostentamento, costerebbe 8 miliardi di dollari.
Questo è l’Afghanistan in cui D’Alema, per salvare il Mastro di giornale «amico», ha impegnato i nostri soldati in combattimenti imminenti.
Edmund Williams, che fu ambasciatore a Kabul sotto il regime filo-sovietico, ricorda che la vita sotto l’URSS non era, per gli afghani, in nulla diversa da oggi sotto gli occidentali liberatori.
Anche allora c’era il coprifuoco notturno.
Anche allora i cieli di Kabul pullulavano di elicotteri e MIG, perché anche i russi non avevano il controllo del territorio e delle strade, e combattevano dall’alto.
Anche il presidente comunista di allora, Najibullah, quando doveva prendere un aereo, ordinava la chiusura del traffico per ore, come fa oggi Karzai.
Sono esattamente i segni premonitori della sconfitta che attendeva i sovietici. (2)
E noi italiani non abbiamo nemmeno elicotteri nostri (dobbiamo pietire passaggi agli americani), né corazzati, né artiglieria pesante: come portarla lì, in un Paese senza sbocchi al mare?
Il già citato CSIS, con la sua costosa indagine, ha scoperto che l’esercito afghano che obbedisce (si fa per dire) a Karzai «non è un vero esercito nazionale: le diserzioni aumentano drammaticamente quando i soldati sono mandati a battersi fuori delle aree dove abitano le loro famiglie» e i loro gruppi etnici.
Esattamente come il cosiddetto nuovo esercito iracheno, di cui non ci se ne può fidare per combattere i talebani e gli altri connazionali, sotto comando del potere d’occupazione infedele.
Che tremendi selvaggi!
Il CSIS consiglia di togliere al governo i fondi per lo sviluppo, e di distribuirne almeno la metà direttamente nelle 34 province, in assistenza diretta, attraverso la rete Hawala.
Come si sa, l’Hawala è il secolare metodo islamico di trasferimento di denaro, attraverso accordi verbali tra due persone che si conoscono personalmente e si fidano l’uno dell’altro, in una catena di rapporti personali che scavalca le banche le «istituzioni finanziarie».
A Wall Street, faro della civiltà finanziaria, farà schifo: ma in Afghanistan funziona e dà qualche garanzia che il denaro non venga intascato da chi non deve, e venga impiegato a fare cose che servono.
Il guaio è che l’Hawala la usano anche i Talebani e i signori della droga.
E da molto più tempo.
In fondo, ciò che il CSIS ammette è che le 2000 ONG occidentali non hanno nulla da insegnare agli afghani, e anzi molto da imparare.
Sul tema nasceranno infinite riunioni e focus groups.

La sensazione che ne salta fuori è quella dell’Occidente come una immensa potenza sub-normale, un bullo deficiente planetario che spande distruzione non solo con le bombe da aviazione da 500 tonnellate, ma anche con gli aiuti allo sviluppo.
Da vergognarsi di dirsi occidentali.
I militari americani ascoltati da De Borchgrave non sono del tutto ottimisti.
Dicono che i 20 mila uomini di cui dispongono non bastano a controllare un territorio lunare, semi-himalayano, abitato da 30 milioni di ventenni che ne hanno le scatole piene di essere «liberati» da infedeli che non sono riusciti nemmeno a migliorare di una briciola le loro condizioni di vita.
Né bastano i 32 mila a cui Bush vorrebbe elevare il numero di liberatori-bombardieri.
Aggiungono che sul piano strategico, visto che i talebani partono dal Pakistan dove hanno i loro santuari, «bisognerebbe trattare Afghanistan e Pakistan come un unico teatro operativo».
Ma persino loro si rendono conto che invadere il Pakistan (150 milioni di abitanti) è un boccone un po’ grosso; e anche solo ricacciare in Pakistan i talebani avrebbe come conseguenza di far cadere il debolissimo generale Musharraf, e di consegnare l’arsenale nucleare pakistano a una giunta militare sicuramente anti-americana e pro-talebana.
L’Occidente sub-normale si è messo in scacco matto da solo.
La disfatta è inevitabile e solo questione di tempo.
I nostri soldati che moriranno con le solite scarpe di cartone (in questo caso, mancanza di artiglieria, elicotteri e cingolati) e senza un motivo sensato, ringrazieranno D’Alema.
Del resto dovevano saperlo, quando hanno giurato per la «Repubblica», che intendeva il giornale amico dei DS.

Maurizio Blondet