di Sergio Garufi

Saggio è un termine che difficilmente si può applicare agli scritti di Terry Eagleton, che sono ben poco imparziali e prudenti. Solo adoperandolo come sostantivo, e contrastandone la neutralità con l’accostamento di aggettivi quali caustico, polemico, irriverente, si può intendere parte del grande fascino che trasmette la sua scrittura. In Figure del dissenso, una sua recente raccolta di recensioni (Meltemi, pp. 359, 25 euro), egli affronta personaggi del calibro di George Steiner, Northrop Frye, Harold Bloom, Seamus Heaney, Isaiah Berlin, Gayatri Spivak e altri, e a nessuno di loro concede sconti nell’analisi dei testi di volta in volta presi di mira. Dovrebbero imparare dalla sua vigorosa insolenza i nostri panciafichisti della critica letteraria, gli engagé a parole, quelli che firmano appelli e rilasciano interviste vibrate per poi dar luogo, sulla carta, a fiacchi moralismi in pantofole e vestaglia da camera.
Il tono combattivo delle recensioni di Eagleton non si fa mai strumento di vendetta o di astio personale, ma resta tutto interno al testo e alle idee. Se la critica letteraria è equiparabile a un tribunale, per Eagleton ciò che è istitutore di valori in esso non è la sentenza, bensì il processo di giudizio, la fase dibattimentale e argomentativa. La sua requisitoria contro il postmoderno si fonda sul rifiuto dell’attuale visione trascendente dell’estetica, divenuta il surrogato di declinanti valori religiosi, “il solo residuo di immortalità rimasto a chi lamenta la barbarie spirituale della modernità, ma ritiene comunque di essere abbastanza moderno da sentirsi fuori posto seduto sulla panca di una chiesa”. La letteratura intesa insomma come una religione senza teologia, una fede priva dell’ingombrante fardello di una dottrina e di una rigida precettistica, una specie di indistinto numinoso dell’era tecnologica che, al pari della Chiesa, è anche una struttura corporativa e gerarchica. I suoi papi o teologi s’incarnano così nelle figure carismatiche dei grandi critici, quella casta sacerdotale cui molti riconoscono il dogma dell’infallibilità del giudizio. Il canadese Frye, per esempio, “sorta di guru”, “figura di culto della New Age” letteraria, la cui analisi critica (vedi il suo testo più noto e ambizioso, Anatomia della critica) ibrida sacro e scientifico nel tentativo di fondare “una disciplina letteraria finalmente adatta a un’epoca tecnologica”, finendo invece per rappresentare “una letteratura scissa da qualunque rapporto con la realtà”. Altro ritratto memorabile è quello che Eagleton tratteggia del coltissimo Steiner, il pontefice massimo della critica letteraria, la cui sfavillante erudizione comparatistica non resiste però a un’analisi più approfondita (come dimostra lo svarione a proposito di Wittgenstein), perché è unicamente tesa a produrre nel lettore emozioni forti, “una specie di montagne russe dell’intelletto”. Il suo “tono liturgico”, la reverenza quasi religiosa tributata alla cultura, lo rendono “uno dei pochi sopravvissuti al crollo della cultura classica europea”. I suoi testi sono “la magnifica performance di un virtuoso, ma il più piccolo accenno di umorismo, la sollecitazione di un punto debole o una rozza osservazione irriverente basterebbero a farli andare in pezzi”. Ma è su Bloom che si concentra il sarcasmo più impietoso. Definito “un telepredicatore evangelico pieno di verbosa retorica moralista” che si esprime con una “lingua dozzinale e stantia”, egli è l’alfiere di quella canonologia che riduce la poesia a “una sorta di Wall street dell’anima”, con l’ambitissimo empireo delle blue chips e il desolante ammasso di junk stocks. Ciò che accomuna tutti questi grandi maestri è l’avversione all’ideologia, vista come un pesante fardello del passato; ma per il marxista Eagleton ogni teoria letteraria presuppone un uso strumentale della letteratura, pure quando ciò che se ne ricava sia completamente inutile. “Dove la critica umanistico-liberale allora sbaglia non è nell’usare la letteratura, ma nell’illudersi di non farlo”. Ed è amaramente ironico constatare, come scrive in After Theory, che “proprio nel momento in cui abbiamo iniziato a pensare in piccolo, la storia ha iniziato ad agire in grande”. Si pensi al conflitto di civiltà col mondo islamico, ai nazionalismi rivoluzionari del Terzo Mondo. Stefano Guerriero ha osservato acutamente su Belfagor che “la costante del pensiero di Eagleton è la demistificazione dei ruoli fintamente neutrali che la cultura ha di volta in volta assunto nel mondo occidentale moderno, oltre all’analisi dei diversi modi in cui essa diventa funzionale a sistemi di produzione e a rapporti politici”. Il punto di saldatura fra la cultura intesa come spiritualità e la cultura intesa come merce risiede dunque nella sua sostanziale complicità col potere costituito. Ecco perché mescolando attentamente invettiva, humour ed esattezza ritrattistica, le eretiche e gustosissime stroncature di Eagleton diventano strumento conoscitivo e non gogna, mezzo dialettico, bussola sempre più necessaria per orientarsi.