Tra questi ultimi esistevano contraddizioni secondarie, mentre quella principale correva tra loro e i proprietari ormai “assenteisti”, una nuova classe sostanzialmente signorile, pur se avrebbe goduto principalmente di rendite finanziarie, legate alla proprietà azionaria e alle speculazioni borsistiche; meno importanti, pur se cospicue, sarebbero invece state quelle da proprietà immobiliare (fra cui quella terriera), che comunque non avrebbero avuto più nulla a che vedere con quelle di tipo feudale. La rivoluzione sarebbe divenuta a questo punto incombente, e il soggetto della rivoluzione sarebbe esistito appunto nella figura di queste classi del lavoro salariato, sia intellettuale (le potenze mentali della produzione) che manuale, classi che non avrebbero agognato solo utopicamente il comunismo, poiché i loro stessi interessi le avrebbero spinte in tale direzione, alla realizzazione di una effettiva cooperazione tra tutti i lavoratori (produttori),
mentre lo sfruttamento sarebbe apparso senza più veli, una autentica spoliazione di chi produceva con il suo lavoro da parte di superflue sanguisughe.
Naturalmente, le classi proprietarie non sarebbero state immediatamente e facilmente espropriate dai produttori cooperanti, poiché esse, per la vischiosità dei processi storici, avrebbero mantenuto ancora per un certo tempo una superiorità (egemonia) culturale, ma soprattutto politica, controllando lo Stato in quanto strumento di dominio (a questo punto esercitato sempre più in modo violento, repressivo e coercitivo). Nessuna concessione dunque agli opportunisti che pensavano al “democratico” affermarsi delle masse salariate in “libere” elezioni, al loro “pacifico” movimento che avrebbe imposto, con la sola forza del numero (e
della “giusta” rivendicazione di non essere più spogliati dei frutti del proprio lavoro), la loro prevalenza, ormai armoniosa, fondata sulla solidarietà e sulla programmazione coordinata delle loro attività senza più la competizione legata al mercato, ecc.