La ricchezza dei contributi offerti mi induce a trascrivere qualche brano di Raphael, un moderno advaitin, a cui si devono la traduzione e la pubblicazione di diverse opere tradizionali indù, upanisad e scritti di Sankara (oltre ad opere personali).
Quanto segue è estratto dal suo commento alla Bhagavadgita (edizioni asram vidya):
<...> Il Sé, essendo l'Assoluto, non può cadere nel relativo nè individuarsi nè trasmigrare; non può diventare parte o molteplicità. Così, ciò che si individua non è altro che un semplice raggio, la proiezione-jiva o anima peregrina. Analogicamente possiamo definirlo l'elettrone vagante che produce azione e ne raccoglie il frutto. Il jiva è un "fenomeno luminoso", è "un'apparenza luminescente", un riflesso dell' atman sottoposto, però, alla legge della dualità, quanto dire del tempo-spazio. L'atman è lo schermo su cui appaiono delle "immagini luminose" che vanno e vengono, seguendo la linea di minor resistenza. Il moto può determinarsi proprio perchè c'è questo schermo immobile che lo mette in risalto. Tutto "appare", prende luce e si muove in virtù di questa Esistenza.
Per l'Assoluto lo scenario della vita è solo un giuoco di luci-ombre, come il sogno è solo luminescenza oggettivata dalla mente e ha valore nella misura in cui il soggetto-sognatore gli dà attenzione ed importanza.
Il jiva, pergrinando nel mondo del divenire, accumula tendenze, disposizioni, attitudini, qualità (samskara) e per soddisfarle si appropria o si costruisce determinati corpi o veicoli di espressione < 1 >. E' così che questo "corpuscolo luminoso", seguendo la legge di attrazione-repulsione (dualità), trasmigra, si muove, sui diversi piani, apparendo oggi un personaggio, domani un altro; oggi svelando armonia, bellezza, infinitezza, conoscenza, ecc., domani disarmonia, bruttezza, finitezza, ignoranza, ecc., secondo la sua direzione o moto vettoriale deliberante. Per la sua condizione duale può assimilarsi a ogni possibile coppia di opposti, con tutte le conseguenze che questi aspetti polari possono, ovviamente, produrre.
L'ignoranza di Arjuna esiste perchè il jiva-Arjuna ha in sé la virtualità di eprimerla, come ha la virtualità di esprimere la conoscenza con la sua relativa, positiva e vantaggiosa conseguenza; quella conoscenza che egli cerca di ottenere mediante l'insegnamento di Krsna. <...>
"Esse sono due nascoste nel segreto dell'infinito: la conoscenza e l'ignoranza; l'ignoranza è peritura, la conoscenza è immortale. Diverso da esse, però, è colui che governa a un tempo la conoscenza e l'ignoranza".
Svetasvatara Upanisad, V, 1 (pagg. 54-55, 59)
NOTA
< 1 > In ordine dal superiore all'inferiore:
(Atman) - Anandamayakosa - Buddhimayakosa - Manomayakosa - Pranamayakosa - Annamayakosa.
Nello schema presente nel libro, vi è quest'altra interessante suddivisione:
Le prime due "guaine", Anandamayakosa e Buddhimayakosa, costituiscono il Jivatman, che l'autore denomina "Anima". Dopo una linea di demarcazione (Individualità umana), troviamo l' Ahamkara o "senso dell'io" ed il "riflesso di coscienza incarnato". Questi ultimi due fattori sarebbero costituiti dalle altre tre guaine, cioè Manomayakosa, Pranamayakosa ed Annamayakosa.
Si spera che chi legge conosca almeno sommariamente questi termini e ciò che essi rappresentano; sarebbe eccessivamente lungo, infatti, trascrivere la dettagliata spiegazione dell'autore.
Ci viene in aiuto anche quest'altra argomentazione, tratta dallo stesso libro, circa il "senso dell'io" o ahamkara:
<...> Se in via sperimentale consideriamo il problema nella sua integralità dobbiamo convenire che l'io, o meglio il senso dell'io, non esiste distinto dai processi. Possiamo anzi dire che il "senso dell'io" è un altro processo da aggiungere alla sensazione-percezione, ecc., e il tutto, in definitiva, appartiene alla categoria mentale.
L'io, dunque, è una categoria mentale. Se, per esempio, con la tecnica yoga del pratyahara (ritiramento dei sensi-processi) ci poniamo in una condizione di silenzio o quiete mentale, il senso dell'io scompare.
L' io emerge quando sussiste un processo pensativo, quando si mettono in moto i processi psichici. L'io di oggi non è quello di ieri, l'io di veglia non è quello di sogno e l'io di un individuo non è lo stesso io di un altro individuo, e così via. Ciò può avvenire proprio perchè trattasi di un processo sensoriale alla stregua di tutti i processi psichici.
Per lo yoga, l' ahamkara, possiamo dire, è consustanziale al manas, il pensiero individuato; quando questo si acquieta o sparisce, l'io parimenti sparisce, così come la sensazione scompare con l'astrazione-pratyahara.
In fondo, la precisa configurazione dell'anatta (negazione della sostanzialità dell'io) del Buddha trova riferimento in ciò che abbiamo detto. Egli non nega il Sé in quanto esistenza pura nirvanica, ma la nozione dell'io in quanto centro autonomo e indipendente dai processi psichici.
"Perciò io dico che il Tathagata ha realizzato la liberazione ed è, quindi, affrancato dall'attaccamento, poichè ogni tipo di immaginazione, di agitazione, arrogante concetto che si riferisce a un io o qualsiasi cosa che sia pertinente a un io, è perita, si è gradatamente dissolta, è cessata, è stata mandata via ed abbandonata".
Majjhimanikaya, 72 (pagg.178-179)
Ho sottolineato l'ultima parte perchè getta un'importante luce su di una questione che, se può esistere da un certo punto di vista, scompare se osservata da un punto di vista superiore o più ampio. Si tratta di un'antica disputa tra buddhisti ed induisti che può essere tranquillamente pacificata, se viene fatto un sincero sforzo di comprensione (per chi non la conosce mi scuso se vi alludo solamente, ma delinearla richiederebbe una digressione troppo ampia dall'argomento centrale); mi pare, inoltre, un ottimo invito a considerare, per chi non lo fa già, la straordinaria ricchezza che ci viene offerta dalla Tradizione Buddhista, con la molteplicità delle dottrine in essa contenute.
Per chi ha della difficoltà ad accostarla alla sublime Tradizione Indù, può provare, magari, a leggere qualche insegnamento dello Dzog-chen, la "Grande Perfezione", da alcuni ritenuto il culmine dell'insegnamento buddhista.
Insisto su questo argomento perchè mi sta particolarmente a cuore.
Per lungo tempo, infatti, ho portato nella coscienza una dolorosa frattura tra il Buddhismo e l'Induismo (Vedanta, in particolare). Pur amando entrambe queste Tradizioni, non mi riusciva proprio di conciliarle.
Un'immagine che mi è stata offerta ha svolto una notevole funzione sintetica: la clessidra.
Se si considera la Tradizione Indù come una parte della clessidra e la Tradizione Buddhista come l'altra parte (a ciascuno la facoltà di determinare l'inferiore e la superiore..), ci si accorge che per trovare il nesso che le tiene unite e distinte, occorre concentrarsi sul punto centrale della struttura doppia, laddove passa quell'impercettibile filo di sabbia che segna il tempo. Se si vuole passare da una parte all'altra al fine di poterle comprendere entrambe, bisogna "essere la sabbia"; riuscendoci, si realizza che è la stessa sabbia che si trova in entrambe le porzioni della clessidra. E' altrettanto importante, per un'appropriata comprensione, ricordare, alla fine, di "girare la clessidra" (come in alto, così in basso)..
Essendo la precedente un'immagine simbolica, se appropriatamente utilizzata consente di conciliare non solo l'apparente divergenza presa in esame, ma tutte le altre (apparenti) divergenze simili nelle quali la nostra coscienza, spesso, rimane incagliata, non riuscendo a fluire liberamente con il fiume della vita..