Così SULLA BASE DI UNA MANCIATA DI AMBIGUI DATI, FURONO MESSI DA PARTE 200 ANNI DI TEORIE, SPERIMENTAZIONE ED OSSERVAZIONI, PER FARE SPAZIO AD EINSTEIN.
Non di meno lo screditato esperimento di Eddington, è ancora citato come vangelo da Stephen Hawking (1999); è difficile capire come quest’ultimo possa commentare che: “La nuova teoria dello spazio-tempo curvo fu denominata relatività generale… Fu confermata in modo spettacolare nel 1919, quando una spedizione britannica in Africa Occidentale, durante un’eclisse, osservò un lieve spostamento della posizione delle stelle prossime al sole. La loro luce, mentre oltrepassava il sole, era piegata, come previsto da Einstein. Qui vi era il riscontro diretto della curvatura di spazio-tempo”. Hawking è onestamente convinto che una manciata di dati, per giunta manipolati, costituisca la base per rovesciare un paradigma che era sopravvissuto ad oltre due secoli di minuziosi ed accurati esami? Se la risposta è affermativa significa che Hawking è un cretino.
La vera domanda, comunque, è: CHE PARTE EBBE EINSTEIN IN TUTTO QUESTO? All’epoca in cui scrisse il suo documento del 1935, egli doveva sicuramente essere venuto a conoscenza del lavoro di Poor, che tra l’altro scrisse: “Lo spostamento stellare di per sé, ammesso che sia reale, non mostra la minima attinenza con le deviazioni previste da Einstein: non concordano, né nella direzione, né nelle dimensioni o nel tasso di diminuzione della distanza dal sole”. Perché Einstein non espresse pubblicamente le proprie opinioni su un documento che contraddiceva direttamente il suo lavoro? Perché i suoi seguaci non hanno tentato di ristabilire la verità sui dati contraffatti del 1919?
Quello che rende tutto ciò così sospetto, è che entrambi gli strumenti e le condizioni fisiche non favorivano l’esecuzione di misurazioni di grande precisione. Come sottolineato in un articolo del “British Institute of Precise Physics”, pubblicato nel 2002 su Internet, le macchine fotografiche a calotta, utilizzate nelle spedizioni erano accurate solo per 1/25° di grado; ciò stava a significare che proprio in virtù della sola imprecisione dell’apparecchio fotografico, Eddington rilevava valori oltre 200 volte troppo precisi!
Nonostante nel 1919 le prove sperimentali sulla relatività fossero assai inconsistenti, l’enorme fama di Einstein si è preservata intatta, e da allora, la sua teoria è considerata una delle massime conquiste del pensiero umano.
È chiaro che Eddington, sin dall’inizio, non aveva alcun interesse a mettere alla prova la teoria della relatività, ma gli premeva unicamente confermarla.
La falsificazione dei dati operata da Eddington ed altri è un palese sovvertimento del procedimento scientifico, che ha fuorviato la ricerca scientifica per tutto il XX secolo. Probabilmente supera il caso dell’uomo di Piltdown come massima mistificazione della scienza degli ultimi 100 anni. Il “British Institute of Precise Physics” si è posto la seguente domanda: “Fu questa la mistificazione del secolo?” E non ha potuto rispondere che: “Il rapporto della Royal Society sulla relatività nell’eclisse del 1919 ha ingannato il mondo per 80 anni!”.
Non si sottolineerà mai a sufficienza che l’eclisse del 1919, rese Einstein quello che conosciamo; il fenomeno lo catapultò verso la fama internazionale, nonostante il fatto che i dati fossero falsificati e che non esistesse nessun tipo di supporto alla relatività generale. Questo travisamento della storia è noto da più di 80 anni ed è tuttora suffragato da individui come Stephen Hawking e David Levy.
Il pubblico tendenzialmente è convinto che gli scienziati siano fondamentalmente i paladini dell’etica, che il rigore scientifico costituisca il metro di giudizio della verità; in realtà le persone capiscono ben poco di come la scienza sia gestita al cospetto dei personaggi importanti.
Einstein era convinto di essere al di sopra del protocollo scientifico, spiegava le regole a suo piacimento; la sua flagrante e reiterata passione per il plagio è quasi dimenticata.
Quando queste cose verranno alla luce si parlerà davvero della luce, non di materia oscura...
Oggi la relatività è divenuta un’intoccabile pietra di paragone, utilizzata per mettere sotto processo qualsiasi altra teoria alternativa. Ma quali sono le ragioni che hanno determinato la supremazia quasi assoluta della teoria di Einstein nel mondo della fisica odierna? E fino a che punto tale supremazia è giustificata
La storia umana è spesso segnata da teorie dogmatiche e omnicomprensive che vogliono controllare vaste aree del sapere, e che finiscono solo col frenare il progresso e mettere in ombra l’universalità del pensare.
Il sistema aristotelico tolemaico fu una di queste teorie. Nonostante fosse fondata sul falso postulato che poneva la Terra al centro dell’universo, divenne nei secoli un’inattaccabile cattedrale ideologica. Questo perché il tortuoso apparato matematico della teoria, modellato a forza sui dati sperimentali, riusciva a prevedere, e addirittura con ottima approssimazione, tutti i moti celesti allora conosciuti.
Giudicando col senno di poi, è chiaro che si trattava di una teoria sbagliata, in quanto basata su di un principio sbagliato. Ma nonostante ciò, funzionava. E dal momento che qualsiasi tipo di osservazione astronomica accurata, quindi in grado di mettere in crisi il postulato geocentrico, rimase per lungo tempo al di là della portata dei mezzi d’indagine disponibili, l’idea di un pianeta Terra felicemente posto al centro dell’universo dominò incontrastata per parecchi secoli.
Il dubbio che le cose non stessero proprio così si manifestò tuttavia in isolati pensatori. La prima ipotesi eliocentrica risale addirittura a tre secoli prima di Cristo, frutto del filosofo e matematico greco Aristarco di Samo. Costui riuscì ad arrivare al modello eliocentrico per pura intuizione, data la pressoché inesistente risorsa tecnologica del suo tempo.
Ciò non deve stupire più di tanto, dato che Aristarco di Samo fu anche il primo a misurare le distanze della Luna e del Sole dalla Terra, nonché ad attribuire correttamente la causa dell’alternanza delle stagioni all’inclinazione dell’asse terrestre.
Purtroppo proprio la sua idea più geniale, il modello eliocentrico appunto, non riscosse il favore che avrebbe meritato. Tutto ciò che Aristarco ricavò da essa fu una condanna per empietà e corruzione della gioventù, per averla concepita ed insegnata. È probabile che alcuni in seguito abbiano nuovamente accarezzato la sua idea eliocentrica. Ma per lungo tempo nessuno ebbe più il coraggio di professarla pubblicamente. Pertanto essa rimase per quasi duemila anni una verità nascosta, un’idea giudicata dalla scienza ufficiale come troppo blasfema e rivoluzionaria per essere presa in considerazione: l’idea di abitare in un pianeta al centro dell’universo e di costituirne l’unica specie intelligente era troppo perfetta per essere accantonata in nome di un punto di vista più razionale, ma decisamente meno appagante.
Ci vollero secoli di battaglie scientifiche, combattute da uomini intellettualmente isolati e guardati con sospetto dalle autorità ecclesiastiche e dalla comunità, per dimostrare che la “folle” intuizione di un uomo dell’antica Grecia era vera, e che il Sole non girava affatto attorno alla Terra. A dimostrazione del fatto che a volte le apparenze ingannano. Ma il cambiamento non fu né facile, né indolore. Copernico e Keplero, i principali fautori del modello eliocentrico, furono inizialmente isolati e derisi.
Galileo, il più autorevole sostenitore della teoria in Italia, proprio per aver fortemente appoggiato l’ipotesi copernicana basandosi sulle sue osservazioni al telescopio del moto dei satelliti maggiori di Giove e delle fasi di Venere, fu notoriamente accusato dalla Chiesa Cattolica di eresia e costretto a sconfessare le proprie idee con una celebre “abiura”, cui seguirono gli arresti domiciliari a vita - condanna per la quale la Chiesa ha chiesto pubblica ammenda solo pochi anni fa.
Anche i nostri tempi, proiettati ormai nel terzo millennio e tanto intrisi di scienza e tecnologia, sono dominati da una possente ed omnicomprensiva cattedrale di demenza: la teoria della relatività di Einstein.
Nel 2005, la teoria della relatività di Einstein ha compiuto il suo primo secolo di vita. Nata per risolvere i problemi posti dall’elettrodinamica di Maxwell, la relatività conquistò molto presto un ruolo predominante nel mondo della fisica, paragonabile solo a quello occupato in precedenza dalla dinamica newtoniana. Ciò avveniva nonostante il fatto che per lungo tempo il credito conferito alla teoria sia basato essenzialmente sulla fiducia, dato che la verifica dei singolari effetti previsti da Einstein era del tutto al di là della portata dei mezzi d’indagine disponibili.
Non va altresì dimenticato che agli inizi del ‘900, non esisteva né la radio né l’aviazione, e si discuteva ancora sull’esistenza degli atomi.
Oggi lo scenario scientifico è decisamente cambiato. E recenti esperimenti in cui la luce è stata rallentata sino ad essere addirittura fermata - risultato conseguito contemporaneamente dallo Harward-Smithsonian Center for Astrophysics e dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Harward - o di quelli in cui al contrario la luce è stata fatta viaggiare più veloce del limite imposto da Einstein - Istituto di ricerca sulle onde elettromagnetiche del CNR di Firenze e Istituto di ricerca NEC di Princeton.
E allora come la mettiamo? La posta in gioco è alta. Nel caso la falsità del postulato della luce venisse definitivamente confermata, si tratterebbe dell’abbandono della relatività “in toto”, dal momento che, come dichiarò Einstein stesso, l’intera teoria della RELATIVITÀ poggia sul postulato della COSTANZA della luce, venendo meno il quale, essa crolla come un castello di carte.
Forse proprio per questo motivo, una delle principali occupazioni dei fisici teorici di oggi, sembra essere quella di trovare continui escamotages teorici che giustifichino le sempre più frequenti trasgressioni sperimentali al postulato della luce, rendendo inevitabile il parallelo con l’affannoso tentativo degli uomini di scienza del passato di tamponare le incongruità tra i moti dei pianeti ed il modello Aristotelico-Tolemaico.
Ovviamente non è facile analizzare in un articolo divulgativo una teoria che in passato si diceva compresa da tre persone soltanto al mondo, Einstein incluso, ovviamente, e che a tutt’oggi è digerita a fatica da buona parte degli studenti dei corsi di fisica, e spesso inconfessabilmente incompresa persino dai loro docenti.
I sostenitori della relatività affermano che, proprio a causa delle complesse implicazioni del MODELLO fisico-matematico alla base della teoria, sia praticamente impossibile per un profano riuscire a farsene un’idea seppur approssimativa e men che meno un’opinione critica corrente.
A me invece pare che proprio nessuno possa davvero sostenere che la teoria della relatività di Einstein possa stare in piedi. COME PUÒ UN ASSOLUTO FARE DA BASE A UN RELATIVO O VICEVERSA?
CIÒ CHE PIÙ CONTA IN UNA TEORIA, NON DOVREBBERO ESSERE I MODELLI MATEMATICI (che sono mere rappresentazioni, cioè concetti individualizzati), MA I CONCETTI CHE STANNO ALLA BASE DI TALI RAPPRESENTAZIONI dette MODELLI”.
Il linguaggio matematico, dal più semplice algoritmo al più complesso sistema di equazioni, è indubbiamente un buon strumento per qualificare concetti che comportino relazioni precise e complesse. Ma proprio in quanto linguaggio, esso è criticabile solo formalmente. Cioè eleganza e correttezza formale di un modello matematico non garantiscono che esso corrisponda necessariamente alla realtà, esattamente come una frase grammaticalmente ineccepibile, non esprime necessariamente un vero contenuto concettuale.
Solamente un’idea può essere compresa, e di conseguenza accettata o rifiutata. La relatività speciale comporta problemi, nonché i fatti sperimentali che oggi sembrano falsificarla.
La seguente analisi della bufala della relatività speciale, cioè di quella parte storicamente più antica della teoria attribuita ad Einstein che, sulla base del dogma einsteiniano sulla costanza della luce, si traduce poi nella bufala della relatività generale. In altre parole, la relatività speciale costituisce a tutti gli effetti il fondamento dell’intero edificio teorico di Einstein, senza il quale, anche la Generale non ha più ragione di esistere, almeno nella forma oggi conosciuta.
Si osservi il suono e anche da questo punto di vista, risulterà che quella di Einstein si rivela una teoria fallace tanto nelle premesse quanto nelle verifiche sperimentali.
Come tutti sanno, il suono è una perturbazione ondulatoria che si trasmette per mezzo di onde longitudinali attraverso un mezzo elastico, per compressione e rarefazione del mezzo. Nell’aria il suono si trasmette alla velocità di circa 340 m/s (nell’acqua a circa 1500 m/s e nei metalli a velocità fino a 17 volte maggiori). Già nella prima metà del XVII secolo, von Guerick, aveva dimostrato che il suono necessita di un mezzo per propagarsi, e quindi nel vuoto non si propaga, e Marsenne ne aveva misurato per primo la velocità di propagazione nell’aria (ottenendo un dato ancora approssimativo). Invece i fisici di fine Ottocento, appurata la natura elettromagnetica della luce erano pronti a scommettere che anch’essa, come il suono, si propagasse attraverso un mezzo, da essi battezzato “etere”, in onore al pensiero di Aristotele. Oltre ai quattro elementi fondamentali teorizzati da Empedocle, la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco, Aristotele postulò l’esistenza di un quinto elemento, da lui chiamato “etere”, incomposto, ingenerato, eterno e inalterabile, invisibile e privo di peso, che avrebbe permeato l’intero universo, oltre a costituire il principale ingrediente dei corpi celesti.
L’etere dovrebbe quindi permeare l’intero universo, dal momento che persino la luce delle stelle più lontane, è in grado di giungere fino a noi.
Altra analogia tra suono e luce, sempre secondo la scienza di fine Ottocento, riguardava il cosiddetto effetto Doppler, consistente nel fenomeno di cui tutti abbiamo esperienza: il suono emesso da una sorgente in movimento, ad esempio la sirena di un’ambulanza o il rombo di un’automobile da corsa, è percepito con un’intonazione più alta quando si avvicina, e più bassa quando si allontana. Il primo a dimostrare e spiegare tale effetto, fu Christian Doppler nel 1842, con un celebre esperimento che utilizzava musicisti a bordo di un treno in moto, la cui intonazione era valutata da osservatori in quiete. La spiegazione di tale effetto contenuta nei testi di fisica, è apparentemente semplice: quando una sorgente sonora si avvicina a noi, la sua velocità si sottrae a quella del suono, dando luogo ad una compressione delle onde sonore (innalzamento della frequenza e quindi del tono del messaggio sonoro); quando invece si allontana da noi, la sua velocità si somma a quella del suono, dando luogo ad una dilatazione delle onde sonore (abbassamento della frequenza d’ascolto e quindi del tono del messaggio sonoro).
I fisici pre-relativisti, pensavano che anche la luce si comportasse in modo analogo al suono, e quindi utilizzarono la medesima equazione per descrivere entrambi gli effetti.
Però sbagliarono, perché un simile pensare presuppone che la luce sia quello che non è, cioè qualcosa di materiale o di meccanico come il suono… Se le cose fossero davvero così, perché mai non dovremmo pretendere di udire le onde della luce con le orecchie come quando udiamo un rock? Così non è. La luce fa aprire gli occhi ma gli occhi non vedono la luce. Perché la luce NON è materia. Io posso solo vedere cose illuminate dalla luce, non la luce. Se entro in una stanza buia per cercare qualcosa, per trovarla devo per forza accendere la luce. Se dopo avere visto la cosa che cercavo, mi salta in mente di vedere anche la luce, cosa faccio? Accendo un’altra luce? No, perché la luce, mentre illumina le cose, illumina anche se stessa. Ma non si muove. Non viene verso il mio occhio. Il mio occhio è in essa e io vedo le cose. Non c’è alcuno scorrere della luce dalla lampada a me. Se ci fosse non direi “accendo la luce” o “accendo l’interruttore della luce” ma “apro la luce” o “apro il rubinetto della luce”, come quando faccio SCORRERE l’acqua.
Il relativista dirà che queste considerazioni linguistiche non sono scientifiche o che provengono da un pazzo. Ebbene io preferisco questa pazzia che mi fa percepire la realtà del cielo stellato a quella che me la nega, in nome della congettura - questa, sì, mancante di positività scientifica - della presunta morte di tale cielo stellato a causa dell’ingente quantità numerica di “anni luce” che esso impiegherebbe per arrivare fino al mio occhio come immagine luminosa. A proposito di positività scientifica, faccio notare che il metodo della scienza naturale è identico a quello della scienza dello spirito a carattere antroposofico. Per esempio il libro di Steiner che ne costituisce la base, intitolato “La filosofia della libertà”, recava come sottotitolo: “Risultati di osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali”. Dunque in senso scientifico “pazzia” dovrebbe invece essere ritenuta una fede o il credere ingiustificati che la luce sia fatta di materia, ed oltretutto di materia in movimento.
Cosa è la luce?
La luce è un’entità sovrasensibile, IMMATERIALE, che entra nel sensibile, nella materia, dove diventa percepibile.
La scienza della cosiddetta velocità della luce è NESCIENZA, perché manca, appunto, di indagine positiva. Infatti le forme di quel movimento attribuite alla luce NON sono luce: ciò che con esse è trasmesso non è altro che il VEICOLO di quanto è creduto luce. Ma LA LUCE - occorre sperimentarlo in sé - È IMMATERIALE. Ripeto: anche se si manifesta tramite la materia, la luce è IMMATERIALE. LA MATERIA (nel caso della luce: la materia più sottile, cioè l’atmosfera) È INFATTI SEMPRE PRIVA DI LUCE. LA MATERIA È, ANZI, SOLAMENTE REALE PORTATRICE DELL’OSCURITÀ. Modificandosi, grazie alla luce, si può solo dire che la materia è mossa. Questo è scientifico. Ma la luce è onnipresente in quanto immateriale. Ed è colta come luce sotto forma di movimento dal soggetto che l’accoglie da una determinata fonte. Ma è parvenza: mera parvenza. SEMBRA CHE LUCE SI PROPAGHI. MA NON È COSÌ. La luce è un’entità onnipresente ed extrasensibile, posta al di là del sensibile, appunto, al di là della materia, e che solo l’elemento interiore del percepire può cogliere. Si immagini un’astronave: risplende e viaggia nell’oscurità dello spazio. Posso forse dire che la luce si muove con l’astronave? No. Posso solo dire che la luce è presente in ogni punto dello spazio e perciò è RIFLESSA dall’astronave in movimento. In verità la luce non ha bisogno di muoversi, PERCHÉ È. La luce è. Punto e basta (si veda in proposito M. Scaligero, “Il pensiero come antimateria”).
Al sedicente scienziato della velocità della luce occorre una coscienza più rigorosa circa la funzione del pensare nel percepire. Senza questa coscienza la materia (compresa la materia che egli attribuisce alla luce che poi crede di misurare come velocità) diventa per lui un mito, una fede, che è il segno della sua incapacità di penetrarla.
Ma facciamo pur finta di credere al relativista. La relatività speciale o ristretta, nasce come risposta ai problemi posti dalle “scoperte” nel campo dell’elettrodinamica, avvenute verso la fine dell’Ottocento. Dopo che Maxwell aveva “chiarito” (si fa per dire) la natura ondulatoria della luce, assimilandola alla famiglia delle onde elettromagnetiche, l’idea che l’intero universo fosse permeato da una sostanza impalpabile, l’ETERE, attraverso la quale le onde luminose si propagavano, pose il problema di definire la caratteristiche fisiche di tale mezzo. Ma prima ancora, comportò la necessità di dimostrarne l’esistenza.
Proprio per rilevare la presenza dell’ETERE, nel 1887 il fisico Albert Abraham Michelson, in collaborazione con Edward Williams Morley, condusse un ingegnoso esperimento.
L’idea era semplice: il fatto che la Terra orbiti intorno al Sole alla velocità di circa 30 Km/s, supponendo l’etere come stazionario rispetto al Sole, avrebbe dovuto comportare una differenza tra la velocità della luce nella direzione del “vento d’etere” e la sua velocità con “vento d’etere” contrario. Tale supposta differenza nella propagazione della luce sulla Terra è detta anisotropia, ma è chiaro che già qui si presuppone una materialità dell’etere che non esiste. Per accorgersi della forza eterica occorre il pensare non il misurare. Se ho di fronte a me un uomo vivo e un uomo morto vedo la differenza delle due “cose” percepibili ma non vedo la materia di tale differenza. Solo nella “cosa” morta ho a che fare con un reale corpo fisico, nel quale è già iniziato il disfacimento che porta poi alla putrefazione. Invece nel vivente non vi è solo un corpo fisico ma anche una vitalità che lotta continuamente contro tale disgregazione. Chiamo eterica quella forza coesiva che plasma sostanzialmente la forma della “cosa” viva, cioè dell’uomo vivo. Però non posso dire che quella forza si veda. Posso vederla sovrasensibilmente in quanto eterea, o eterica appunto. Alcuni scienziati come Maria Goeppert Mayer, Jensen, e Wigner, volendo misurarla come forza coesiva del nucleo atomico, l’hanno chiamata “magica” individuando “numeri magici” (cfr.: “Sulla fisica magica e oscura”;
http://digilander.libero.it/VNereo/s...a-e-oscura.htm). Altri scienziati come il russo Vadim Nikolaevich Tsytovich hanno chiamato questa vitalità “corpo bioplasmatico”. Un secolo fu chiamata “corpo vitale” o “corpo eterico” da Rudolf Steiner.
Ebbene per misurare l’etere cosmico Michelson (altro genio!) si inventò il cosiddetto interferometro, cioè un gioco di specchi in cui, tramite specchi semiriflettenti, un raggio di luce monocromatica viene sdoppiato, costretto a percorrere identiche lunghezze lungo due bracci perpendicolari, e infine nuovamente ricomposto, dopo aver quindi compiuto identici percorsi di “andata e ritorno”, ma perpendicolari tra loro.
In base ai principi dell’elettrodinamica di Maxwell, in presenza di “vento d’etere” (?!) la luce non avrebbe viaggiato (?!) alla stessa velocità nei due bracci dell’interferometro (con il braccio principale opportunamente orientato nella direzione del supposto moto attraverso l’etere), dando perciò luogo a frange d’interferenza osservabili (?!) nel raggio risultante finale (A. A. Michelson e E. W. Morley, “On the Relative Motion of the Earth and the Luminiferous Ether”, Am. Journal of Science (3rd series) 34 333-345, 1887).
L’esperimento ovviamente fallì portando ad un risultato nullo con evidente distorsione dei fatti. Tuttavia contribuì nel 1907 a conferire allo statunitense Michelson il suo bel Nobel (sic!) facendolo diventare uno dei fisici più celebri del mondo, dato che, proprio grazie al fatto che tale distorsione contribuì in modo determinante all’affermazione della relatività (oggi l’erronea versione del “risultato nullo” del suo esperimento è citata in quasi tutti i testi che si occupano di relatività speciale).
Ad ogni modo, per la cronaca, Michelson continuò per il resto della sua vita a CREDERE fermamente nell’etere, e a condurre nuovi esperimenti per tentare di dimostrarne l’esistenza in modo inconfutabile.
Ciò che sfugge a questi caproni del materialismo dialettico è che l’etere non è qualcosa da credere bensì da percepire sovrasensibilmente mediante intuizione veggente. E ciò è possibile a tutti coloro che incominciano a rendersi conto che la parola “io” non è vuota di contenuto in quanto sovrastruttura della materia, bensì è piena di contenuto immateriale e ciò nonostante massimamente percepibile...
In ogni caso da questo momento in poi la scienza diventa alienazione e/o cecità volontaria.
Negli anni seguenti all’esperimento del 1887, il fisico irlandese George Fitzgerald, e indipendentemente il fisico dei Paesi Bassi, Hendrik Lorentz, avanzarono l’ipotesi di una contrazione della materia dovuta al moto attraverso l’etere, in grado di accorciare il braccio dell’interferometro nella direzione del moto ed equalizzare così i due percorsi perpendicolari della luce, spiegando il risultato nullo - in sostanza, secondo tale interpretazione il braccio in cui la luce viaggia più veloce, risulterebbe accorciato, rendendo il tempo allungato (per via della velocità più bassa della luce) di tale viaggio identico a quello avente luogo nell’altro braccio, in cui la luce viaggia più veloce. Scemenze su scemenze: tempo allungato, percorso perpendicolare della luce, viaggio della luce (sic!)…
Lorentz elaborò poi una completa teoria sull’elettrodinamica dei corpi in movimento basata ovviamente sull’esistenza dell’etere e del suo effetto di contrazione delle lunghezze, dette poi “contrazione di Lorentz”. Pubblicò tale teoria nel 1904, in un articolo intitolato “Fenomeni elettromagnetici in un sistema in moto a qualsiasi velocità inferiore a quella della luce”, che conteneva un gruppo di trasformazioni di coordinate riviste in base ai suoi principi e in grado di lasciare invariata l’equazione di propagazione della luce, dette poi “trasformazioni di Lorentz”.
Da queste idiozie nasce poi la mega idiozia di Einstein, il quale da anonimo impiegato all’ufficio brevetti di Berna, con tre articoli del 1905 pubblicati sugli “Annelen der Phisyk” sarebbe diventato il genio dei geni della storia della fisica. Uno di questi articoli, intitolato, appunto: “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”, proponeva una teoria straordinariamente simile a quella di Lorentz, giungendo ad equazioni identiche, nonostante fossero anch’esse idee idiote come quella della velocità della luce e della contrazione delle lunghezze (effetto doppler del suono proiettato patologicamente sulla luce).
In Einstein, ovviamente, l’ipotesi dell’etere era abbandonata, in favore di due semplici postulati. Il primo del tutto scontato in quanto già sostenuto da Galileo, secondo il quale ogni moto inerziale (non accelerato) è relativo. Il secondo imponeva che la velocità della luce nel vuoto fosse costante per qualsiasi osservatore inerziale. DAVA però PER SCONTATA UNA VELOCITÀ DELLA LUCE CHE NON PUÒ ESISTERE, DATO CHE LA LUCE, ripeto, NON È MOVIMENTO (cfr. R. Steiner, “Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe. Per una fondazione della scienza dello spirito - Antroposofia”, Ed. Antroposofica, Milano 2008, p. 246).
Al tempo di Einstein e di Steiner era molto dibattuta la questione se alla base dei fenomeni della luce, del calore, dell’elettricità, ecc. vi fosse o non vi fosse solo movimento nell’etere. Ed Hertz aveva appunto mostrato come la propagazione delle azioni elettriche nello spazio soggiacesse alle stesse leggi della propagazione delle azioni luminose. Da ciò si poteva arguire che anche alla base dell’elettricità vi fossero onde simili a quelle portatrici della luce: “Finora si è pure presunto che nello spettro solare sia attiva solo una specie di movimento oscillatorio, il quale, a seconda che cade su reagenti sensibili al calore, alla luce, o, ad azioni chimiche fa sì che si producano effetti di calore, luce, sensibilità chimica ecc.” (ibid., p. 247). Questa era però un’ovvietà senza alcun valore per Steiner: “se si investiga che cosa avviene nell’estensione spaziale mentre sono trasmesse le entità in questione, si deve arrivare a un movimento unitario. Poiché in un mezzo, in cui è possibile SOLTANTO il movimento, tutto deve reagire col movimento; e compirà mediante movimenti anche tutte le trasmissioni a cui è chiamato. Se poi io investigo però le forme di quel movimento, non apprendo CHE COSA sia la cosa trasmessa, bensì in che modo essa mi sia trasmessa. Ma È SEMPLICEMENTE ASSURDO DIRE CHE IL CALORE O LA LUCE SIANO MOVIMENTO. Movimento è soltanto la reazione alla luce della materia suscettibile di movimento” (ibid.).
Ebbene il punto di vista assurdo dei credenti nella velocità della luce fu pian piano accettato dal mondo: la velocità della luce era trattata come una costante assoluta anche se la scienza aveva combattuto secoli per liberarsi dall’idea di una quiete assoluta della Terra, insita nel dogma Aristotelico-Tolemaico.
Ora si ritrovava a dover fronteggiare un nuovo dogma altrettanto imbarazzante, quello della costanza universale della velocità della luce.
Molti fisici videro nella teoria di Einstein un rifacimento della teoria di Lorentz, con l’aggiunta di un postulato folle, quello della luce.
Einstein, da parte sua, sostenne sempre di non essere stato a conoscenza del lavoro di Lorentz e di Michelson al momento della stesura della sua teoria. E in effetti la relatività speciale è l’unico articolo nella storia della letteratura scientifica moderna a non contenere alcuna citazione di lavori o ricerche altrui, per quanto non sembri affatto il lavoro di una mente isolata, ma piuttosto di una mente alterata o sognante.
Ebbene la relatività acquistò grande fama e consensi in un tempo relativamente breve, specialmente negli Stati Uniti. Tanto che, a pochi anni soltanto dalla pubblicazione della teoria, tutti gli scienziati le cui idee erano state copiate da Einstein venivano già considerati tutt’al più suoi precursori, e molti di questi furono premiati (o sarebbe il caso di dire messi a tacere) proprio per aver contribuito all’affermazione della relatività speciale. Emblematico fu il caso di Lorentz, del quale si scrisse, e si scrive tuttora, che aveva già formulato le equazioni della relatività speciale prima di Einstein, senza però riuscire a capirne appieno il significato! In tal modo dunque fu lastricata la strada maestra poi percorsa da Einstein, rendendo il percorso più agevole a quest’ultimo.
Intorno al 1916, ormai celebre ed affermato in tutto il mondo, Einstein pubblicò la relatività Generale, ovvero quella parte della Teoria che estende gli effetti della relatività Ristretta ai campi gravitazionali. La follia einsteiniana dilaga, e la generalizzazione è ottenuta per mezzo di una nuova idea, questa volta basata sull’esperienza, il cosiddetto principio di equivalenza, che stabilisce l’indistinguibilità tra accelerazione inerziale ed accelerazione gravitazionale, e da cui consegue l’equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale. Tale principio sancisce in sostanza l’impossibilità per un osservatore di poter distinguere tra gli effetti di un’accelerazione costante causata dalla spinta di un motore (o da un moto rotatorio uniforme), e gli effetti causati dall’accelerazione costante data da una forza gravitazionale: in entrambi i casi egli è spinto in una direzione da una forza costante.
La confusione della follia aumenta progressivamente: il “principio di equivalenza” stabilisce, allo stesso modo, l’indistinguibilità tra uno stato di imponderabilità - assenza apparente di gravità - dovuto ad una caduta libera in un campo gravitazionale, quale quella eccezionalmente sperimentata dagli astronauti in orbita intorno alla Terra, e uno stato di reale assenza di forze gravitazionali, di fatto inesistente. L’uomo orbitante attorno a un pianeta è infatti un’eccezione rispetto alla vita reale dell’uomo, dato che nel suo quotidiano (vita reale) sperimenta la normale direzione centripeta di sé secondo la direzione gravitazionale terrestre, non la combinazione di questa con un’altra direzione il cui moto è rettilineo ma simultaneamente anche curvilineo, data la forma sferica del pianeta.
Questo però non significa che lo spazio sia curvo ma semplicemente che nell’infinitamente grande come nell’infinitamente piccolo gli opposti coincidono. Lo spazio non è né curvo né non curvo. Curvo o non curvo sono qualità di oggetti che sono nello spazio, non qualità dello spazio in sé. Lo spazio è immateriale. Perciò si può parlare dello spazio interno di un sasso. La realtà di tale spazio interno non è il suo vuoto riempito di una determinata materia, bensì il suo rispondere a una percezione ideale, che la fisica non sa di avere come percezione ideale. Perciò con la stessa stravaganza con cui si può dire che lo spazio è curvo si potrebbe dire che il cerchio è un poligono di 360 lati. Però in tal modo si confonderebbero i “gradi” coi “lati”, rispettivamente “angolari” e “rettilinei”. Ciò che è angolo non può però essere anche retta. Oppure può esserlo solo con un’immaginazione non conforme a dati percepibili ma a dati congetturati o favoleggiati. Dunque occorre una diversa logica per affermare il principio di equivalenza fra imponderabilità e ponderabilità.
Il principio di equivalenza di Einstein è quindi la sua necessità dogmatica per mascherare di logica ciò che logico non è, dato che si tratta di equiparare due forze opposte: quella centripeta della gravità, e quella centrifuga del moto rotatorio costante dell’accennato orbitare, e in ultima analisi per ricondurre quest’ultimo ad una velocità di rotazione costante, alla quale siano applicabili gli effetti della relatività speciale. Questa operazione è insensata, perché si tratta di due forze opposte: un uomo in sella ad una bicicletta e coi piedi sui pedali cade se non pedala, in quanto il pedalare si oppone alla forza di gravità e al cadere. Dire che la gravità che fa cadere e il pedalare che non fa cadere si equivalgono significa tener conto del concetto astratto di forza (o di energia) sena considerare la realtà: l’energia gravitazionale proviene della Terra, l’energia del pedalare proviene dall’essere umano. Dire che sono equivalenti per il fatto che hanno in comune l’energia è un errore simile a quello di dire che il bianco equivale al nero perché sono colori, o che una mela equivale a una pera perché sono frutti.
Perciò il principio di equivalenza di Einstein non può essere dimostrato con la logica di Euclide, o di Pitagora, o della normale geometria terrestre.
Ecco perché in tale contesto Einstein utilizza una geometria non euclidea derivata dalle idee di Gauss, Riemann e Minkowsky.
Così, per formalizzare matematicamente la curvatura dello spazio-tempo instaurata da un campo gravitazionale, si serve di enti matematici chiamati “tensori”, in grado di definire deformazioni di una realtà multidimensionale.
Poiché però nessuno nota che la geometria non euclidea comporta l’alienazione della logica euclidea, avviene che l’antilogica entri sempre più “scientificamente” nella coscienza dello scienziato postmoderno.
La scienza cosmologica di oggi si basa infatti su due pilastri demenziali, la Teoria della relatività Generale di Einstein e la Legge di Hubble. Quest’ultima, ricavata in base a osservazioni fatte con telescopi, stabilisce che quanto più distante una galassia si trova da noi, tanto più grande sarebbe la sua velocità di allontanamento. Secondo tale scienza cosmologica lo spazio dell’Universo potrebbe essere tanto infinito quanto finito. In questo secondo caso, sarebbe illimitato: nel senso che lo si potrebbe percorrere in tutte le direzioni senza incontrare barriere.
E qui la demenza straborda nel linguaggio, dato che secondo la scienza (che io chiamo “scienziaggine”) non vi sarebbe più l’universo ma il MULTIVERSO, la cui esigenza ideologica nasce da multi-teorie bis-logiche, cioè bislacche, che prevedono la nascita di nuovi Universi nel processo di formazione dei buchi neri multi-massicci o super-massicci al centro delle galassie.
Per spiegare l’origine dell’espansione del mondo, la scienziaggine “contempla” altresì l’urto tra due o più universi! In tal caso, anziché di “Big Bang” arriva a parlare della teoria del “Big Splat”, il grande scontro! Manca la teoria del “Ciumpa, ciumpa” o quella del “Bunga bunga”, ma presto, con i “dovuti” Nobel si arriverà anche a quelle…
Sono comunque non pochi gli scienziati che sapevano con certezza (Ettore Majorana compreso) e sanno che la correttezza della relatività speciale poggiava e poggia su convinzioni e non su fatti provati, e che la relatività Generale non poteva e non può reggere a un’analisi critica.
Bibliografia essenziale:
- Richard Moody Jr. in “Nexus new time”, Ed. It. n° 52; Daniele Russo in “Nexus new time”, Ed. It. n° 68 (
http://cosmosdream.it/cosmos/archives/3448).
- Lucio Russo, “Amor che ne la mente mi ragiona. Uno studio de LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ di Rudolf Steiner” (2013).
- Rudolf Steiner, “Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe”, Ed. Antroposofica, Milano 2008, p. 246.
- Massimo Scaligero, “Il pensiero come antimateria”, Ed. Perseo, Roma 1978.
. Massimo Scaligero, “Segreti dello spazio e del tempo”, Ed. Tilopa, Roma 1985.
https://digilander.libero.it/VNereo/...i-einstein.htm