Gramsci. 70 anni dalla morte. Il ricordo di Bertinotti
Intervento del Presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti (Sala della Lupa, 17 aprile 2007)
Saluto il Presidente della Fondazione della Camera dei deputati, Pier Ferdinando Casini, che voglio ringraziare vivamente per aver promosso ed organizzato questo momento di riflessione in una ricorrenza così significativa per la storia e la cultura del nostro Paese.
Saluto con lui il Vicepresidente del Senato, Milziade Caprili, le altre autorità presenti e tutti gli intervenuti.
Un ringraziamento particolare desidero rivolgere al professor Mario Tronti, presidente della Fondazione Centro per la riforma dello Stato, che ricorderà la figura e l’opera di Antonio Gramsci.
La celebrazione di uno dei maggiori protagonisti della storia italiana del Novecento è assai impegnativa, specie quando essa viene compiuta dalle istituzioni che sono tenute a rispettare una divisa di equanimità che mal si addice alla ricerca storica. Il compito risulta ancor più impegnativo quando il protagonista non lo è stato soltanto sul piano istituzionale o politico o culturale ma lo è stato nella storia più generale del Paese, della sua formazione storica.
Tale è stata indubitabilmente la figura di Antonio Gramsci.
Gramsci è stato un protagonista del Novecento che ha assommato in sé la figura dell’intellettuale e del dirigente politico, secondo un registro che ha caratterizzato le maggiori personalità del movimento operaio in tutto il mondo nell’ascesa delle classi subalterne, ascesa che ha segnato di sé quel secolo grande e terribile che è stato il Novecento stesso.
Come dirigente politico, Gramsci è stato una presenza cruciale nella storia politica del movimento operaio e comunista e dell’Italia intera. Attore diretto di una grande impresa che lo conduce dall’ideazione dell’Ordine nuovo alla nascita e alla definizione del connotato essenziale dell’essere comunista in Italia.
Con l’Ordine nuovo, in un dialogo fecondo con un altro protagonista della storia politico-culturale del Paese come Piero Gobetti, affronta il biennio rosso lungo un’originale ispirazione di partecipazione operaia e di democrazia consigliare il cui deposito non si è certo esaurito in quella stagione.
Partecipa alla nascita a Livorno nel ’21 del Partito Comunista d’Italia, seppure senza svolgere un ruolo di primo piano, tanto da non entrare a far parte dello stretto gruppo dirigente del partito, ruolo di guida che invece assumerà al congresso di Lione del 1926 e che segnerà indelebilmente il profilo culturale e l’attitudine politica di fondo del movimento comunista italiano.
Vive direttamente, e in primo piano, la fase nascente del comunismo internazionale sorto dalla Rivoluzione d’ottobre. Il fascismo ne stronca la libera iniziativa, ma non riesce a spegnerne il pensiero che, nell’interminabile e drammatica detenzione nelle sue prigioni, si esprime al punto da realizzare un’opera come i Quaderni del carcere, che segnerà - e ancora influenza - la cultura del Paese.
Contro l’affermazione del fascismo è partecipe dell’opposizione democratica anche nelle aule parlamentari, con la quale, seppure critico severo dell’Aventino, condivide la sorte della cacciata da parte del regime.
Le carceri fasciste lo uccideranno, ma si può ben dire che il pensiero di Antonio Gramsci abbia costituito una causazione ideale della sconfitta del fascismo, erodendone le basi di legittimazione culturale, con la creazione di un pensiero interprete di una storia nazionale diversa e iscritta nell’onda lunga della formazione del carattere dell’Italia moderna e degli italiani.
Diversamente da altri, pur grandi pensatori, non aveva letto il fascismo come una parentesi nella storia del Paese, ma ne aveva indagato le matrici profonde, fino a interrogarsi sul sovversivismo delle classi dirigenti; perciò aveva lavorato a fondo su una diversa fondazione civile della nazione.
Il suo contributo intellettuale resta nella storia delle idee come una tappa saliente, nel pensiero rivoluzionario e nella storia dei marxismi quanto nella storia della filosofia e del pensiero umano. Perciò ancora oggi, e pur sempre tra andamenti assai alterni nel suo riconoscimento, Gramsci è così presente nel dibattito culturale nelle diverse parti del mondo.
In Italia, quale che sia la collocazione che la critica gli voglia attribuire nella storia del pensiero - sia come caposaldo della linea che lo legherebbe a De Santis, a Labriola e a Croce sia che lo si consideri come punto di discontinuità e di fuoriuscita da quella tradizione, punto da cui prenderebbe vita una differente fondazione culturale - quale che sia dunque la lettura della sua opera, quel che è fuori discussione è la sua importanza fondamentale nella formazione della cultura del Paese.
Nei Quaderni dal carcere vengono affrontate tutte le grandi questioni di così profonda portata storica da essere arrivate sino a noi e ancora in larga misura irrisolte, malgrado la vittoria dell’antifascismo, la nascita della Repubblica e la costruzione di uno straordinario impianto costituzionale. La questione cattolica, la questione meridionale, il rapporto tra gli intellettuali e la formazione della coscienza e dell’identità del Paese, la natura dei processi di lavoro nella modernizzazione testimoniano la straordinaria ampiezza e profondità di un’originale impresa intellettuale, in cui le stesse aporie - come ciò che pure è risultato contestabile - sottolineano la ricchezza di una ricerca guidata dal sistematico rifiuto di ogni dogmatismo.
Si capisce meglio, alla luce della sua opera, la ragione profonda del suo essere insieme intellettuale e dirigente politico. Proprio la categoria forse più originale e riassuntiva del suo pensiero, quella di egemonia, sembra strutturarsi proprio sull’identità di politica e filosofia, quale capacità di una classe egemone di proporre una prospettiva di universalizzazione più alta di quella delle altre classi e perciò storicamente vincente.
E’ quando, dirà Gramsci, “nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive”. Gramsci delinea così il compito della filosofia della prassi ed apre un capitolo nuovo nella storia delle culture politiche. L’onda lunga della storia profonda e di tanti smacchi può venire liberata per costruire una nuova storia.
In questa intrapresa gli intellettuali possono trovare un compito e assolverlo ma - avvertirà Gramsci, con un’intuizione di acuta e straordinaria attualità - solo in un incontro con il popolo, quella che Antonio Gramsci chiamerà la “connessione sentimentale”.
La sua connessione sentimentale, quella di Gramsci, è stata esemplare. Nasce in un piccolo centro della Sardegna e non se ne dimenticherà mai, fino ad ingaggiare - consapevole del peso del cibo e della cultura - persino una polemica modernissima con il Piemonte, dove viveva, che marginalizzava l’agnello nelle feste pasquali per favorire il consumo del coniglio della propria tradizione. Gramsci resta fedele alle radici, dirà di sé di essere “triplice e quadruplice provinciale”: eppure è l’umanità intera che lo interessa. Sposerà Julka, donna di un Paese lontano, da cui avrà due figli, Delio e Julik.
La lezione di vita che Gramsci ci lascia è indissolubile da quella dell’intellettuale e del rivoluzionario. E’ la lezione di un uomo che non rinuncia mai alla sua umanità e alla sua umana ricerca anche nella tragedia.
La tragedia della repressione, del carcere fascista, è pesante, violenta. Ma c’è anche, e quanto dura, la tragedia che viene dall’appartenenza alla propria parte. Il dramma di un primo grave dissenso, con la piega che prende il conflitto nel gruppo dirigente della Rivoluzione d’Ottobre perché la potrebbe perdere; poi i dissensi in carcere con i propri compagni e il duro isolamento, fino all’angoscioso dubbio di essere stato tradito dal proprio partito.
Bisognerà capire e imparare come sia stato possibile in quelle condizioni estreme difendere la fede nelle proprie ragioni e nelle ragioni del movimento politico in cui si milita continuando a pensare, a scrivere, a lavorare, ad arricchire quelle ragioni e quella storia.
Si può dire solo che l’Italia intera può essere onorata e fiera di questo suo straordinario figlio e maestro. Non mi pare il caso di ricordare qui altre ragioni di una sofferenza umana acuta: quelle fisiche, legate al dolore di una condizione di malattia e a malformazioni, e quelle psicologiche, legate alla straordinaria difficoltà dei rapporti familiari. Eppure anche questo non andrebbe dimenticato, non solo per leggere anche con questa attenzione una produzione culturale e politica eccezionale, ma anche per scorgere, con la delicatezza di sentimenti che questo piano richiede, anche a distanza di tempo, l’elaborazione del dolore e la costruzione della propria dignità.
Per questo abbiamo voluto accompagnare a questa celebrazione un piccolo omaggio a un lato meno solenne del grande intellettuale e politico, a quello di padre, pubblicando - d’intesa tra la Fondazione della Camera dei deputati e la Camera medesima e con il concorso della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, che ringrazio - le lettere a Delio e a Julik. Un contributo ad un’educazione sentimentale che è anche un’educazione alla cittadinanza.
Roma, 17 aprile 2007