Il 25 aprile degli sconfitti:
"Una giornata di lutto"


Il 25 aprile dei vinti non è in
piazza, non è fatto di canzoni che
si possano urlare a squarciagola,
non è costellato di comizi e di cor-
tei. Il 25 aprile dei vinti odia la luce
del sole, si consuma al chiuso delle
case. Il 25 aprile dei repubblichini,
dei ragazzi di Salò, degli uomini
che scelsero di tenere (o di indos-
sare per la prima volta) la camicia
nera è una giornata di lutto. La
“memoria condivisa” è una formula
vuota di significati. «Sono i morti le
uniche cose che condividiamo, noi
e loro». Gianluigi Garulli, classe
1926 di Fontanellato, era ancora
un milite della Guardia Nazionale
Repubblicana il 25 aprile del 1945.
Assieme al suo reparto era diretto
inValtellina dove si sarebbe dovuto
consumare l’ultimo atto del gover-
no fantoccio di Benito Mussolini.
Ma il milite Garulli non prese mai
posto nelle trincee del ridotto della
Valtellina, il suo reparto si fermò a
Treviglio all’annuncio della morte
del duce. Per intercessione di un
prelato i militi della GNR si pote-
rono spogliare delle divise e delle
armi (consegnate ai partigiani) e,
vestiti di abiti borghesi, si misero in
cammino per tornare a casa.
«A Parma arrivai il 30 aprile, due
giorni dopo lo scioglimento del mio
battaglione – racconta Garulli -. Fui
arrestato il 1 maggio perchè ero an-
dato tra la folla del corteo dei lavo-
ratori, alcuni partigiani mi avevano
riconosciuto. Finii in carcere per un
giorno e una notte».
Quanti anni aveva quando si è
arruolato?
«Avevo 17 anni. Mi presentai
presso la sede della legione che ave-
va riaperto i battenti da poche ore
in quello che oggi è il palazzo della
Prefettura, qui a Parma».
Perché scelse di combattere
coi fascisti?
«Io mi sarei arruolato coi tedeschi
se, nel frattempo, non ci fosse stata
la proclamazione della Repubblica
Sociale. Non mi andava il tradimen-
to consumato ai danni dei tedeschi,
ma non è soltanto questo: condivide-
vo i motivi che avevano portato in
guerra l’Italia contro gli Alleati».
Che cosa aveva intenzione di
fare una volta arruolato?
«Volevo andare al fronte per com-
battere gli anglo-americani».
Ci riuscì?
«Dovemmo
tribolare parecchio
per ottenere di essere schierati sul
fronte. Ci furono difficoltà interne
ed esterne da superare: il fatto è che
i tedeschi ci consideravano un fasti-
dio, non volevano unità italiane in
linea. Alla fine fummo schierati sul
passo della Futa. L’offensiva alleata
cominciò il 12 aprile del ‘45».
Lei si era arruolato molto
tempo prima,però.Come fu im-
piegata la sua unità fino a quel
momento?
«Dopo essermi arruolato finii a
Bologna per l’addestramento. Il mio
reparto non aveva fatto altro che ad-
destrarsi fino al 22 marzo del ’44,
quando un plotone venne attaccato
dai partigiani. L’episodio è citato
anche in un libro dedicato alla re-
pubblica di Montefiorino. Credo si
tratti del primo combattimento di
una certa entità tra partigiani e fa-
scisti nelle nostre zone».
Come considerava allora i
partigiani?
«All’inizio li chiamavamo bado-
gliani. Credevamo che volessero re-
staurare la monarchia.Solo dopo co-
munciammo a chiamarli comunisti,
capimmo che molti di loro volevano
portare in Italia il bolscevismo».
C’era comprensione per le ra-
gioni dell’avversario, oppure lei
li considerava dei nemici puri e
semplici?
«Non c’era nessuna comprensione.
Mi arrabbiavo come quando sentivo
degli italiani chiamare “alleati” gli
stessi che bombardavano le nostre
città ogni giorno».
Lei ha conosciuto personal-
mente dei partigiani, ha avuto
modo di parlare con loro?
«Ho avuto degli amici partigiani.
Due di loro, uno del partito d’Azio-
ne e uno comunista, sono venuti a
casa mia per consigliarmi di restare
nascosto per un po’. Lo hanno fatto
per amicizia superando i contrasti
ideologici che c’erano tra noi».
Che giorno è stato il “suo” 25
aprile?
«Un giorno di lutto. Spero di poter
un giorno ricordare i nostri morti».
Cosa intende per “nostri mor-
ti”?
«Tutti gli italiani morti in quegli
anni, i nostri e i loro. Le motivazio-
ni ideologiche sono sempre interiori,
sono un fatto privato. Ciascuno di
noi sa perché ha fatto certe scelte. Io
avevo tutto da perdere: un buon la-
voro, la vita. Non sono pentito».
Cosa si augura?
«Che quello che è successo ses-
sant’anni fa serva da monito ai
giovani».
Armando Orlando