Libano
Qadisha, dove il tempo si è fermato all'era dei profeti - prima parte -
di Massimo Alberico
Un grande santuario cristiano nel cuore montuoso del Libano che da sempre accoglie i perseguitati della fede. E’ la valle di Qadisha, patrimonio mondiale dell’umanità. Una serie ininterrotta di monasteri rupestri dove ancora oggi risuona ancora oggi l’eco di antiche preghiere: aramaico, greco, latino, arabo. Molti popoli per un solo Credo. Un’oasi di pace, silenzio e spiritualità che da 20 secoli costituisce un rifugio sicuro per tutti i cristiani del Medio Oriente.
Per raggiungere Qadisha da Beirut si segue la strada in direzione nord, verso Jbeil, l’antica Byblos, e Tripoli. La costa è completamente sfigurata dal cemento. Gli edifici appollaiati sui versanti delle montagne sembrano sfidare le leggi di gravità e il più elementare senso estetico. Colonia fenicia a partire dal III millennio a.C, Byblos diventò presto uno dei maggiori porti dell’antichità, centro nevralgico per il commercio del papiro e del Cedro verso l’Egitto. Non a caso fu qui che i fenici inventarono l’alfabeto lineare, spinti dalla necessità di trovare un metodo rapido di trascrizione dei contratti. Al giorno d’oggi il suq, il castello dei crociati, le rovine romane, e ciò che rimane dei bastioni del II millennio, fanno di Byblos uno dei luoghi più incantevoli del Mediterraneo orientale.
Arrivati a Tripoli, famosa per i quartieri medievali e per l’ottima pasticceria, si punta verso l’interno e il massiccio del Monte Libano. L’aria si rinfresca, l’occhio può ora godersi l’abbraccio tra le montagne e il cielo. Le brulle colline bruciate dal sole si colorano di verde. Tra la vegetazione si distinguono i boschi di cedro. Maestoso e bellissimo, il cedro è il simbolo nazionale e campeggia sulla bandiera del paese. Appartiene alla famiglia delle conifere e può raggiungere anche i 60 metri d’altezza. Si dice che alcuni alberi della riserva dei “Cedri di Dio”, non lontano da Qadisha, abbiano più di 3 mila anni.
I cedri del Libano vengono menzionati già nell’epopea di Gilgamesh, scritta più di 5 mila anni fa in Mesopotamia. L’ascesa dei fenici nel Mediterraneo orientale è legata a doppio filo allo sfruttamento e al commercio di questo legno, che costituiva anche il materiale da costruzione della loro potente flotta commerciale. E’ inoltre l’albero più citato nella Bibbia, secondo la quale fu usato nella realizzazione del Tempio di re Salomone a Gerusalemme, finito nel X secolo e distrutto dai babilonesi nel 586 a.C.
Lungo la strada si attraversano villaggi di montanari maroniti. Gente fiera e attaccata alle proprie tradizioni.
Ai caffè si chiacchiera tirando dal narghilè e sgranando il rosario. In lontananza si intravedono i campanili di Bcharré, la città che nel 1883 diede i natali allo scrittore e poeta Khalil Gibran, autore de “Il Profeta”, un libro profondamente imbevuto della spiritualità di questi luoghi. In un villaggio vicino nacque l’eremita Charbel Makhlouf, canonizzato da Paolo VI nel 1978, uno dei santi più venerati del Libano. Ma durante la guerra civile questa fu anche la roccaforte dei miliziani del Kataeb, la Falange, il partito conservatore cristiano fondato da Pierre Gemayel negli anni ’30 su modello di quello fascista italiano: qui erano situati i loro campi di addestramento.
Bcharré è tuttora il feudo di Samir Geagea, uno dei più controversi leader maroniti e attuale presidente delle Forze Libanesi. Durante la guerra fu uno dei principali comandanti delle truppe paramilitari cristiane. Sempre molto vicino a Israele, Geagea è stato accusato di essere l’esecutore del massacro di Ehden, in cui venne ucciso il filosiriano Tony Frangié insieme a tutta la sua famiglia. Dopo la guerra fu condannato a morte, ma riuscì a cavarsela con 11 anni di carcere. E’ tuttora presidente delle Forze Libanesi e membro della coalizione 14 marzo, vincitrice delle ultime elezioni legislative.
In vista di Bcharré si imbocca il bivio verso il fondovalle immersi in una natura rigogliosa. Dopo qualche chilometro la strada si allarga a formare uno spiazzo digradante verso il fiume Qadisha che, riposandosi nella sua corsa impetuosa, da origine a un piccolo lago. Un folto gruppo di escursionisti sta preparando un monumentale pic-nic: le donne si occupano delle insalate, mentre gli uomini armeggiano con il barbecue. “La pulizia è un segno di civiltà e di santità” si legge su un pannello metallico in cima ad un’asta circondata da una pila di maleodoranti sacchetti di spazzatura.
Il toponimo Qadisha deriva dall’aramaico e significa “santo”. L’aramaico era la lingua parlata da Gesù, l’idioma più diffuso in Medio Oriente prima dell’espansione araba nel VII secolo. Oggi è quasi totalmente scomparsa: sopravvive solo in una manciata di villaggi siriani dell’Antilibano, nella diaspora e nella liturgia maronita, i cui fedeli considerano la valle il più santo dei luoghi. Essa accoglie monaci e eremiti fin dall’alba del cristianesimo: sono 115 i monasteri, le chiese e gli eremitaggi ricavati nelle pareti di roccia carsica della vallata, spesso risalenti ai primi secoli del cristianesimo.
Un magnifico paesaggio culturale ancora praticamente intatto. Dall’altra parte della valle si notano i terrazzamenti, lunghi e sottili, che nel corso dei secoli i monaci hanno strappato alla montagna per poter coltivare l’olivo, la vite e il grano grazie all’abbondanza di acqua, vera e unica risorsa del Libano, l’oro bianco che da più di mezzo secolo alimenta la bramosia dei suoi potenti vicini.
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