Vittime della shoah: seconda generazione
Maurizio Blondet 04/05/2007
Per quanto straordinariamente longevi, i sopravvissuti dai lager di Hitler stanno scomparendo per ragioni anagrafiche.
Dopotutto, sono passati oltre 60 anni.
Come mantenere viva la memoria, e i vantaggi che ne sono seguiti?
L’idea è venuta a Gideon Fisher, un «attorney» ebreo-americano: egli esige dalla Germania adeguate compensazioni per i figli dei sopravvissuti, e a questo punto anche per i nipoti.
Questi poveri ragazzi, ha detto, «sono cresciuti all’ombra di genitori affetti da stress post-traumatico: hanno subito violenze, o la soffocante iper-protettività di papà e mamma, oppure hanno sofferto delle aspettative irrealistiche che i genitori hanno posto su di loro. Alcuni hanno avuto successo e sono anche diventati famosi; altri sono crollati». (1)
Così, letteralmente così.
Il popolo tedesco deve riconoscersi collettivamente colpevole dei fallimenti di questi ebrei così duramente provati dall’affetto paterno.
Deve pagare, generazione dopo generazione.
Gideon Fisher ha effettivamente avviato una causa collettiva (class action) raccogliendo le lamentele di figli abitanti in Israele, Germania e Stati Uniti, ed ha già contattato le autorità tedesche perché addivengano a una sorta di patteggiamento: paghino almeno le cure psichiatriche ai discendenti dell’olocausto che, a causa dei genitori, sono «crollati» e non hanno avuto successo nella vita.
Fisher stesso è un figlio sofferente, papà e mammà erano dei sopravvissuti.
Sette anni fa ha avuto l’idea di costituire una fondazione, «Fisher Fund», per la tutela degli interessi - diciamo così sindacali - della categoria.
Per qualche tempo ha conferito borse di studio ai bisognosi (ai nipoti, bisogna pensare: ai figli dei figli, anch’essi sofferenti).
Ma ora ha pensato meglio batter cassa a Berlino.
I suoi protetti, a nome dei quali agisce, sono «centinaia», dice.
Ma in realtà, secondo l’associazione ebraica Amcha, che assiste con provvidenze e cure la seconda generazione olocaustica, i figli degli scampati ai lager sono 350 mila solo in Israele.
E il 4% di loro, 14 mila, ha bisogno di cure psichiatriche.
Se Fisher l’ha vinta, il conto per la Germania sarà salato.
La percentuale non sembra altissima: si ha l’impressione che, statisticamente, forse anche il 4% dei figli di normali famiglie presenti qualche disturbo mentale.
Forse sono di più i figli e i nipoti dei tedeschi traumatizzati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, o dal fatto che la mamma è stata violentata dai liberatori mongolo-sovietici.
Chissà.
Ma per i goym, nessun diritto a compensazione.
Per gli eletti discendenti traumatizzati, il conto è presto fatto dall’Amcha, che ne ha in cura 878: hanno bisogno ciascuno di 80 ore di trattamento psichico l’anno, a 73,75 dollari l’ora.
Per tutti i 14 mila bisognosi, la Germania dovrebbe sborsare 8,35 milioni di dollari l’anno, oltre ai milioni che già sborsa per lavare la sua colpa collettiva.
Non solo: Fisher vuole denaro per raccogliere una «documentazione fotografica della seconda generazione e sulle sofferenze subite nell’infanzia».
Infatti, dice Fisher, «i rapporti distorti sviluppati tra questi figli e i loro genitori ha ritardato lo sviluppo della loro indipendenza. Essi sentono, retrospettivamente, di aver subìto una significativa regressione della loro capacità di rapportarsi agli altri».
Tutto ciò comporta ancora «inenarrabile dolore psichico».
Esempio: «Alcuni dei miei clienti mettono le loro scarpe vicino alla porta ogni notte, per essere pronti a fuggire» (dai genitori?).
«Altri si svegliano alle quattro del mattino e cercano il loro papà sotto il letto».
Letteralmente così.
Non c’è dubbio sull’esito della causa: i tedeschi pagheranno.
Avremo così una nuova generazione di olocaustici che non sono mai stati nei lager, ma che ci racconteranno ancora per mezzo secolo quel che hanno patito: pipì a letto, brutti voti, mamme soffocanti, insonnia, fallimenti di carriera, insomma tutte le inenarrabili esperienze che, come noto, sono risparmiate agli altri bambini più fortunati, o più goym.
Qualche giorno fa, su Repubblica, Gad Lerner bollava il fenomeno che ha chiamato «l’ossessione della memoria».
«L’ossessione della memoria - scrive - ci illividisce riproponendo come attuali i torti subiti nel passato. Ci incoraggia a vivere il presente come seguito naturale di una guerra tuttora in corso. Trasfigura nuovi nemici nei nemici storici. Aiuta i litigiosi a litigare. Li rifornisce di una riserva inesauribile di munizioni polemiche». (2)
Parole sante.
Ma ovviamente, Lerner non è preoccupato dalla ossessione ebraica, fondamento dell’unica religione rimasta e legittimatrice dello Stato persecutore ebraico.
Se la prende con l’Istituto della Memoria Nazionale creato in Polonia per stabilire chi ha collaborato col regime comunista, tramontato 18 anni fa e non 62, onde escludere questi collaborazionisti e informatori della polizia segreta dalle cariche pubbliche.
Lerner denuncia questa «lustrazione»: sta diventando una «Polizia della Memoria».
In particolare, Lerner ha difeso Bronislav Geremek, eroe della nuova libertà polacca, che si è rifiutato di sottoporsi all’esame.
Vogliamo indovinare perché?
Geremek è ebreo.
Prima di diventare un eroe di Solidarnosc, è stato capo della Gioventù Staliniana polacca, tanto zelante che a lui fu conferito l’onore di pronunciare l’elogio funebre di Stalin. (3)
Come altri «eroi laici» di Solidarnosc, come Adam Mitchinz (Schetzer), la cui mamma aveva, nel PC polacco, l’incarico di controllare la conformità ideologica dei libri di testo.
Figli di papà del regime, figli di ministri ed altissimi funzionari, che si baloccavano col trotzkismo, a formare un’ala sinistra autorizzata, e che solo dopo la guerra dei Sei Giorni decisero di buttare a mare il modello sovietico per ridiventare israeliti.
La nuova gestione della Polonia ha tanti difetti, ma ha buoni motivi per sbarrare ai padroni di ieri la strada del riciclaggio e delle cariche nella «democrazia», un salto in cui i post-comunisti sono maestri.
Del resto è più che probabile che molti polacchi e loro figli siano stati traumatizzati dal regime, e in modo più concreto dei nipotini della Shoah: carcere, lager, interrogatori notturni, licenziamenti, quando non fucilazioni (avvenne nel ‘56), e che ne portino ancora le fresche ferite.
Ma Gad Lerner dice no.
«Un regime democratico non fonda la propria legittimità sul passato remoto ma sulle elezioni presenti», intima, citando l’israeliano Avishai Margalit: ma non rivolge questa frase ad Israele, né a Gideon Fisher, né ai suoi profittatori della shoah.
Solo ai polacchi e ai lettoni.
La loro è «ossessione della memoria», illecita, un po’ fascista.
Tant’è vero che Lerner scrive la «m» minuscola, per distinguerla dalla sola Memoria sacrale, che merita la maiuscola liturgica.
C’è una sola memoria che è obbligatorio coltivare in eterno, anche nelle enuresi notturne dei nipotini.
Le altre memorie è invece obbligatorio cancellarle.
Non hanno valore.
Benvenuti nel Reich sionista.
La sua polizia della Memoria vi sta controllando. (4)
Maurizio Blondet
Note
1) Reuven Weiss, «Lawsuit: recognise second generation as Holocaust victims».
2) Gad Lerner, «L’ossessione della memoria», Repubblica, 28 aprile 2007.
3) Ho raccontato la conversione di questi nomenklaturisti nel mio «Cronache dell’Anticristo», Effedieffe edizioni.
4) Anche l’opera di Haendel, «Il Messia», e specificamente il coro dell’Alleluja, è stata recentemente «smascherata» come antisemita da tale Michael Marissen, ebreo che sul New York Times dell’8 aprile ha invocato il divieto di esecuzione. Il rogo del libro di Ariel Toaff ha evidentemente aguzzato l’appetito: si allunga la lista delle opere intellettuali da gettare nel falò israeliano. E’ la libertà autorizzata dalla «democrazia» religiosa olocaustica.
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