Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 8 gennaio 2007 Con l’anno nuovo muoiono vecchi miti. Uno di quelli più in cattivo stato, nel mondo del 2007, è il mito del carattere inoffensivo della cannabis, e dei suoi derivati. Non molte settimane fa è stato condannato per omicidio in Inghilterra un soldato di 31 anni che dopo un’abbondante fumata di marijuana coltivata in casa uccise il suo ospite di 53 anni, padre di un suo amico, ficcandogli profondamente nel cranio due rami d’albero spezzato, pronti per il fuoco del camino (l’amico, terrorizzato, si era salvato solo dandosi alla fuga). In Italia, nell’ultimo anno era stata confermata la condanna per Ruggero Jucker, il giovane che in una notte milanese di quattro anni prima aveva ucciso, con un affilato coltello per preparare il sushi, la fidanzata, infierendo su di lei con una crudeltà mai manifestata prima. Uscito dallo stato confusionale, Jucker, un giovane pacifico, aveva detto di non ricordare più nulla dopo aver fumato hascisc, che la polizia trovò poi nell’appartamento. Constatando che la droga conteneva, come ormai accade sempre più spesso, quasi il 20% di principio attivo, il tetracannabinolo. Negli anni 70-80, in cui molti adulti, oggi anche in posizioni di responsabilità, ricordano di aver fumato cannabis, il principio attivo presente era il 2%: ora s’è decuplicato.
Questo è certamente uno dei problemi, la cannabis che circolava trent’anni fa preparava petardi, oggi fabbrica bombe. Ciò che sta portando, però, al crollo del mito della “droga buona” in tutto l’Occidente è la scoperta, avvenuta negli ultimi anni soprattutto per merito delle neuroscienze, degli effetti che i derivati della cannabis, hascisc e marijuana innanzitutto, hanno sul cervello. Queste sostanze attivano particolari recettori e sostanze endogene (prodotte dal corpo), che influenzano sia l’azione della corteccia cerebrale, indebolendone la funzione inibitoria sul comportamento, sia l’amigdala, che è alla base del comportamento emotivo.
E’ appunto a causa della scoperta di questi precisi interventi del principio attivo della cannabis, il tetracannabinolo, su specifiche zone e funzioni cerebrali, che la comunità scientifica internazionale nega ormai il mito della cannabis come “droga buona” e pacifica, in voga appunto negli anni 70, per presentarne invece, in centinaia di ricerche scientifiche, il volto pericoloso, di sostanza scatenante aggressività incontrollate e veri e propri attacchi psicotici. Tanto che, secondo le statistiche americane, «sono proprio i consumatori di marijuana (tra quelli delle varie droghe), a commettere il maggior numero di reati a mano armata e ad essere incriminati per tentato omicidio o altri atti delinquenziali». Lo spiega un documento ufficiale Usa:Marijuana. Miti e fatti. La verità dietro ai luoghi comuni.
Il “nuovo volto” della cannabis era peraltro noto alla maggior parte di chi si sia trovato a curare la psiche umana. Era molto difficile che un uso continuativo di cannabis non portasse ad immaginazioni paranoidi, timori improvvisi, inaspettati botti di aggressività, di cui i pazienti parlavano. Rimanevano però esperienze relativamente isolate, note a quel terapeuta, a quel reparto. La novità è che, come per altri fenomeni prodotti negli anni 70 (ad esempio le dissoluzioni familiari), ormai ci sono trent’anni di statistiche a dimostrare cosa succede, dopo. E discipline, come psichiatria e neuroscienze, che hanno affinato i loro strumenti.
Sono sempre le prove della realtà ad abbattere i falsi miti. Così oggi i principali governi occidentali, mettono i giovani in guardia dal prendere l’ex droga della pace.