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  1. #1
    denty
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    Predefinito La spesa pubblica nel XX secolo

    L’11 maggio è stato presentato presso l’Istituto Bruno Leoni, con la coordinazione di Alberto Mingardi, a Milano, l’eccellente volume di Vito Tanzi e Ludger Schuknecht La spesa pubblica nel XX secolo. Una prospettiva globale (Firenze University Press, 2007, pp. 262).


    Nel momento in cui in Italia la spesa pubblica ha superato il 50% del PIL, ovvero una soglia intollerabile, prima di tutto dal punto di vista morale, giova leggere le pagine precise di Tanzi, uno dei maggiori economisti italiani, per quasi venti anni (1981-2000) direttore del Fiscal Affairs Department del FMI, e presidente dal 1990 al 1994 dell’International Institute of Public Finance, e di Schuknecht, Principal Economist della Fiscal Policies Division della Banca Centrale Europea. Naturalmente, occorre precisare che l’edizione originale in inglese del volume è del 2000, e che dunque molti dati possono risultare invecchiati. Non quelli tuttavia della prima parte del volume, che studia l’evoluzione della spesa pubblica nell’Europa dopo Sédan, l’Europa degli Stati nazionali che si consolidano, soprattutto, naturalmente, la Germania di Bismarck e l’Italia dei “notabili” – la simpatica periodizzazione fatta già propria da Indro Montanelli – e che dunque si configura come un vero e proprio testo di storia dell’economia pubblica, e delle sue ricadute sul privato. Quello che si evince è una chiara sintesi sui processi per cui la spesa pubblica crebbe a partire dal 1870, proporzionalmente sia alla crescita della Germania, e in parte anche dell’Italia, come “welfare states”, e come stati che incrementavano notevolmente, una volta uniti, le spese in infrastrutture e soprattutto quelle militari, che giungeranno, queste ultime sole, a coprire il 7,4% del PIL nell’Italia del 1900. A partire dai primi del Novecento aumenta la spesa pubblica, e dunque la tassazione (e cambiano i sistemi di tassazione), in maniera notevolissima, ma non ancora esponenziale come avverrà in gran parte d’Europa nel Secondo Dopoguerra.


    Ora, la questione della crescita smisurata del Leviatano, dei suoi impiegati e delle sue spese, è una interessante e vitale. Si intreccia naturalmente con la crescita del benessere che non grazie a (con buona pace di Keynes), ma non ostante l’aumento vertiginoso della presenza dello Stato, è altrettanto cresciuto. Interessantissima la tabella a pag. 75: con indicatori parametrati al 1990, e in dollari, il PIL pro capite italiano del 1870 era di 1.467$, nel 1870 (dopo la conquista di Roma) e di 10.302$ nel 1990, ma è cresciuto assai dal 1990 ad oggi (2007). Certamente, il progressivo gigantismo dello Stato era legato alla sua stessa sussistenza, nell’Europa continentale, e alla necessità di garantire, e soprattutto promettere, benessere in cambio di consenso e stabilità. Come era ben chiaro a Bismarck. Anche a danno dell’economia. L’economista francese Paul Leroy-Beaulieu, nel suo Traité de la Science des Finances metteva in luce nel 1888 (!) come una quota di imposte del 5-6% fosse moderata, mentre oltre il 12% si dovesse ritenere “esorbitante e dannosa per le prospettive dell’economia”. Ma sappiamo che è andata purtroppo diversamente. E non solo in Europa: avrebbe giovato ad un libro già ottimo il confronto con la spesa pubblica in rapporto al PIL americano nell’età di Wilson, che anticipa quella rovinosa di Roosevelt e del “New Deal” (“a very good deal for the Government!”).


    Ora, la questione che si pongono gli autori, nelle parti teoriche e contemporaneistiche, su come ridurre la spesa pubblica, posto che ormai sono ben pochi (ma tragicamente ancora troppi) gli economisti keynesiani al servizio dei governi (anche quello italiano) che ritengono si debba aumentare, è questione aperta e apparentemente irrisolvibile in Italia, non ostante le promesse di Berlusconi (che del resto non ha governato da solo né poteva purtroppo farlo), e anche quelle – di marinaio – di Prodi. Ora, la questione presenta numerosi aspetti. Se fosse stato rispettato il principio già del 1994, di una tassa “flat” poniamo del 20%, certamente, ovviamente, la spesa pubblica avrebbe dovuto essere ridotta. Ma questo solo in apparenza. Infatti, è un noto paradosso del liberalismo quello per cui applicando una “flat tax” del 20%, o anche in un range che poniamo vada dal 15% al 25%, certamente si entra in un regime di tollerabilità individuale (con buona pace di Leroy, buonanima) per noi abituati a ben altre aliquote (per imprese e individui). Ma allo stesso tempo, assicurando la riemersione di gran parte del sommerso, lo Stato paradossalmente chiedendo a tutti molto meno otterrebbe molto di più, o almeno tanto quanto ora. Per cui, di fatto, l’apparente dieta gli farebbe assai bene. Probabilmente è questo il messaggio del prossimo libro, tra gli altri, di Jeff Miron, che appunto parla di “pragmatic libertarianism”, e di nuovo di “minimal State”. Ma il paradosso è che, con la crescita dell’economia, anche una “minimal tax” porta ad un “maximum State”.


    Ora, non occorre portare gli autori su una prospettiva libertaria che è solo parzialmente la loro; essi infatti suggeriscono modi per rendere “efficiente” lo Stato. Certo, se ad esempio “dismettesse”, ovvero privatizzasse, tutto il settore dell’istruzione (mi riferisco all’Italia, dove pare affatto compromesso) e della sanità, sarebbe già un passo avanti. Ma allora cosa rimarrebbe dello Stato, che si troverebbe, adottando parallelamente una politica fiscale liberale di “flat tax”, un notevole “tesoretto” ogni anno? Verrebbero conseguente aumentati gli impieghi pubblici (per far cosa?) e magari i falsi invalidi? Il problema è che il Novecento ha dato vita ad un Leviatano smisurato, che è difficile far snellire, anche quando esso stesso si mettesse volontariamente a dieta. Ma un bellissimo libro come questo contribuisce profondamente a riflettere sul suo – e nostro – destino.

  2. #2
    Fiamma dell'Occidente
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    bellissimo grazie del post
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  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da denty Visualizza Messaggio
    il progressivo gigantismo dello Stato era legato alla sua stessa sussistenza [...] e alla necessità di garantire, e soprattutto promettere, benessere in cambio di consenso e stabilità. [...] Anche a danno dell’economia.
    Effettivamente bisogna ripensare alla funzione stessa di Stato... specialmente in un secolo caratterizzato dalle migrazioni di massa... ad esempio, bisogna garantire il “welfare” di chi? Chi fa parte e chi no della comunità nazionale? È giusto dare case popolari e servizi sociali agli immigrati?

    Citazione Originariamente Scritto da denty Visualizza Messaggio
    Se fosse stato rispettato il principio già del 1994, di una tassa “flat” poniamo del 20%, certamente, ovviamente, la spesa pubblica avrebbe dovuto essere ridotta. Ma questo solo in apparenza. Infatti, è un noto paradosso del liberalismo quello per cui applicando una “flat tax” del 20%, o anche in un range che poniamo vada dal 15% al 25%, certamente si entra in un regime di tollerabilità individuale (con buona pace di Leroy, buonanima) per noi abituati a ben altre aliquote (per imprese e individui). Ma allo stesso tempo, assicurando la riemersione di gran parte del sommerso, lo Stato paradossalmente chiedendo a tutti molto meno otterrebbe molto di più, o almeno tanto quanto ora.
    Boh... non sono ben documentato sull’argomento; avevo letto tempo fa che la flat tax era stata adottata recentemente mi pare nella Repubblica Ceca e in alcuni stati baltici... sapresti indicarmi i risultati economici a qualche anno dall’adozione?

 

 

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