....Draghi?

Roma. Ora lo sbarco tocca a lui, al terzo uomo della scuderia borghese; dopo Mario Monti, dopo Luca di Montezemolo, è il turno del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi.
Giovedì 31, terrà le considerazioni finali di quest’anno, le seconde del suo mandato di governatore.
Lo sbarco del Mayflower dei volenterosi, dicono con ironia.
L’anno scorso Draghi cercò di innovare la complessa liturgia bankitalista, fatta di paragrafi schematici e di una lingua un poco aulica ed economicista. Parlò in modo semplice, per una mezz’ora. L’anno scorso, alle prese con le sue prime considerazioni finali, la principale novità era sè stesso, era la fine del governatorato di Antonio Fazio, la fine dell’egemonia tomista sul sistema bancario nazionale, dopo lo scontro del 2005: le opa bancarie su Bnl e Antonveneta concluse con la destituzione di Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti e l’arresto di Gianpiero Fiorani (con l’appendice grottesca della scalata a Rcs da parte di un newcomer pasticcione, che era diventato a un certo punto il simbolo del ricambio nel sistema economico e finanziario reso asfittico e impenetrabile dalla logica dei patti di sindacato e del capitalismo di relazioni).
Dunque, l’anno scorso Draghi si presentava come la fine di quella strana epopea – fatta di Carnegie all’italiana, di aspiranti commodori Vanderbilt della contrada Finocchio –che aveva illuminato la scena finanziaria a metà degli anni zero del secolo. Era Draghi il rappresentante di una classe dirigente internazionale – egli ha un Phd al Mit di Boston, preso l’anno prima di Francesco Giavazzi – e il capo psicologico di una intera generazione di economisti (da Alberto Alesina a Roberto Perotti ad Alberto Giovannini) molto liberale, molto orientata al mercato, cui presta la sua solida esperienza di uomo di potere. Perché Draghi è l’unico di questa rete di uomini di economia che può davvero considerarsi uomo di macchina.
E’ stato il direttore generale del ministero ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, e non solo. E’ stato quello delle privatizzazioni (e della crociera sul Britannia dirà qualcuno ma, attenzione, come hanno spiegato Barucci e Federico Pierobon in un bel libro sulle privatizzazioni italiane, il ruolo delle banche d’affari straniere nelle privatizzazioni dei primi anni Novanta è ampiamente sopravvalutato: le banche d’affari internazionali fecero il loro business, le loro commesse, ma in quella fase l’acquisto diretto di proprietà delle ex partecipazioni statali da parte di imprese straniere fu irrilevante. E quanto alle commesse, a parte Mediobanca, solo le grandi case estere avevano esperienza di banche d’affari).
E’ stato anche l’uomo dei Draghi boys, di quella infornata di ragazzi che veniva dalle banche londinesi, dall’Ocse, dai PhD americani e che sono stati per dieci anni un’avanguardia di tecnici e anche – a onor del vero – l’unico pezzo di nuova classe dirigente selezionata da un sistema che non aveva più partiti.
Dunque, l’anno scorso Draghi, era questo: il leader di una comunità tecnocratica che aveva qualità di comando e attitudine al potere.

Qualcosa di più, oggi
Oggi è anche qualche cosa di più. Nell’ultimo anno, è stato molto abile.
Ha lasciato fare ai player bancari nazionali e il processo di consolidamento è proseguito.
Intesa Sanpaolo è stato il primo grande colpo, poi Banca Lombarda e Bpu, poi alcune altre integrazioni tra popolari e infine il colpo grosso, la nascita di Unicredit Group, l’unione tra la banca di Alessandro Profumo e quella di Cesare Geronzi, un’operazione che ha dato vita al secondo gruppo europeo e sesto nel mondo.
Ma sull’operazione Unicredit Group, la maggior parte degli osservatori, degli analisti, dei giornalisti che seguono il settore ha osservato che il ruolo di Draghi è stato pro-attivo.
Era favorevole a questa fusione. C’è chi vede in questo orientamento lo sguardo d’insieme, la visione del generalista, dell’uomo che sa come immaginare uno scenario. Unicredit Group è l’argine al rischio di una egemonia creditizia Intesacentrica, ed è pure un fattore di riequilibrio degli assetti del potere economico e finanziario, e delle conseguenze sui rapporti di forza politici.
Non bisogna dimenticare – notano gli osservatori – che la grande Unicredit blocca Giovanni Bazoli su Generali, e anche sul Corriere della Sera.
E oggi il Corriere è il centro di una pressione, ma anche della promozione di una élite che chiede spazi con voce forte.
Il professor Draghi è molto prudente, ma il 31 sapremo, dalle reazione che susciterà, quale peso gli avversari della linea avviata da Monti e Montezemolo gli attribuiscono.

Su il Foglio di sabato 26 maggio

saluti