L’IMPORTANTE E’ DURARE


Nulla è più essenziale che domare il tempo attraverso la continuità delle generazioni
Per questo la madre va difesa con un padre e un matrimonio contro tutti gli odiatori di pance


Se tu sei un uomo sai che l’importante
è durare. Una donna innamorata
potrebbe anche dirti che non lo è
ma tu, se sei un uomo, non le crederai.
Ti verranno in mente due antichi versi
che racchiudono la melanconica verità
della grande poesia, uno di Cristiano
Malgioglio l’altro di Carlo Porta.
Nel secolo scorso Mina cantava “L’importante
è finire” e molti sanno che
l’autore, appunto Malgioglio, in origine
aveva pensato a altro infinito presente,
“venire”, e ogni uomo sa che
non c’è risultato senza applicazione. Il
Porta due secoli fa metteva in bocca a
una mamma milanese il motto araldico
che ho sempre sognato di meritare:
“Dur, e ch’el dura”. Con queste parole
la mamma, anzi “la mammina”, insegnava
la vita alle due figliole ancora illibate
ma già molto curiose. Mi rendo
conto che la poesia portiana è lontana
dalla Milano contemporanea quanto le
Mille e una notte dall’odierna Baghdad
e questo mi fa pensare che anche
per le città l’importante è durare. Ci
sono città che durano e città che non
durano e quelle che durano lo fanno
soprattutto grazie alla natura, più resistente
della cultura all’usura del tempo.
Milano non è durata perché quella
poca natura che aveva (l’acqua dei Navigli
interni) era già parecchio artificiale
e quindi priva di difese contro la
cultura dell’automobile che a partire
dal 1929 ha trasformato i canali navigabili
in via Pontaccio, via Edmondo
De Amicis, via Santa Sofia, via Visconti
di Modrone, coi risultati estetici e
polmonari che si conoscono. Roma è
durata perché abbondante di natura (i
sette colli e tutti gli altri saliscendi, l’isola
Tiberina…) e di archeologia che è
il lento ritorno allo stato di natura, erbacce
polvere e gatti, della cultura
morta ma insomma non del tutto. Così
ancora oggi puoi capire Roma leggendo
Marziale mentre Porta è un marziano
a Milano. Resta, il romantico poeta
dialettale, un riflettore acceso sull’affaccendarsi
umano: “Dur, e ch’el dura”
è sempre potentemente attuale.
* * *
Se tu sei un guardaroba sai che una
Church’s si può risuolare due volte. Di
durata uguale o forse perfino superiore
sono le Alden, le Allen Edmonds, le
Edward Green e magari le Grenson. Se
tu sei un guardaroba patriottico non
sei felice di constatare l’incompatibilità
fra durata e scarpa italiana, infrivolita
e infinocchita dallo stilismo, e
oscilli tra consolazione e preoccupazione
ogni volta che sui giornali leggi che
Church’s appartiene a Prada. Però percepisci,
nel profondo dei tuoi cassetti
profumati di canfora naturale, che la
permanenza è una nazione spirituale
in cui Northampton e il Pollino, sedi di
calzaturifici e di pini tendenti all’eterno,
a dispetto della geografia materiale
sono località limitrofe. Questa nazione
ha inni, bandiere, slogan uno dei
quali eccolo: “Chi più spende meno
spende”. Naturalmente funziona quando
i tanti soldi non vengono devoluti alle
griffe, i cui futili modelli cambiano
ogni stagione, ma ad aziende specializzate
che se possiedono un reparto stile
lo nascondono in cantina. Protagonisti
devono essere gli artigiani chiamati a
chinarsi per giorni sulla stessa scarpa
che abituata alla lentezza esigerà in seguito,
per esprimersi a lungo, altrettanto
lenta manutenzione. Per giungere
sulla vetta di due risuolature bisognerà
quindi affidarla a calzolai non frettolosi,
capaci di montare una suola
Goodyear senza ricorrere alla scorciatoia
dei chiodi. Con le accortezze di
non usarla mai due giorni di seguito e
di inserirvi sempre la sua brava forma
di legno, la scarpa in questione durerà
minimo vent’anni e da ogni lucidatura
uscirà più bella. All’inizio sarà un po’
dura ma dandole il tempo di adattarsi
al piede diventerà una pantofola.
* * *
Se tu sei un tavolo da cucina sai che
solo il cibo lentamente preparato e collettivamente
mangiato ti onora, e godi
sotto le spinte della donna che impasta
il pane per la famiglia. Non puoi sopportare
la baguette industriale soffocata
nelle confezioni dei centri commerciali
né il finto pane artigianale delle
botteghe rivestite di perlinato quasi-legno.
Perché non durano. Né l’uno né
l’altro. Non durano. Li compri al mattino
e alla sera sono immangiabili e bisogna
buttarli primo perché vicino a
casa non ci sono più galline né maiali
secondo perché nemmeno volendo si
potrebbero usare per qualche saporita
ricetta di recupero come la pappa al
pomodoro. Quel pane, lievitato in fretta,
in fretta diventa gesso e prende un
odorino che rovinerebbe qualsiasi preparazione,
anche l’acquacotta, i canederli,
la panzanella, la ribollita, la minestra
di pangrattato che mi faceva
mia madre. Il pane in Italia sta morendo,
precipita nei consumi al punto che
ci sono persone che non lo comprano
nemmeno più, tanto è cattivo, tanto
quasi tutti sono quasi sempre a dieta.
Se gli italiani non fossero pecore matte,
se non dessero la lingua in bocca all’entropia,
si potrebbe ipotizzare una
resurrezione almeno quaresimale. Io
l’ultimo Venerdì Santo l’ho fatto a pane
e acqua e mi sono trovato così bene
che, a Dio piacendo, estenderò lo stesso
regime a tutti i venerdì della quaresima
2008. Pane ovviamente ad libitum,
per arrivare a sera sazi e sacri. Ma figuriamoci,
ma quando mai potrà ridiventare
un costume di massa. Tu che sei
un tavolo da cucina con le gambe di
quercia e il piano di marmo di Carrara,
tu che simpatizzi solo con i beni come
te durevoli, attraverso ogni tua fibra
pensi: Tanto peggio, tanto meglio. Ti
basta che a fare il pane duraturo ci sia
la tua padrona. Non lo farà come zia
Carmela a Picerno che aggiungeva le
patate per mantenere edibile l’immensa
panella (tre chili? quattro?) anche
un mese. No, non credo, dove lo trova
la tua padrona un forno a legna? Non
lo farà nemmeno come Massimiliano
Alajmo, il cuoco di Padova, la cui ricetta
si trova a pagina 384 del libro dedicato
al ristorante Le Calandre. Fa impressione
soltanto a leggerla: 1° lievito
740 gr di acqua 640 gr di farina forte
360 gr di farina di grano tenero integrale
150 gr di farina media 90 gr di farina
integrale di segale 90 gr di farina integrale
di farro 70 gr di farina integrale
di grano saraceno 40 gr di lievito madre
maturo (rinfrescato 3 volte) 8 gr di
semi misti (nigella girasole papavero) 2
gr di lievito di birra. E questi sono solo
gli ingredienti del primo impasto che
dovrà lievitare per otto-dieci ore a otto
gradi di temperatura, poi bisognerà
pensare al secondo impasto che prevede
l’aggiunta di farina media, farina
debole, sale e malto in polvere con una
seconda lievitazione di tre ore a trenta
gradi a cui seguirà, dopo la formazione
delle pagnotte necessariamente di
grande formato (“perché lo sviluppo
gustativo risulti più evoluto”), una terza
lievitazione di un’ora. Dove la trova
la tua padrona un’impastatrice tuffante?
E tutte le farine elencate? E la nigella?
Ma anche senza impastatrice, e
con una sfoltita ai semini e alle farine,
davanti alla tua signora panificatrice
bisognerà inginocchiarsi, dea del focolare,
vestale del lievito immortale. Perché
il segreto del pane che ci mette
una giornata a crescere e un’infinità di
tempo a decadere non è mica il papavero
(fiore adorato) ma il lievito madre
costituito da un apparente nulla (acqua,farina e un elemento scatenante
ovvero yogurt bianco intero oppure
miele o uva passa) che nel segreto della
cucina si gonfia come ha fatto la sua
pancia quando l’apparente nulla di lui
ha incontrato laggiù nel buio umido
l’apparente nulla di lei. Sono le donne
che fanno il pane le donne da sposare,
mica le donnette mediocremente golose
che estendono l’area del diabete
confezionando stucchevoli torte, sono
le donne del pane lento, del pane frutto
del lavoro profumo della mensa, le
muse a cui i poeti devono dedicare le
loro poesie e mi raccomando che siano
endecasillabi bene incatenati perché
con i versi liberi, con le parole in libertà,
il pane non si forma e non si
mantiene. La ricetta della durata è regola
e mistero.
* * *
Se tu sei un artista sai che l’importante
è durare come mi insegnò il musicologo
Giuseppe Tarozzi un anno lontano
a Milano. Mi disse che la frase era
di Hemingway ma nemmeno con Google
sono riuscito a trovare “l’importante
è durare” nell’opera dello scrittore
americano. Può darsi che non sia qualcosa
di effettivamente pronunciato ma
una sintesi successiva, come “il fine
giustifica i mezzi” di Ser Niccolò. Se tu
sei un poeta questa verità la conosci
meglio di me. Mario Luzi diventò un
nobilabile solo perché sopravvisse ai
colleghi ben più bravi. Maurizio Cucchi,
dico Maurizio Cucchi, se campa
ancora un poco avrà il suo Meridiano,
ci puoi scommettere, sono decenni che
ciabatta nelle redazioni a Segrate, se i
tarli non se lo mangiano lo notificheranno
come pezzo di antiquariato,scuola lombarda d’epoca. Se tu sei un
artista figurativo, uno che sa dipingere,
attendi con ansia l’uscita del libro
intitolato “Sindrome dei Jalisse” del
critico Luca Beatrice, contenente l’elenco
degli artisti che dopo essere stati
invitati da Bonomi e Gioni alla
Biennale del 2003 sono svaniti nel nulla.
Ci saranno anche i dispersi di Kassel
e tutti coloro che hanno ballato
una sola estate sulle pagine di Flash
Art, gente usata e gettata che poi si è
data all’ippica o ai call center. Tu che
lavorando di pennello ti sei attirato il
disprezzo di Giancarlo Politi e Ida
Giannelli fai bene a pazientare sulla
riva del fiume: i cadaveri, di lì devono
passare. Scrivo questa pagina sotto gli
effetti dell’esaltante “Gimme shelter”
di Patti Smith, versione 2007 di una
canzone del 1969 degli Stones, altri tipi
ostinati. La cantante di Chicago,
che sebbene fotomiracolata da Robert
Mapplethorpe nemmeno da giovane
fu particolarmente fica, le ha seppellite
tutte le veline del rock anni Settanta,
Ottanta e Novanta. Fulgido
esempio di stile, teso come un missile
lanciato oltre il tempo.
* * *
Se tu sei un paesaggio ti commuoverai
quando una ragazza dai capelli
biondi che sembrano pennellati da
Botticelli, insomma una fata pre-preraffaellita,
declamerà Joyce Kilmer
avanzando a piedi nudi sulla tua erba
primaverile: “Credo che non vedrò
mai/ una poesia bella come un albero./
Le poesie sono fatte da sciocchi come
me,/ ma soltanto Dio può fare un albero”.
Ti farà meno effetto, paesaggio, se
a declamarti qualcosa sarò io che non sembro pennellato da Botticelli. Ma
ugualmente ti farà piacere ascoltare
questo passo dall’ultimo libro di Pia
Pera: “Guardo un filo d’erba, e penso
che in un nulla è diverso dal filo d’erba
guardato da uomini che vivevano in
un mondo completamente altro. Non
so perché, questo pensiero mi dà una
vertigine”. Io lo so, paesaggio, cosa
prova la scrittrice lucchese: è la vertigine
della durata. La provo anch’io
quando mi inginocchio su una vecchia
panca di una chiesa semibuia, quando
cammino tra due file di cipressi che
uno sconosciuto ha piantato secoli fa.
L’uomo moderno non erige cattedrali
e non pianta cipressi né querce perché
non vede al di là della propria
anagrafe. E’ un ipovedente. Non intende
lasciare memoria di sé in quanto,
forse giustamente, pensa di non avere
mai detto o fatto nulla di memorabile.
Se ha figli, e capita di rado, assegna loro
un nome alla moda che quando entreranno
nella vita adulta sarà già vecchio
di vent’anni. C’è un fenomeno: le
famiglie aristocratiche che hanno conservato
i nomi di famiglia, in cui i bambini
vengono chiamati ancora oggi come
certi remoti avi distintisi a Lepanto,
conservano i palazzi, i castelli e le
vigne, quelle invece in cui le ragazze si
chiamano non dico Samantha ma anche
solo Sabrina, e i ragazzi non dico
Mirko ma anche solo Davide, hanno invariabilmente
perso tutto.
* * *
Se tu sei una pancia sai che ti servono
nove mesi di attenzioni e di rispetto
durante i quali, specie verso la fine,
i passeggeri dei mezzi pubblici si devono
alzare per lasciarti il posto. Importante
è anche disporre di mille-millecinquento
euri per esami pre-parto
più o meno necessari e obbligatori e
che nessuna amministrazione pubblica
ti rimborserà mai, impegnata a finanziare
notti bianche, feste del cinema,
aborti. Poi servono due capezzoli
che per venti settimane si offrano a
morsi sdentati, e la disponibilità a
preoccupazioni e spese per minimo
vent’anni affinché una creatura imbelle,
bisognosa di tutto, si trasformi infine,
forse, in un uomo o in una donna.
Se tu sei una pancia sai che la placenta
non basta a difendere ciò che contieni,
la verità è altrettanto preziosa.
Serve ad esempio che il matrimonio
designi come da etimo la relazione incentrata
su una madre, effettiva o potenziale.
E che gruppi organizzati di
omosessuali e altri capricciosi non risucchino
tutti i diritti disponibili su
piazza, lasciandoti sola con i tuoi doveri.
Serve che un impegno a lungo termine
unisca portatrice e facitore di
pancia e che questo non venga controfirmato
da avvocati o commercialisti o
assessori eletti promettendo posti di
lavoro e sovvenzioni, presto sostituiti
da altri assessori più abili a promettere,
ma da un’entità permanente: la
chiesa in missione per conto dell’Eterno.
Che se il padre non esiste o non basta
(e non basta mai) ci siano i nonni, i
cugini, le zie, i padrini di battesimo, le
amiche di scuola, i vicini di casa ovvero
la comunità che non ha diritto di
definirsi tale se non è interessata al
bene comune che la pancia rappresenta.
Se tu sei una pancia i cuori e le coscienze
devono onorarti, intimamente
e pubblicamente, i soldi e i simboli devono
indirizzarsi a te. I padroni di casa
che non vogliono bambini nei loro
appartamenti devono vergognarsi come
cani, i datori di lavoro che esigono
una lettera di dimissioni già firmata in
caso di gravidanza devono sputare nello
specchio ogni volta che si fanno la
barba. Ai baristi che scacciano le madri
allattanti va sospesa la licenza per
un mese. L’importante è durare, nulla
è più essenziale che domare il tempo
attraverso la continuità delle generazioni.
Un popolo esiste fino a quando
all’entropia della morte definitiva sa
opporre la liturgia della vita che si ripete.
Se tu sei una pancia o se tu eri
una pancia o se tu sarai una pancia ti
serve che oggi, sabato 12 maggio, in
quella piazza di Roma già sporcata dai
cantori del preservativo, ci siano intorno
a te un milione di persone.
Camillo Langone