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    Molon Labe
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    Predefinito Il settimo giorno- 1967

    Direttore Responsabile: Stefano de Andreis (EST) Il settimo giorno di
    Israele e l'attacco dei nuovi storici

    Roma, 28 mag (Velino) - "Le grandi guerre della storia finiscono per
    diventare grandi guerre sulla storia". Michael Oren, membro dello Shalem
    Center di Gerusalemme, storico di fama internazionale, autore di "La guerra
    dei sei giorni" (Mondadori), sul *Jerusalem Post* interviene nel dibattito
    sulla guerra del 1967. L'occasione è il quarantennale e l'uscita del nuovo
    libro di Tom Segev "The seventh day". Al tema dedica la copertina anche il
    settimanale inglese *The Economist*. "Dopo solo pochi anni da quando
    l'ultimo soldato è tornato dal campo di battaglia, le più evidenti verità
    circa la natura del conflitto e le ragioni che l'hanno reso inevitabile
    subiscono l'assalto di revisionisti e contro-revisionisti la cui veemenza fa
    a gara con quella dei combattimenti reali". Poche di queste battaglie,
    spiega Oren, sono tanto amare quanto quella che viene oggi combattuta sulle
    guerre arabo-israeliane, "dove un drappello di sedicenti 'nuovi storici'
    cinge d'assedio la narrazione fino a poco tempo fa inattaccabile della
    creazione e della sopravvivenza dello stato degli ebrei". La controversia
    storica sul 1967 è particolarmente aspra. "La convinzione che la guerra dei
    sei giorni sia stata imposta a Israele da un'alleanza di stati arabi votati
    alla sua distruzione, e che le conquiste territoriali israeliane siano state
    il risultato del suo legittimo esercizio del diritto di autodifesa in una
    guerra che aveva fatto tutto ciò che poteva per evitare, è stata fermamente
    condivisa da tutto l'arco politico israeliano. Ma il fatto che la
    destinazione finale di quei territori continui ad essere al centro del
    dibattito politico israeliano e di trattative in corso a livello
    internazionale fa della guerra del 1967 un obiettivo assai ghiotto per le
    reinterpretazioni revisioniste".
    Questi autori sembrando condividere la tesi che le scelte degli arabi
    abbiano avuto ben poco a che fare con lo scoppio delle ostilità nel 1967, e
    che Israele non solo non abbia saputo evitare la guerra, ma che anzi l'abbia
    attivamente sollecitata. "L'ammassarsi di truppe egiziane nel Sinai,
    l'espulsione della Forza di Emergenza dell'Onu e la chiusura degli stretti
    di Tiran, i patti militari fra paesi arabi e l'impegno pubblicamente preso e
    ribadito di sradicare lo stato degli ebrei, tutto questo sarebbe stato
    provocato o gonfiato a dismisura da Israele per conseguire i suoi scopi di
    coesione interna, espansione territoriale o altri obiettivi reconditi". Uno
    di questi storici è proprio Segev: "La paura israeliana non aveva fondamento
    nella realtà" scrive Segev. "In verità non v'era alcuna giustificazione per
    il panico che precedette la guerra, né per l'euforia che si diffuse dopo di
    essa". Oren è convinto del contrario: "I documenti diplomatici israeliani da
    poco resi disponibili, relativi al periodo precedente il 5 giugno 1967,
    offrono prove schiaccianti contro ogni accenno all'idea che Israele abbia
    voluto la guerra con gli arabi. Le decine di migliaia di dossier finora
    declassificati non contengono un solo riferimento al presunto desiderio di
    sviare l'opinione pubblica dalla situazione economica, di rovesciare i
    governanti arabi, di conquistare o occupare territori in Cisgiordania, nel
    Sinai o sulle alture del Golan. Al contrario, il quadro che emerge è quello
    di un paese e di una dirigenza leadership profondamente spaventati dall'idea
    di uno scontro militare e disperatamente tesi ad evitarlo quasi a qualunque
    costo".
    Nel 1967 in gioco non c'era l'espansione israeliana, ma la cacciata in mare
    degli ebrei. E' la maledizione della vittoria, la vittoria nella guerra dei
    sei giorni del 1967, quando Israele prese tutti di contropiede e, contro
    l'opinione delle cancellerie occidentali, regolò i suoi conti con i nemici
    arabi occupando la Cisgiordania, la striscia di Gaza, le alture del Golan e
    il Sinai (poi ceduto all'Egitto in cambio del riconoscimento, l'unico
    accordo che abbia retto finora alla prova della storia). David Ben Gurion
    all'epoca si era ritirato nel deserto del Negev, dove morirà qualche anno
    più tardi. Ma si sottrasse per pochi giorni al suo luogo di ritiro e di
    meditazione per mettere sull'avviso i compatrioti. Disse, in quelle
    occasioni riservate, che i territori dovevano essere restituiti, che Israele
    se ne doveva liberare a tutti i costi, perché quella vittoria era la
    benedizione dell'orgoglio nazionale e sionista degli israeliani ma al tempo
    stesso era una maledizione storica, un modo di alterare in permanenza gli
    equilibri strategici su cui si era costituito e reso indipendente, con la
    forza di tutti i movimenti di fondazione di uno Stato, quello straordinario
    paese che era (e che è oggi) Israele. La profezia di Ben Gurion regge,
    purtroppo, da quarant'anni. L'ultima prova tangibile è stata la
    trasformazione di Gaza da terra occupata in deserto da cui i palestinesi
    possono lanciare i razzi contro le città israeliane. "Territori contro pace"
    è uno slogan morto. Chi ha cercato di dargli un contenuto politico attivo,
    Yitzhak Rabin, è stato freddato a pistolettate. La costruzione di Oslo è
    stata maciullata. I tentativi di aggiustare il processo di pace con i
    negoziati di Camp David sono falliti sotto le bombe umane di Hamas.
    Israele continua a vivere dal tempo di una intera generazione biblica nella
    paradossale e tragica situazione di essere un paese assediato e un paese
    occupante. Il 19 giugno 1967, dopo la Guerra dei Sei giorni, il governo
    israeliano offrì di restituire il Sinai e le alture del Golan a Egitto e
    Siria, in cambio della pace. L'offerta fu respinta. Israele propose anche di
    creare un'entità autonoma nella Cisgiordania, che avrebbe potuto col tempo
    diventare uno Stato palestinese indipendente. I notabili palestinesi
    rifiutarono, per timore che Arafat li avrebbe fatti uccidere come
    traditori. Ci vollero altri dieci anni perché il presidente egiziano Anwar
    Sadat compisse il suo storico viaggio a Gerusalemme e stringesse la mano a
    un ebreo, scatenando l'accusa di apostasia dell'internazionale del jihad. Il
    trattato di pace che ne scaturì includeva un piano di autonomia per i
    Territori, seguito dopo cinque anni da negoziati sullo status finale. Arafat
    denunciò l'intero progetto come una resa umiliante "all'imperialismo
    americano e israeliano" e auspicò pubblicamente l'assassinio di Sadat. Sadat
    fu assassinato due anni dopo. Michael Oren ha dunque ragione a difendere
    l'identificazione eroica di Israele con quella vittoria militare che mise
    fine alle sofferenze di un popolo paria e gli restituì l'orgoglio nazionale
    senza dargli né la sicurezza né la pace. E' l'unica lezione che possiamo
    ricavare dal "settimo giorno". (Giulio Meotti)

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