L’acqua bene pubblico? Un emendamento di Rifondazione e dei Verdi al disegno di legge Bersani sancisce che “la titolarità delle concessioni di derivazione delle acque pubbliche è assegnata a enti pubblici”. Anche se entrambi i rami del Parlamento daranno il via libera, dal punto di vista pratico gli effetti saranno limitati, in quanto l’emendamento riguarda solo la fase a monte della filiera dell’acqua, ma la filosofia sottostante desta qualche preoccupazione. In ogni caso, si tratta di una vittoria, fattuale e simbolica, dell’estrema sinistra della coalizione: Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi, e di uno schiaffo al partito democratico, che attorno alle liberalizzazioni sta tentando di costruire la sua identità. Tacciono, ma non necessariamente dissentono, la Sinistra democratica di Fabio Mussi e Gavino Angius e la destra sociale. L’idea di fondo è che l’acqua, in quanto risorsa fondamentale, non possa essere abbandonata allo sfruttamento capitalistico. Una delle formulazioni più esplicite di questa tesi si trova in un libro del 2001 di Riccardo Petrella, “Il manifesto dell’acqua”. Petrella, professore di mondializzazione all’Università cattolica di Lovanio, è stato presidente dell’Acquedotto pugliese per volontà del governatore Nichi Vendola, carica da cui si è dimesso per l’impossibilità pratica di ripubblicizzare l’acqua nella regione, cioè ricondurne l’intera filiera sotto l’ombrello pubblico ed erogarla secondo criteri di gratuità. Scrive: “l’acqua non è una risorsa naturale come le altre... Ogni persona o comunità umana ha il diritto d’accesso a questo bene vitale. L’accesso all’acqua e l’obbligo della sua conservazione per la sopravvivenza appartengono all’umanità, collettivamente, non possono essere oggetto di un’appropriazione individuale, privata”.
La maggior parte degli economisti la pensano diversamente. Per Enrico Colombatto (Università di Torino) “la gestione pubblica è la causa principale delle attuali inefficienze del nostro sistema idrico. Essa impedisce al prezzo dell’acqua di allinearsi al rapporto tra domanda e offerta, creando così un incentivo allo spreco”. Per lo stesso motivo, un contesto competitivo è necessario a mobilitare le risorse necessarie agli investimenti nella manutenzione e sviluppo delle reti idriche. A livello nazionale, circa il 30 per cento dell’acqua viene dispersa lungo il tragitto, una percentuale che al sud sale al 40 per cento. Dice Bruno Spadoni, responsabile economico di Confservizi: “si calcola che siano necessari investimenti di almeno due miliardi di euro all’anno. Questo fabbisogno di capitali non può essere colmato dalla finanza pubblica. Quindi la pubblicizzazione è incompatibile con le esigenze del settore”. All’obiezione che il combinato disposto tra liberalizzazioni e privatizzazioni potrebbe determinare un aumento dei prezzi tale da lasciare all’asciutto le fasce più deboli della popolazione, Colombatto risponde che “questo è un problema di povertà, non di gestione dell’acqua. Si può risolvere, per esempio, fornendo integrazioni al reddito, anche se da liberista non condivido queste tecniche. Quel che voglio dire è che, proprio perchè l’acqua è un bene importante, essa deve essere gestita con criteri di mercato”, che producono trasparenza ed efficienza.
Del resto l’esperienza di altri paesi mostra che gli sprechi e il sottoinvestimento sono le conseguenze inevitabili di un prezzo troppo basso, e che difficilmente il prezzo verrà alzato se ciò dipende da una decisione politica. Come scrive Giorgio Bianco in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, “nel 2004, cioè appena quindici anni dopo la liberalizzazione inglese, gli investimenti nel settore ammontavano a una cifra totale di circa 50 miliardi di sterline. Nel solo 1999, del resto, sono stati spesi 3,7 miliardi di sterline (3,2 per l’allacciamento di nuovi contratti), mentre prima della destatalizzazione la spesa annuale galleggiava attorno a un miliardo di sterline. Circa 46.000 chilometri di tubature sono stati rinnovati e messi al passo con i tempi”.