Articoli tratti da "La Stampa" del 12/06/2007

l’America piange, l’Italia resta fredda

I personaggi maschili della serie



L’ultima puntata senza un vero finale al culmine della tragedia la tv si è spenta
ANDREA SCANZI
L’ultima puntata de I Soprano, dopo sei stagioni spalmate in otto anni e mezzo, ha coinciso con un evento mediatico che da noi non si riproporrà. Se gli Stati Uniti hanno reagito con smisurato entusiasmo alla serie, l'Italia ha esibito una sostanziale indifferenza. Quasi fastidio. Eppure la famiglia Soprano è italo-americana, vanta origini campane (di Avellino). Il successo sembrava scontato. O forse no.

Il primo punto debole dei Soprano è proprio la sua italianità ostentata, caricaturale e macchiettistica, che se al pubblico americano poteva suscitare ilarità, ai diretti interessati rischiava di stimolare - come è poi avvenuto - reazioni adirate, permalose. Molte associazioni italo-americane hanno criticato la serie, accusandola di reiterare lo stereotipo dell'italiano mafioso. Un sondaggio americano del 2004, del resto, aveva rivelato come la maggioranza dei giovani statunitensi identificasse gli italiani con i mafiosi o con i pizzaioli. Una buona parte di pubblico italiano (non tutta: i fan c'erano anche qui) si è sentita presa in giro, ridicolizzata e quasi colpevolizzata dalla saga tragicomica di una famiglia comandata da un uomo, Tony Soprano (James Gandolfini), con la faccia da cane bastonato e la vita divisa a metà: da un lato padre di famiglia, dall'altro boss mafioso.

L'andamento deliberatamente grottesco dei Sopranos ha ancor più allontanato il pubblico italiano. E' quasi un vizio storico: i prodotti che alternano trovate comiche (il capo-mafioso che si confida con la psichiatra) a scene drammatiche (la sfilza infinita di morti ammazzati) da noi non vanno. Basta pensare al flop fragoroso di Terapia e pallottole, nato proprio nel tentativo di sfruttare l'onda lunga dei Soprano.

E' semplicistico affermare che il pubblico televisivo italiano è troppo ignorante per accorgersi della qualità artistica dei Sopranos, ideati da quel David Chase che in realtà all'anagrafe fa David De Cesare. Serie come Twin Peaks, X Files, CSI o Dr. House non sono meno innovative, eppure in Italia hanno spopolato. Non c'entra la presunta incapacità di apprezzare la perfezione di un prodotto o la refrattarietà al politicamente scorretto (Dr. House ne è anzi l'archetipo), casomai il come e il cosa della narrazione. I Soprano hanno «sbagliato» cifra stilistica, usando una lunghezza d'onda su cui l'Italia non ama sintonizzarsi: quella del pastiche di generi, del né carne né pesce, del grottesco (perché no, anche dell'autoironia).

I serial televisivi che più attraggono l'Italia hanno comunque un retrogusto edificante. Gil Grissom è misogino, ma in fondo il pubblico sa che è buono; Gregory House è cinico, ma nessuno come lui è bravo a salvare le vite. Tony Soprano, al contrario, le vite le toglie: troppo antieroe per piacere. I Soprano non è neanche sufficientemente esorcizzante: se le medical fiction (E.R., Grey's Anatomy) piacciono perché danno l'illusione che perfino la morte possa essere curata, gli scagnozzi di Tony Soprano si compiacciono di uccidere, scherzano sui nemici fatti scomparire nel cemento o mandati «a far compagnia ai pesci». Non hanno sensi colpa: al massimo, ogni tanto, sognano le loro vittime.

Il lessico-gangster dei Soprano, negli Stati Uniti, ha giustificato perfino la proliferazione di gadget (di dubbio gusto). Da noi nulla ha fatto moda, né tendenza. Certo, la messa in onda a orari improbabili non ne ha agevolato il successo, ma le reti televisive si difendono dicendo che la programmazione è dovuta allo scarso appeal della serie, e non sapremo mai se è nato l'uovo (colpa della tv italiana) o la gallina (colpa del prodotto).

Ne La 25a ora, il protagonista Monty Brogan (Edward Norton) si esibisce in un monologo-invettiva contro tutto e tutti: «Fanculo agli Italiani di Bensonhurst, con i loro capelli impomatati, con le loro tute di nylon, le loro medagliette di Sant' Antonio. Che agitano la loro mazza da baseball firmata Jason Giambi sperando in un'audizione per i Soprano». Usando altre parole, e forse altre motivazioni, la reazione del pubblico italiano alla serie che doveva «riguardarli» è stata sostanzialmente la stessa.



La vie en rose dei Bergamasco

Mirko (a sx) e Mauro Bergamasco, colonne della nazionale
MULTIMEDIA


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Rugby, Francia: Stade Francais è campione





I due fratelli a Parigi insieme
agli altri azzurri Parisse e Dallan

STEFANO SEMERARO
Da sabato scorso Parigi è ancora più loro. Più italiana. Mauro e Mirco Bergamasco, insieme con gli altri nazionali azzurri Sergio Parisse e Denis Dallan hanno aiutato lo Stade Français a prendersi il 13° scudetto, il quinto dell'era Max Guazzini, il patron - figlio di un italiano - che dal 1993 ha fatto rifiorire il rugby nella capitale. Hanno alzato il Boccale di Brenno davanti a 79 mila spettatori, Sarkozy compreso. Poi si sono spostati a festeggiare sugli Champs Elysées fra clacson e bandiere rosa sventolate nella notte, osannati dentro il negozio Adidas ostruito dai fans. Idoli della folla.

«Ma di solito la nostra Parigi è molto più calma», dice Mauro, seduto con il fratello Mirco e con Sergio Parisse al ristorante dello Stade Jean Bouin, la tana dello Stade Français, a 300 metri dal Roland Garros e dal Parc des Princes, nel pieno del distretto sportivo di Parigi ossigenato dal Bois de Boulogne. «Parigi che non è la Francia, ed è bella perché ti offre tanto. La nostra giornata però è scandita dagli orari del rugby». Allenamenti, riunioni. Vita comune, molti spostamenti a piedi, qualcuno con la Smart di Mirco che riduce i drammi del parcheggio. Per evitare perdite di tempo i Bergamasco hanno comprato casa insieme a pochi minuti di cammino dallo stadio. Anzi: avrebbero comprato: «Duecento metri quadri, per stare larghi, avere i nostri spazi. Un investimento, anche. Il problema è che i lavori sono fermi e da mesi siamo "stoccati" in un bilocale di 40 metri quadrati. Uno dorme in camera, l'altro in soggiorno. Un atto di fede e di sopportazione reciproca ». Con mamma Bergamasco a fare la spola da Padova per il bucato.

Mauro, che ha cucinato anche in televisione alla prova del cuoco, si agita ai fornelli: «Soprattutto primi, ma creativi. Della cucina francese invece mi piacciono i piatti tradizionali, i formaggi, le carni. Soprattutto da quando ho imparato a cosa corrispondono i nomi delle pietanze». Mirco gestisce il resto delle faccende domestiche: «Quello sfaticato cucina e basta». Non contenti della doppia coabitazione, in campo e in casa, i due hanno deciso anche di mettersi in affari insieme. Questa settimana è in programma il vernissage di "On Off", un negozio di abbigliamento e accessori per rugby in Avenue Jean-Baptiste Clément. Un centinaio di metri di esposizione fra scarpe, maglie, caschetti e sportswear, «Siamo in società con tre amici, il nome, che è anche quello della società, viene dalla scritta che appare sullo schermo tv quando in campo c'è una sostituzione ».

I Bergamasco amano Saint-Germain, Parisse preferisce Montmartre. «La Gioconda - fa il broncio Mauro - è una delusione: piccola e sotto vetro». «A me è piaciuto molto l'Arcimboldo», ribatte Mirco, che pare uscito da un quadro di Botticelli o del Ghirlandaio. La gente per strada li indica, li riconosce, si complimenta. Anche al Roland Garros, dove hanno passato un pomeriggio chiacchierando con Rafael Nadal dopo un allenamento («Credevo fosse più basso, e con meno muscoli») e gustandosi la semifinale fra Serena Williams e la Henin, prima di tornare domenica con il resto della squadra per la finale maschile. «Il segreto dell'integrazione è stato imparare la lingua», spiega Mauro. «I francesi sono molto nazionalisti, se non parli francese diventa tutto più difficile. Mirco ha frequentato dei corsi di civilizzazione francese, se la cava bene anche a scrivere ».

I fratelloni sono ormai così popolari che Pizza Pino, la megapizzeria sugli Champs Elysées dove è di casa Nadal, sta studiando un «piatto Bergamasco». Al Ristorante Napolitano di Tonino, in Avenue Franklin Roosevelt, uno dei posti più trendy della capitale, per loro c'è sempre un tavolo. Rispetto, ammirazione. Anche in campo. «Rispetto c'è sempre stato. Fino a poco tempo fa però nessuno si sarebbe aspettato tanti giocatori italiani in ruoli così importanti». Le piazze più difficili, per dei «parigini»? «Biarritz, Perpignan, e Bayonne, dove sono tutti pazzi per il rugby e odiano Parigi», spiega Parisse. «Figurati che la maglia rosa l'abbiamo messa per la prima volta lì: ci hanno riempito di fischi». «Abbiamo anche una maglia con i fiordalisi, disegnata da Kenzo», aggiunge Mauro. Chissà le battute in mischia. «Quando vinci - taglia corto Parisse - Stanno tutti zitti ». Visto l'allenatore francese, e quattro campioni di Francia in squadra, i francesi tiferanno anche un po' Italia ai prossimi Mondiali? «Sì, c'è simpatia per noi - assicura Mauro -. Specie a Marsiglia sarà un po' come giocare in casa».

All'esordio, l'8 settembre, subito gli All Blacks. Una batosta annunciata? «Partire subito con gli All Blacks è positivo - ribatte Mauro - Li conosciamo bene, contro di loro testeremo il nostro modo di pensare il rugby, sperimenteremo. La Nuova Zelanda fa rugby puro, 100 per cento». E se batteremo la Scozia, il 29 settembre, nel match che varrà i quarti di finale, allora sarà davvero douce France



W L'ITAGLIA..