Carlo Galli
Il Paese casuale e le élites vacillanti
Da "il Mulino" n. 5/09


A seguito di alcune vicende che hanno visto coinvolto il premier Berlusconi, si è tornato a parlare del rapporto fra politica e morale; da parte di taluni si è negato che tale questione esista, data la abissale distanza che deve intercorrere fra le due sfere, che rinviano a altre due, altrettanto separate, cioè al pubblico e al privato; mentre da parte di altri, fra cui chi scrive, si è affermato che la questione esiste – che quelle distinzioni non sono categoriali, ma prudenziali, e soggette a variazioni interpretative in funzione del contesto storico e politico –, e che però non è circoscritta alla persona del capo del governo.
Nei molti linguaggi in cui si articola la lingua politica del Moderno – nel modello machiavelliano-repubblicano, in quello liberale, in quello democratico – è sempre previsto un rapporto più o meno intenso, che si svolge nella più piena immanenza, fra la libertà del singolo e la collettività. Al grado minimo, un uomo che si rispetti (che abbia rispetto di se stesso) non è governato dal capriccio di un altro uomo, ma solo dalla legge fatta da tutti in generale a favore di nessuno in particolare (e questo, anche in una repubblica di diavoli): la moralità del singolo consiste almeno nell’adesione costante alla legalità universale. Al grado massimo, la collettività politica deve essere formata, e a maggior ragione governata, da soggetti che sanno trattare ogni altro anche come fine in sé, e non solo come partner o concorrente: una cittadinanza civile che implica che la morale legalitaria si sostanzi di etica intersoggettiva (non si tratta qui il caso, che pure è stato frequente, che vede l’eticizzazione di un soggetto politico collettivo, come la nazione o la classe). Uno dei molti possibili gradi intermedi è infine che l’agire politico debba essere informato alla decenza, ovvero che debba atteggiarsi – secondo un’etica laica – in modo tale che ciascuno sia in grado di comprendere ciò che deve agli altri (e che dagli altri gli è dovuto) in termini di riconoscimento dell’uguale dignità degli uomini e dei cittadini.
Comunque sia, il fondamento di legittimità della nostra civile convivenza non consiste solo nella legalità che secolarizza e esteriorizza la «col pa» (interiore), ma anche nella «vergogna» (sociale), nel rispetto anche esteriore di sé e degli altri: la dicotomia proposta da Ruth Benedict nel 1946 in La spada e il crisantemo, non è (non è mai stata) una dissociazione assoluta. Il rapporto del singolo verso la collettività non solo è strumentale, ma è un visibile obbligo di impegno pubblico verso di essa. La cittadinanza è in sé attiva, è pubblica perché rivolta a un pubblico; e la libertà moderna non è la semplice tutela dell’indifferenza o della passività del soggetto come monade: è pagata col rafforzamento della disciplina interiore e con l’accresciuta responsabilità del singolo verso il corpo politico e sociale – che, proprio perché artificiale e non sorretto da alcuna autorità tradizionale, esige un investimento costante di volontà individuale verso le ragioni dell’universale.
Insomma, la politica moderna non è solo legge (iustum), né solo potenza/efficienza (utile), ma anche rispetto della propria e dell’altrui umanità (bonum). E questo «bene» è certo morale, o etico (a seconda delle diverse prospettive), ma si dà in senso non tanto ontologico quanto piuttosto linguistico; cioè come buon assemblaggio, secondo le interne regole sintattiche e grammaticali, delle parti del discorso politico. Esistono infatti le regole di fondo del linguaggio della democrazia – coincidenti, almeno, con le summenzionate regole della legalità e della decenza –, che altro non sono se non l’interna coerenza logica con cui si dispongono in frasi di senso compiuto (fuor di metafora, in istituzioni e in comportamenti) le parti del discorso democratico (i soggetti e le loro azioni). Certo, si può sgrammaticare, si possono pronunciare frasi sintatticamente sconnesse: ma si sbaglia. E qualcuno deve pur dirlo. Allo stesso titolo, ci sono comportamenti privati di rilievo pubblico che fanno scandalo e inciampo – dal pagamento in grande stile di escort, alla negazione dell’evidenza, al rifiuto di rispondere a quella parte di opinione pubblica che ancora è interessata a ciò, per non parlare della facilitazione di carriere politiche come ricompensa di prestazioni personali – che vengono meno a quelle regole, che sono dissonanti rispetto a qualsivoglia morale immanente alla politica democratica. Come (e ancor più) è scandalo che pochi si siano scandalizzati, e che quei pochi siano stati tacciati di moralismo (che sarebbe come criticare come pedanti o puristi coloro che rilevano gli sfondoni in un discorso).
Chi pensa che la democrazia sia solo l’opacità della privacy (più il principio di maggioranza; più, eventualmente, «valori» organicistici, utilizzati in modo tanto strumentale da non essere neppure degni di confutazione: basti vedere l’ondata di laicismo che percorre le fila della maggioranza, solitamente clericali, quando la Chiesa cattolica critica le politiche del governo) ha un’idea di democrazia senza qualità che gli fa scambiare l’individualità (prodotto di una Bildung complessa, e in ogni caso responsabile verso la collettività, e verso ogni altro cittadino) con l’individualismo seriale e omologato, imploso sui consumi privati (primariamente di televisione). Un’idea non liberale né libertaria, ma reazionaria, propria dei critici della democrazia che da sempre l’hanno vista come licenza e disordine, come mero coacervo di egoismi: come politica incapace di forma, di morale e di etica. Un’idea di democrazia, quindi, che del linguaggio democratico conserva le parole, i lemmi, ma che ne deforma i concetti e ne modifica la sintassi. Non a caso, oltre che di individualismo amorale, questa stessa idea di democrazia si sostanzia anche di plebiscitarismo sondaggistico; col pretesto di «restituire lo scettro al popolo», a questo in realtà si chiedono solo dei «sì» e dei «no», di rispondere a domande che non sono i cittadini a porre, ma che calano dall’alto, fra scenari fantasmagorici di propaganda e fra pesanti velari di censura. Così vengono prodotte massicce maggioranze, che forniscono la legittimazione «democratica» all’agire del governo. L’idea di fondo è di dare voce non al popolo, ma di alzare la voce con toni populistici; di consentire, sollecitando i «sì» dei sondaggi e delle elezioni, che l’autonomia dell’esecutivo sia di fatto totale: la democrazia dei grandi numeri, delle maggioranze, è in realtà il trionfo dei piccoli numeri, il potere senza controllo dei governanti. Insomma, la ricerca del consenso legittimante non avviene attraverso il sistema delle mediazioni dei partiti e delle istituzioni (il Parlamento), attraverso il dibattito della libera stampa e il consenso repubblicano su un’idea di democrazia: la politica non è più mediazione, né conflitto di interpretazioni, ma vuol essere comando libero da controlli, rafforzato da propaganda e censura.
Non si tratta, si badi, della tradizionale ipocrisia – omaggio del vizio alla virtù – che spesso ha visto i ceti dirigenti predicare bene e razzolare male: il linguaggio della democrazia è invece sottoposto a torsioni e a forzature che lo snaturano, trasformandolo in demagogia autoritaria, in qualcosa che sta tra l’afasia e la neolingua orwelliana. Per fare qualche esempio, il principio di maggioranza viene visto come sinonimo di totale disponibilità di ogni materia alla volontà dell’esecutivo e dei suoi parlamentari; oppure, dai dipendenti pubblici si pretende lealtà verso la linea politica del governo, inteso come il loro «datore di lavoro». Che nel primo caso si ometta il sindacato di costituzionalità e si ignorino i contrappesi e le articolazioni sociali e istituzionali del potere, e che nel secondo si confonda il governo con lo Stato, non pare costituire un problema per alcuno.
Allo stesso modo, la qualità della vita civile è fagocitata nella quantità di innumerevoli particolari, di atomi seriali costruiti e controllati da poteri opachi – fin troppo visibili, in realtà: il più mastodontico è il quasi-monopolio dell’informazione – che perseguono la sconnessione e la deresponsabilizzazione dei cittadini, e che chiamano democrazia ciò che ne risulta. Ora, è ben vero che le lingue mutano e divengono, come anche le istituzioni e le forme di Stato e di governo; e che nessuna forza al mondo può impedirne i mutamenti, quando le trasformazioni hanno raggiunto un certo grado di profondità e di diffusione. Ma in tal caso, a un certo punto si dovrà pur riconoscere che non si parla più latino, ma volgare; e che il latino è diventato nel frattempo una lingua morta. In altri termini, oggi – se si è ancora in tempo – si deve sottrarre il plusvalore legato al termine democrazia alle forze politiche che di fatto operano (con successo) perché si instauri una post-democrazia.
Accanto alla corruzione del linguaggio della democrazia si assiste oggi in Italia a un altro fenomeno, cioè alla formazione di un linguaggio da essa diverso, lontano, che non ne rivendica neppure la parentela: il linguaggio politico della Lega, che è forse una lingua moderna (solo nella misura in cui fa riferimento al popolo) ma che certo non è della famiglia linguistica democratica. L’individualismo qui si miscela con il comunitarismo più chiuso, la libertà si declina come appartenenza e radicamento, la cittadinanza come «sangue e suolo», la politica come esclusione oppure come gerarchizzazione del diverso. Non a caso contro la lingua universale della Costituzione la Lega promuove i dialetti, che Adorno (in Minima Moralia) definiva linguaggi della servitù e del dominio, forme comunicative in cui si esprime la disperata impotenza dei subalterni, la loro accettazione coatta e reazionaria del corso del mondo. Che le proposte politiche della Lega siano propaganda, delirio, non le rende meno pericolose: la politica è prima di tutto sistema d’immagine, o di linguaggio; e che dietro ci siano interessi materiali – nel caso della Lega, le paure e le fobie (a)sociali del popolo laborioso del Nord – è sempre vero, ma non è sufficiente smascherarli per averne ragione. L’autorappresentazione simbolica delle identità e la disposizione logico-sintattica degli interessi costituiscono le differenze (cospicue) tra le culture politiche e tra le forme di governo
Il vero problema politico dell’Italia di oggi è quindi che il linguaggio della democrazia è straziato senza pietà: che in Italia si dice letteralmente di tutto (al massimo, con qualche rettifica tardiva e ipocrita, che aumenta l’effetto distruttivo delle castronerie). Il «politicamente corretto» – non a caso bersaglio privilegiato della destra – è una manifesta zione di rispetto di sé, della lingua democratica, e delle istituzioni, che non ha più mercato.
Fra i motivi che, in concreto, rendono possibile questa crisi della democrazia, c’è anche la debolezza delle élites. A esse, infatti, spetterebbe primariamente il controllo del linguaggio della democrazia, la lotta interpretativa ed espressiva (la formazione di ideologie politiche, di etiche professionali, di strumenti critici) per articolarlo. Che anche la democrazia conosca le élites non è una novità: lo insegna da centotrent’anni (a modo suo) la teoria delle élites. Se, certo, la democrazia nasce contro l’ideologia aristocratica delle élites – tema costante della politica antica: è infatti chiaro che ripugna alla democrazia una differenziazione naturale o censitaria fra i cittadini (le élites della forza, della nascita, della ricchezza, della razza) –, tuttavia sappiamo (grazie almeno a Schumpeter e a Bobbio) che, fatte salve le forme dell’uguaglianza civile e politica, ogni democrazia funzionante è in grado di scegliere, di selezionare (questo è il significato del termine) classi di governo in senso proprio, e di consentire il formarsi, nella società, di ceti dirigenti in senso lato, sulle basi dell’ingegno, dell’impegno e del merito. Politici, imprenditori, professionisti, docenti, scienziati e intellettuali, gerarchie religiose, alti burocrati, civil servants, giornalisti, a volte anche artisti: ciascun gruppo con forme diverse di selezione, con diversi gradi di chiusura o di apertura, e con differenti finalità, persegue, in concorrenza o in alleanza con gli altri, il medesimo fine, cioè di esercitare influenza o potere nella società, presentando i propri interessi come utili agli interessi generali del Paese, e il raggiungimento delle proprie finalità come la condizione perché molti altri raggiungano ciascuno le loro. L’obiettivo è insomma l’egemonia, che in una società complessa non sarà mai totale e che piuttosto si articolerà nella forma di una concorrenza di diverse proposte egemoniche, di una dialettica fra diverse declinazioni del linguaggio democratico.
Gli interessi particolari devono realmente essere capaci di presentarsi come meritevoli di un universale consenso di massima, o almeno come portatori di un’utilità diffusa. Quindi, le vere élites sono educate sì al comando ma anche alla responsabilità, alla lungimiranza, alla disciplina, al differimento del piacere e dell’utile, al merito, al decoro, alla deontologia professionale, all’efficienza; non per amore della virtù, ma per legittimare le proprie pretese di potere. Affinché vi credano gli altri, le élites devono credere esse stesse in qualcosa, nella propria missione e nei propri valori (o almeno devono mentire con convinzione – che è esercizio quasi più difficile – a se stesse e all’intera società). La morale delle élites è insomma la loro deontologia, cioè l’insieme dei doveri verso la professione (di ciascuno verso se stesso e verso i pari) che im plica l’assunzione di responsabilità verso l’esterno, e quindi il prestigio (e la vergogna). È nella deontologia – rigorosamente perseguita – il nesso fra moralità, efficienza, credibilità.
La pluralità di queste élites (il loro essere in contrappeso e in antagonismo reciproco) e la loro apertura (la loro capacità di generare ricambio al proprio interno) sono essenziali per la democrazia. Sono le élites – aristocratiche, borghesi, operaie – quelle che anticipano i nuovi orizzonti della società, che elaborano categorie, stili, forme, linguaggi, in grado di imporsi in ambiti più vasti. Sono le élites ad avere la capacità, e quindi il dovere, di esercitare più consapevolmente di altri le virtù sociali e politiche (a parte il grado massimo del perfezionismo kantiano); a saper parlare con proprietà (che certo sarà interessata, ovvero, per restare all’interno della metafora linguistica, con una certa cadenza regionale o sociale) il linguaggio della democrazia.
Ecco, il punto è qui. Nel nostro Paese – che non è certo divenuto egualitario, e che anzi conosce sempre più profondi dislivelli di potere e di ricchezza – le élites non vogliono più sobbarcarsi il peso di questa libertà creatrice e di questo rigore disciplinato, di questo continuo sforzo immaginativo per articolare in chiave universale i propri corposi interessi particolari, per declinare al plurale le affermazioni di potere dei singoli gruppi particolari, per coniugare al futuro, e non nella miopia dell’eterno presente, i verbi dell’agire sociale; per essere esempio civile. La verità è che – a parte le eccezioni individuali, o di piccoli gruppi isolati, che spesso hanno vita difficile – le élites stanno trasformandosi in gruppi d’interesse ciechi, in corporazioni chiuse (a volte dinastiche, con modalità nepotistiche di trasmissione del potere), in un pulviscolo di privilegi, in Palazzi e Caste (non solo della politica, come si sa).
Lungi dall’esibire l’orgoglio del merito e della selezione, i membri delle élites aspirano piuttosto a essere vip; anziché vigilare occhiutamente sulle forme di ingresso, di selezione, di addestramento dei propri membri, allentano le deontologie, rilassano le pratiche di controllo, chiudono un occhio su insufficienze e infrazioni (purché sia garantita la docilità dei nuovi entrati); il dovere dell’universale è irriso, e si afferma sovrano il diritto del particolare; il progetto è solo declamato, e intanto si arraffa quel che si può nel presente (e si tira avanti alla meno peggio, con adattamento passivo a un contesto degradato, mettendosi semmai l’animo in pace con qualche autoproclamazione di «eccellenza»).
È il cinismo delle élites – troppo facilmente trasmesso all’intero corpo sociale – la vera peste del Paese, il cuore della questione morale, l’origine della sconnessione fra morale e politica, della corro sione dello spazio pubblico, del dominio dei dialetti (dei particolarismi) nel discorso pubblico. Priva di esempi credibili e autorevoli, l’Italia è in realtà una sorta di gigantesco condominio, percorso da cieca conflittualità, prevaricazioni, mancanza di rispetto, programmatica sordità al buon senso e alla responsabilità davanti a ragioni non immediatamente private (e, naturalmente, dalla sistematica sconfitta dei più deboli). Un Paese di free rider che credono sia possibile non dovere mai onorare i pubblici doveri, e che sta già pagando il prezzo di questa stoltezza (nel senso con cui Hobbes demoliva nel XV capitolo del Leviatano il cosiddetto «argomento dello stolto»), ma che interpreta le proprie difficoltà di tenuta civile e di sviluppo sociale come imputabili a qualsivoglia causa o calamità naturale, tranne che alla propria (mancanza di) responsabilità e di rigore deontologico.
L’abdicazione delle élites – dai propri doveri, naturalmente, dalla propria funzione di trasformare l’immediatezza in mediazione; non certo dai propri privilegi – può essere constatata fino dalla prima élite, quella èlite naturale (un paradosso, certo) che è la famiglia, in cui i genitori sembra stiano cessando di cercare di trasmettere ai figli qualcosa di più che astuti espedienti per evitare fatiche e selezioni: o che, comunque sia, abbiano fallito, soverchiati da sfavorevoli contesti, esempi e stili sociali. Delle élites politiche in parte si è già detto: che oggi di fatto si possa fare a meno delle due mediazioni classiche della vita democratica – partiti e Parlamento, che bene o male richiedevano formazione e selezione del personale politico – è il presupposto della possibilità che la politica si trasformi, come infatti avviene, in comando autoritario e plebiscitario su una cittadinanza polverizzata e amorfa. Le élites economiche hanno applaudito un capo del governo che invitava gli industriali a non fare più pubblicità sui giornali che lo criticano – evidentemente perché dipendono dal suo benvolere –; quelle intellettuali hanno da tempo perduto la volontà di essere stimolo e guida della coscienza civile: chi al loro interno interpreta ancora così il proprio ruolo è oggetto di derisione, mentre i più sono o docili al nuovo clima, o cinici, o snob, o faziosi. I professori di scuola – dimezzati a prof. – sono o inadeguatamente preparati o inadeguatamente compensati, e in ogni caso la loro efficacia e il loro prestigio sono a livelli bassissimi, come sa chiunque frequenti giovani in età scolare. Assai incerto, a chiazze di leopardo, è il panorama dell’università, dei concorsi, della considerazione che vi si ha per il merito, nonché delle prospettive della ricerca e della didattica.
E così via per quanto riguarda le élites delle professioni, e per le loro interne deontologie, e per le élites amministrative, divenute da ceto universale (per Hegel) macchina razionale (per Weber), e infine fannulloni (per il ministro Brunetta, e anche per la maggioranza dei cittadini). E per i giornalisti che – lontani i tempi in cui si era ben consapevoli che la libertà della penna è il palladio dei diritti del popolo – sono o intimiditi, o minacciati, o licenziati, tranne che felicemente non si adeguino alle esigenze delle plutocrazie che plasmano, quasi senza concorrenza, l’opinione pubblica. Le gerarchie ecclesiastiche, infine, possono sì esibire un grande potere contrattuale rispetto alla controparte politica, ma conoscono al proprio interno gravissime difficoltà di reclutamento e una profonda crisi culturale e morale (che è stata, come si ricorderà, la primissima preoccupazione dell’attuale pontefice).
È in questo Paese casuale – ricco di individualità splendide e di isole felici, ma povero di coerenza sistemica e quindi di fatto privo di élites, di esempi sistematici, e pertanto di forma civile –, un Paese che coniuga inefficienza e immoralità come se a quasi nessuno importasse veramente la qualità del suo futuro, che è stato possibile che Berlusconi resistesse (cavandosela, finora, con la battuta «non sono un santo») a uno scandalo che avrebbe travolto in pochi giorni – grazie alla reazione della stampa, delle tv, dell’opinione pubblica, dei partiti – ogni altro leader politico di ogni altra democrazia occidentale: ha potuto appellarsi direttamente e immediatamente alla comprensione, alla complicità o almeno alla compiaciuta invidia dei «molti», nell’indifferenza e nel silenzioso cinismo-silenzio dei «pochi» che, secondo l’etica della decenza, avrebbero dovuto utilizzare il loro sapere e il loro potere (e il loro prestigio) per criticarlo e per rischiarare il giudizio collettivo, e che hanno mancato, ancora una volta, davanti alla deontologia, che non si sono vergognati di sé e del proprio silenzio-assenso. Un Paese, il nostro, che non rispetta le proprie élites, perché a queste non importa fare la fatica necessaria per farsi rispettare, e che di conseguenza perde il rispetto di se stesso, senza darsene però peso eccessivo. Un Paese in cui tutti – élites e popolo – non conoscono la vergogna e sembrano disposti a tutto, pur di non cambiare nulla.
Ora, è evidente che se le élites vacillano – perché qualcuno ha pensato, con rara miopia, che l’attuale livello di sviluppo del capitalismo non richieda più la presenza di élites, ma solo la formazione di una massa di consumatori; oppure per una concomitanza di circostanze accidentali che hanno esaltato le nostre storiche debolezze e difficoltà – la questione morale si impone all’ordine del giorno dell’intero Paese, che rischia di pagare il deficit di virtù democratica con la moneta sonante della inefficienza e della decadenza (si pensi solo al destino della ricerca scientifica). Qualcuno – minoranze capaci di essere d’esempio alla maggioranza – deve combattere credibilmente contro il cinismo e la rassegnazione, contro l’opacità del conformismo e del dominio, contro la manipolazione, l’illegalità, la passività, l’irrazionalità di fondo del nostro vivere civile.
È il programma non solo riformista, ma di una riforma morale e civile degli italiani, che metta all’ordine del giorno la liberazione e l’autodeterminazione dei cittadini. È il programma di ricominciare dalla democrazia – dalla volontà di democrazia, se ancora c’è –, dopo le ideologie della prima Repubblica e dopo il mercato della seconda. E di ricominciare, paradossalmente, dai pochi (che certo saranno irrisi e tacciati di moralismo, azionismo, giacobinismo), da élites nuove o rinnovate, la cui rigorosa esemplarità costituisca il nucleo di nuovi progetti di democrazia in cui coinvolgere i molti; che sappiano esprimere in una nuova grammatica e in una nuova sintassi il nucleo dei valori civili dell’umanesimo moderno. Che sappiano credibilmente e coerentemente custodire e innovare la moralità della politica, e riportare la decenza e la vergogna fra le virtù civili.

La rivista il Mulino: Carlo Galli - Il Paese casuale e le élites vacillanti