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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    «A Margherita Sarfatti, l’amante del Duce, avrei voluto dire: io non sono una vinta»


    Pubblichiamo un brano dalle «Memorie» in cui Amelia Rosselli, alla stazione di Milano, rivede Margherita Sarfatti, figlia di amici veneziani e poi frequentatrice del suo salotto prima del fascismo.
    «Vidi una piccola folla di gente davanti allo scompartimento attiguo, che faceva corona intorno a una figura femminile, con accenti e gesti di commiato ossequiosi. Era Margherita Sarfatti, allora nel pieno fulgore della sua carriera politica e... sentimentale. Non potei fare a meno di fare un rapido raffronto fra questi due destini - il mio e il suo - così diversi (...). Ella circondata e ossequiata da quella turba di gente che aspettava, o aveva ricevuto da lei quanto la sua altissima influenza poteva aver dato o avrebbe concesso: io madre di un prigioniero politico, di un criminale , tenuto alla larga in quei giorni da tutti, che non fossero gli amici più intimi, per paura di essere compromessi, che avevo preso quel treno per andare a far la mia prima visita a mio figlio in carcere: quel medesimo treno che ella pure prendeva, per avviarsi a qualche trionfale ricevimento in suo onore. Qualcuno accanto a lei le bisbigliò qualcosa sommessamente: doveva essere qualcuno che mi conosceva, forse, di vista. Margherita Sarfatti volse rapidamente il capo e mi guardò. I nostri sguardi s’incrociarono. Non ci salutammo. Ella poi salì rapidamente nello scompartimento, il treno si mosse, si partì, fra l’ossequioso salutare della piccola folla. Ero come ossessionata da quella vicinanza. Mi prendeva un desiderio puerile di alzarmi, di passare nello scompartimento attiguo, di fermarmi davanti a lei, e dirle: «Ebbene, pensi ch’io oggi sia una vinta della vita? Una fallita? Apparentemente sì. Ma interiormente sono più grande io di te...».
    Così è la vita. Così sono i destini, a fianco a fianco in uno stesso treno che va, che fugge verso mete così diverse e opposte per ognuno che c’è dentro .

    Corriere della Sera
    11 dicembre 2001
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

  2. #12
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    Molti eredi,non tutti legittimi

    di NICOLA TRANFAGLIA



    Carlo Rosselli fu sempre consapevole degli stretti legami tra la sua riflessione e i problemi politici del tempo, quelli dell'Italia e dell'Europa in particolare. Ma è curioso (e per certi versi frutto dell'anomalia italiana) che oggi lo ricordino proprio gli eredi diretti del Pci, cioè di quel partito che fu all'inizio tra i più feroci avversari di "Giustizia e Libertà" e durante gli anni Trenta intrattenne con Rosselli un rapporto difficile, anche se non privo di scambi e, dopo il 1935, di aperta seppur ardua collaborazione di fronte all'espansione europea dei fascismi. Se questo avviene, è perché alla fine di un secolo definito della paura, dell'odio e degli estremi, gli eredi diretti di Rosselli e del suo "socialismo liberale", non sono oggi parte di un partito che prosegua il cammino del Partito d'Azione, ma sono sparsi in tutto lo schieramento politico attuale, con un particolare, naturale addensamento in quello di centro-sinistra, tra gli eredi del socialismo democratico e quelli del post-comunismo, sfociato all'inizio degli anni Novanta con una svolta ancora incompleta nel Partito dei democratici di sinistra.
    Guardando il programma del seminario, che privilegia gli aspetti più direttamente politici su quelli che potremmo definire i contenuti storico-politici, vengono in mente considerazioni tra di loro diverse. La prima è positiva da parte di chi, come l'autore di queste note, vide già trent'anni fa l'importanza centrale del pensiero di Rosselli non tanto nel portare in Italia dall'amata Inghilterra l'espressione "socialismo liberale" quanto nel cogliere la necessità di rifondare il socialismo italiano, superando definitivamente il marxismo.
    Ci sono nella riflessione di Rosselli una critica ancor oggi penetrante agli errori del movimento socialista italiano, un'apertura così forte ai bisogni delle classi medie e degli intellettuali come delle masse contadine e operaie che il partito erede dei comunisti italiani potrà trovare proprio in quell'esperienza gli strumenti per costruirsi una nuova identità democratica, in grado di sostituire a poco a poco quella ormai sbiadita e contraddittoria della fase berlingueriana.
    La "svolta" della Bolognina ha ormai dieci anni e resta assai poco tempo per dargli un contenuto serio che vada oltre le dichiarazioni contingenti di fronte all'uno o all'altro avvenimento. Per costruire un'identità moderna e coerente con i tempi e con la migliore tradizione democratica, un partito lontano dal modello leninista e gramsciano, un gruppo dirigente che faccia del socialismo democratico e del pensiero di uomini come Rosselli il suo credo profondo.
    Ci riusciranno gli attuali dirigenti del nuovo partito? Non posso che augurarmelo per il bene del paese. Ma sarei più tranquillo se quei dirigenti, quando ricordano Rosselli e il suo pensiero (lo stesso discorso varrebbe per Turati o per Gramsci) accettassero di confrontarsi ad armi pari con chi quelle personalità le ha studiate e interpretate a lungo con quell'autonomia dalla politica che il mestiere della ricerca abitua a mantenere.
    I rapporti tra cultura e politica sono stati nel nostro paese troppo di frequente anche a sinistra contrassegnati dalla sudditanza dell'una all'altra. Perché quei rapporti siano utili e fecondi (il che è possibile) è necessario, invece, che la comunicazione ci sia ma attraverso uno scambio libero e paritario.

    La Repubblica
    25 febbraio 1999
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

  3. #13
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    UNA SCELTA DI CAMPO NECESSARIA. CARLO ROSSELLI E GL DI FRONTE A HITLER E ALL'ESPANSIONE DEI FASCISMI*


    Nicola Tranfaglia

    1. Che cosa significa la vittoria di Hitler. Uno degli effetti piú devastanti sulla memoria collettiva delle nuove generazioni è costituito non soltanto in Italia, ma nel nostro paese con alcune indubbie accentuazioni e peculiarità, dall'uso costante e disinvolto che i grandi mezzi di comunicazione praticano del passato recente estraendo da esso miti e affermazioni che, grazie a quest'uso superficiale, mutano di significato e rischiano di apparire banali o pure pezze d'appoggio per battaglie e prese di posizione legate agli avvenimenti di oggi.

    Ad operazioni mistificatorie di questo genere non sono sfuggite negli ultimi anni neppure le vicende drammatiche dell'Europa negli anni Trenta, dal dispiegarsi della grande crisi all'avvento al potere di Hitler e del nazionalsocialismo in Germania e all'avviarsi di quel processo che attraverso l'aggressione fascista all'Etiopia e la guerra civile in Spagna, pone le premesse indispensabili di un secondo conflitto a carattere europeo e mondiale(1).

    Sicché oggi non è facile cercare di ricostruire, con fedeltà agli avvenimenti e ai protagonisti, un episodio come quello dell'atteggiamento tenuto a Parigi - e in Italia - da un movimento molto attivo ma fatto di poche centinaia di persone sparse in vari paesi quale fu Giustizia e libertà, che pure aveva avuto negli anni precedenti, per un accordo interno alla Concentrazione antifascista, il compito pressoché esclusivo dell'azione in Italia da parte dei gruppi repubblicani e socialisti ricostituisi in esilio alla metà degli anni Venti dopo il consolidamento della dittatura mussoliniana. A differenza di quello che molte volte si è scritto, quel movimento se ebbe in Carlo Rosselli, fuggito dal confino di Lipari nel '29, un leader politico indiscusso, registrò anche, in maniera pressoché costante, una discussione animata sui problemi principali del "che fare" in quegli anni e, in particolare, ospitò un lungo dibattito di notevole interesse sui due aspetti strettamente legati della situazione europea. Da una parte, l'europeizzazione del fenomeno fascista non piú presente - notò Rosselli sui "Quaderni di Giustizia e libertà" - in una provincia dell'impero avendo ormai attraversato le Alpi, conquistato la Germania ed essendo destinato fatalmente a conquistare anche l'Austria; dall'altra, il significato della dittatura staliniana nell'Unione Sovietica e la conseguente necessità di darne una valutazione - come dire? - non solo teorica e dottrinale ma politica e pratica: ci si potrà alleare oppure no a Mosca e ai partiti comunisti nella lotta per fermare e abbattere i fascismi?(2)

    Alla base del duplice interrogativo c'è nel leader giellista la certezza del nesso strettissimo tra l'espansione dei fascismi e la preparazione della guerra: non soltanto di scontri locali, di nuove imprese coloniali ma di un conflitto tale da mandare in frantumi l'assetto che i trattati di Versailles hanno dato da poco piú di dieci anni al continente europeo. L'analisi compiuta da Rosselli sul settimo numero dei "Quaderni" merita di essere ricordata nei suoi tratti essenziali perché contiene, accanto al grido profetico sulla "guerra che verrà", osservazioni penetranti su altri aspetti importanti della vittoria hitleriana.

    Ad esser sintetici, si deve sottolineare anzitutto il giudizio di fondo su quella vittoria: il fascismo tedesco appare al fiorentino non un creatore di un mondo nuovo ma "un tremendo seppellitore di mondi, di miti, di uomini".



    La sua storica funzione - osserva - sembra consista nel rivelarci, per la sua stessa brutalità e inconsistenza, la precarietà, il fracidume delle fondamenta sulle quali abbiamo insistito finora. E poiché i popoli debbono vivere, esso riempie lo iato tra il vecchio mondo agonizzante e il mondo nuovo non ancora capace di sorgere con la sua dittatura di ferro e di sangue.

    Basteranno pochi anni per rivelare a Rosselli che la dittatura nazionalsocialista, oltre ad avere ambizioni millenarie, era in grado di usare proprio il ferro e il sangue per realizzare i suoi progetti di espansione e di dominio mondiale ma resta, mi pare, la sostanziale esattezza di un giudizio che coglie nella stabilizzazione fascista una fase destinata a durare soltanto due decenni e a costituire con ogni probabilità una fase per cosí dire intermedia sulla strada della società industriale di massa(3).

    In quel saggio il leader giellista, tuttavia, tocca altri tre punti significativi anche perché pressoché assenti in altre analisi coeve.

    Il primo è la previsione del rapporto che tenderà ad instaurarsi tra i due fascismi, quello italiano e quello tedesco: sarà un rapporto, dice Rosselli, di fatale subalternità di Mussolini rispetto a Hitler, dei fascisti rispetto ai nazionalsocialisti perché la rivoluzione delle camicie brune "comincia proprio laddove il fascismo, tanto penosamente, era arrivato [...] La Prussia, la vecchia Prussia di Treischke, rivendica con gran clamore la paternità dello Stato etico, dello Stato poliziotto e corporativo [...]".

    Il secondo è l'amara constatazione dell'impotenza e del cedimento alla valanga nazista da parte di chi avrebbe dovuto contrastarlo: "sindacati, partiti, storiche autonomie, sono spariti d'incanto a un cenno delrégisseur. Anche lo scientifico partito della rivoluzione scientifica, il comunista che cerca consolazioni attribuendo a Hitler il ruolo di Kerensky, ha ceduto le armi senza combattere [...]".

    Il terzo, per molti aspetti il piú importante, è la persuasione che l'esito fascista sia dovuto innanzitutto a una crisi di civiltà: "Crisi di ideali, crisi morale, di cui il fascismo è il risultato. Il fascismo è la democrazia ridotta a pura forma, il socialismo a pura economia, la libertà a semplice strumento".

    Nasce da queste considerazioni la necessità di una strategia nuova che Rosselli incomincia a formulare scindendo nettamente la propria diagnosi da quella marxista che attribuisce la sconfitta della democrazia liberale all'intensificarsi delle crisi che preluderebbero al crollo della società capitalistica. Il fiorentino è assai netto su questo aspetto: "La malattia che urge curare - scrive - o diagnostici o necrofori del capitalismo, non è quella della società capitalistica, ma della società pura e semplice". Di qui l'esigenza di riformare a fondo le basi del movimento antifascista, di identificare nei fascismi l'Antieuropa, di porre sul piano continentale la lotta contro i dittatori che stanno conquistando l'intero continente(4).



    2. Il fascismo come "crisi di civiltà" e "sprofondamento sociale". Ma, a questo punto, piuttosto che seguire analiticamente l'evoluzione del pensiero di Carlo Rosselli, già fatta in altra sede, vale la pena, per rispondere ai due interrogativi posti all'inizio, ricostruire il dibattito interno al movimento che affronta nei due anni seguiti alla vittoria di Hitler sia il problema costituito dall'espansione fascista europea sia quello che si lega alla dittatura di Stalin(5).

    Nell'impossibilità di un esame esauriente di quel dibattito che registra interventi di esuli a Parigi come Andrea Caffi, Angelo Tasca, Lionello Venturi e suo figlio Franco, Guido L. Luzzatto, ma anche lettere e scritti dall'Italia come quello importante di Nicola Chiaromonte che si preparava ad uscire dal paese, mi pare valga la pena mettere in luce le differenze e gli accenti comuni che emergono da saggi e articoli pubblicati in parte sui "Quaderni", in parte sul settimanale "Giustizia e libertà" apparso a Parigi nel 1934, all'indomani dello scioglimento della Concentrazione antifascista e inviato in alcune centinaia di copie anche in Italia attraverso corrieri non di rado arrestati dall'Ovra (sicché una collezione assai ricca di quelle pubblicazioni in carta da riso, sequestrate dalla polizia politica, è oggi custodita all'Archivio centrale dello Stato).

    Il dato culturale comune è costituito - se non ho visto male - da quell'elemento di "crisi di civiltà e crisi morale" messo in luce da Rosselli nel suo saggio del giugno 1933 e sviluppato poi in maniere diverse ma convergenti da quasi tutti i protagonisti della discussione. Andrea Caffi, ad esempio, che ha vissuto direttamente la rivoluzione d'ottobre in Russia e ha per cosí dire provato sulla sua pelle le conseguenze degli sconvolgimenti seguiti nei maggiori paesi al conflitto mondiale, segnala fin dal settembre 1932 sui "Quaderni" (n. 4) le peculiarità del fenomeno nazista che non possono spiegarsi semplicemente con le categorie della lotta di classe. L'esule sottolinea, invece, la coesistenza nel movimento hitleriano delle mitologie irrazionalistiche e dell'esaltazione della tecnica e della moderna civiltà delle macchine. Da parte sua Angelo Tasca, nel giugno 1933, sostiene (e a ragione) che le vicende tedesche liquidano definitivamente la tesi propria della III Internazionale in base alla quale le crisi economiche innescano, in maniera automatica, un processo rivoluzionario e nota che sono i disoccupati piuttosto che gli operai dell'industria a ingrossare le fila del nazionalsocialismo. Tra i seguaci del führer - sottolinea l'ex comunista accostatosi ormai ai socialisti - si trovano "giovani operai resi feroci dalla miseria e che, dopo disperate ricerche di lavoro, avevano finalmente trovato un uomo che procurava loro l'alloggio, il vitto, un po' di spiccioli e per giunta un ideale "nazionale""(6).

    Ma è Nicola Chiaromonte che sviluppa con maggiore originalità (in maniera che però di fatto contrasta con i giudizi di Rosselli) il discorso sulla crisi europea di cui il nazionalsocialismo, visto come il fascismo tedesco, è l'espressione storica. In un lungo saggio pieno di intuizioni (e intitolato efficacemente La morte si chiama fascismo, nel n. 12 dei "Quaderni"), lo scrittore lucano - che nel 1935 con Caffi, Renzo Giua e Mario Levi uscí dal movimento per dissensi in parte dottrinali, in parte potremmo dire caratteriali ed esistenziali - afferma che il nazionalsocialismo rappresenta "la disgregazione morale, sociale, politica ed economica dell'Europa dal '14 in poi" e "l'espressione centrale della decadenza e corruzione del mondo in cui viviamo in tutti i suoi piú diversi aspetti, nella morale, nella cultura, nella libertà, come nell'economia della vita politica". Ma, subito dopo, precisa in che senso i fascismi italiano e tedesco sono "le forme piú perfette della tirannide moderna", sottolineando due aspetti strettamente legati tra loro. Innanzitutto la scomposizione delle classi sociali che si è realizzata in Europa nei primi due decenni del secolo:

    "non si capisce il fascismo - osserva - se non ci si rende conto che l'industrialismo e lo Stato moderno hanno riprodotto una plebe informe e inerte, non solidale con nessuna classe e con nessun interesse definito, proveniente da tutte le classi e da tutti gli ordini, il cui carattere è il carattere di tutte le plebi: la passività, ma il cui destino è il destino di tutte le plebi: fornire un'enorme riserva di energie per il popolo di domani."

    Chiaromonte non parla dunque né di sottoproletariato come fanno i comunisti né di piccola borghesia come ha fatto Salvemini, ma di "plebe" intendendo probabilmente gli spostati di ogni classe, i disoccupati, quelli colpiti dall'inflazione e dalla paura del futuro. Quindi, identifica la contraddizione dei fascismi nel fatto di "annientare le strutture barcollanti della vecchia società per impedire che nasca la nuova". Non nega nel saggio il carattere rivoluzionario (nel senso obiettivo e non valutativo del termine) ai movimenti fascisti, ma sottolinea subito dopo quell'incapacità di creare e di costruire che già aveva richiamato Rosselli, la tendenza reazionaria di fermare il tempo, di opporsi alla nascita di una società nuova chiamata a sostituire la vecchia ormai crollata. Di qui, secondo Chiaromonte, nasce anche l'inevitabile preparazione della guerra che appare l'altra faccia dei fascismi, il complemento essenziale alla costruzione di società guerriere e repressive(7).

    Ritornando a distanza di oltre due anni sul problema fascismo, da parte sua, Carlo Rosselli ne parla come di un vero e proprio "sprofondamento sociale" e sente il bisogno di sottolineare, usando accenti non lontani da quelli del saggio di Chiaromonte, che la crisi europea ha determinato "un'incrinatura longitudinale nuova di tutte le classi, uno schieramento tendenzialmente nuovo, in cui il fuoriclasse prende un carattere inaspettato, dinamico e imprevedibile". E lo stesso Caffi, in un intervento apparso sul settimanale "Giustizia e libertà" il 10 luglio 1934, all'indomani dell'eliminazione della sinistra strasseriana da parte di Hitler, mette in luce tra le ragioni della vittoria fascista la richiesta di partecipazione maturata con la guerra a cui le democrazie liberali non hanno dato risposta e l'"attivismo sovversivo" delle nuove generazioni di fronte al crollo di valori ormai screditati.

    Emerge, insomma, pur con sfumature differenti, un'interpretazione del movimento giellista che insiste sulla crisi morale e di civiltà e, di conseguenza, sulla relativa importanza dei fattori di classe nel momento di ascesa dei fascismi o meglio sull'impossibilità di applicare ad essi una concezione rigida della storia legata alla lotta di classe e alla vittoria della borghesia, secondo le ricette della III Internazionale. Il che non toglie - soprattutto in Rosselli, meno nei giovani "novatori" nei quali ha gran peso una salda formazione letteraria - la consapevolezza del blocco sociale che si costituisce in Italia e in Germania intorno ai dittatori fascisti e che connota apertamente in maniera classista il dominio fascista(8).



    3. Rivoluzione russa e dittatura staliniana. Ma l'aspetto piú interessante dei "Quaderni" e del primo anno del settimanale cosí come dei discorsi e degli scritti legati all'attività politica quotidiana, delle prese di posizione di Rosselli e del movimento giellista è costituito dai giudizi dati sull'Unione Sovietica, sul regime instaurato da Stalin e quindi sulle possibilità o meno di alleanza e di lotta insieme contro il pericolo fascista.

    Qui si avverte una divaricazione abbastanza netta tra unleader come Rosselli (per non parlare di Silvio Trentin che inizia allora la sua marcia verso una posizione sempre piú vicina, anche se critica su alcuni aspetti, al movimento comunista) e altri esponenti di Gl, o almeno vicini alla sua linea, che disegnano del regime staliniano un ritratto assai negativo ma somigliante a quello che dovranno tracciare gli storici alla fine dell'esperienza sovietica.

    È Andrea Caffi, che conosce piú e meglio degli altri la realtà sovietica, a scrivere già sul secondo numero dei "Quaderni" (marzo 1932) un lungo articolo sulla rivoluzione russa, che Rosselli pubblica prendendo nettamente le distanze giacché lo scritto appare come appendice al fascicolo con il titolo Opinioni sulla rivoluzione russa. Al di là del discorso circostanziato che Caffi propone, importa notare l'interpretazione del regime staliniano come vera e propria negazione dell'umanesimo socialista e le affinità evidenti che l'autore individua tra quel fenomeno e altri "mostruosi parti della nostra epoca" come i fascismi(9).

    Da questa prima intuizione partono i successivi interventi che trovano in Lionello Venturi, insigne storico dell'arte costretto a lasciare l'insegnamento universitario per non giurare fedeltà al regime, l'espressione piú chiara e distante, se non dalle posizioni teoriche di Rosselli, almeno da quelle che saranno le sue conclusioni pratiche. Di Lionello Venturi (che firma La Forest) è un tentativo di comparazione tra le dittature del XX secolo, fatto all'indomani di un viaggio in Germania e in Russia, che appare nel gennaio 1935, nell'ultimo numero, il 12, dei "Quaderni". Rosselli lo pubblica, come era stato per l'articolo citato di Caffi sulla Russia, in una rubrica di documenti per segnalare ai lettori che la responsabilità delle tesi è dell'autore piuttosto che della rivista o del movimento giellista e vi aggiunge una significativa postilla.

    Ridotta all'osso la tesi di Venturi consiste nell'affermare che, malgrado alcune indubbie differenze, c'è una sostanziale unità della dittatura fascista, di quella nazionalsocialista e di quella staliniana: caratteri comuni delle tre dittature, che segnano "l'assassinio dell'intelligenza", sono l'instaurazione di un sistema di controllo totalitario di tutte le manifestazioni, individuali o collettive della libera creatività umana e la repressione feroce di ogni fermento culturale che esca dai confini di una rigida ortodossia di regime.

    "Antiumane - scrive lo storico dell'arte - dunque le condizioni di vita pratica e teorica, sia in Germania sia in Russia sia in Italia. Che cosa m'importa che Stalin ostenti i principi di Marx, o Mussolini si faccia sgabello del papa e del re, o Hitler predichi la crociata della stirpe germanica? L'effetto è uguale dovunque: lo sfruttamento della generalità della nazione da parte di pochi che si fanno strumenti al potere e il piegamento dello spirito alla viltà della propaganda o della rassegnazione."

    Venturi sottolinea lo sforzo straordinario che si registra nell'Urss nel settore dell'istruzione come in quello dell'industrializzazione ma non ritiene, a ragione del resto, che l'uno e l'altro aspetto cancellino l'oppressione di una ristretta oligarchia di partito intenta a controllare i sudditi dalla culla alla tomba.

    La postilla di Rosselli che, ricordando sul settimanale di Gl il 9 novembre 1934 l'anniversario della rivoluzione russa, aveva già espresso un giudizio severo sulla dittatura ("nel migliore dei casi bisogna ammettere che si è ancora molto lontani dal socialismo in Russia"), non mette in dubbio la fondatezza dei giudizi di Venturi che "ha afferrato molto bene le analogie di natura formale, le quali consistono molto precisamente nel funzionamento barbaro dei meccanismi di potere" e riconosce che "la dittatura di Stalin è altrettanto, e piú, spietata delle dittature fasciste", ma contesta il fatto che "è un errore di logica e di fatto parlare della Russia dal punto di vista di Stalin".

    "Quello che si deve fare - conclude il leader giellista - è parlare di Stalin dal punto di vista della Russia cioè opporre al dittatore la materia oppressa: la qualità, la natura, le forze attive della realtà russa di oggi [...] Che, nell'ottobre del '17, il popolo russo abbia fatto fisicamente irruzione sulla scena, e che sia oggi lui a fare la Russia, è una realtà capitale. Tanto piú capitale, in quanto è soltanto in nome e dal punto di vista di questo popolo, temprato e rifatto da vent'anni di scosse e di tensioni, che si può condannare e combattere la dittatura dei "bonzi" bolscevichi. Malgrado Termidoro e Bonaparte, la Rivoluzione Francese ha continuato a fare la Francia."



    La presa di posizione di Rosselli, che si interroga piú volte nel biennio che segue alla vittoria di Hitler (e negli anni successivi fino alla precoce scomparsa) sull'avvenire della rivoluzione russa e sull'evoluzione-involuzione del regime sovietico, risente in maniera determinante di due fattori centrali nella sua strategia politica e tra loro connessi: in primo luogo, il significato storico della rivoluzione del '17 per il popolo russo e per l'Europa piú importante, a suo avviso, degli sviluppi negativi (ma contingenti) della dittatura staliniana, una valutazione che accomuna in quel momento non soltanto il movimento comunista ma tutte le correnti socialiste; quindi, l'espansione dei fascismi nel continente e il contrasto che è nelle cose e si manifesta ogni giorno tra il regime sovietico e le dittature tedesca e italiana che perseguitano anzitutto i comunisti dell'Internazionale. Sono questi due elementi che condizionano il giudizio di Rosselli e lo portano a sperare comunque nell'evoluzione democratica della rivoluzione russa e a guardare all'Urss come a un alleato necessario per battere Hitler e Mussolini. Ma non c'è dubbio che la postilla del fiorentino all'analisi di Venturi nasconde una certa difficoltà, una sorta di ambivalenza che è abbastanza evidente negli scritti rosselliani di questo periodo.

    Due anni dopo, mentre Rosselli è impegnato direttamente nella guerra civile spagnola, il figlio di Lionello Venturi, Franco, il futuro storico dell'Illuminismo e del populismo russo, dopo un viaggio nell'Unione Sovietica, scriverà sul settimanale "Gl" cinque articoli che cercano di andare a fondo in un'indagine sulla realtà sovietica, soprattutto dal punto di vista culturale, ma non si discostano dalle valutazioni del padre nel giudizio finale sulla dittatura staliniana come "mondo chiuso" nel quale la politica, come tale, è stata del tutto abolita.

    Non è un caso, peraltro, che il gruppo dei "novatori" di cui facevano parte Chiaromonte e Caffi abbandoni il movimento proprio nel 1935 e che Carlo Rosselli approfondisca le sue posizioni negli ultimi due anni della sua vita di fronte all'Etiopia e alla Spagna, considerando una scelta necessaria - pur senza smentire le sue precedenti analisi - quella accanto ai socialisti e ai comunisti (piuttosto che con i repubblicani, gli anarchici o con i trockisti) contro i fascismi che ormai si accingono a scatenare la guerra(10).



    4. Rosselli e Gl di fronte all'Etiopia e alla Spagna. Che fare? Le motivazioni della "svolta a sinistra" che si realizza in Giustizia e libertà tra il 1934 e il 1936 stanno in effetti nella riflessione rosselliana sui caratteri della rivoluzione italiana necessaria per abbattere il fascismo, dopo il fallimento dell'esperienza concentrazionista e l'analisi disincantata dell'impotenza delle democrazie occidentali - in primo luogo la francese e l'inglese - di fronte alla strategia espansionista delle dittature di Hitler e Mussolini. Rosselli riafferma come centrale il ruolo del movimento di Giustizia e libertà per la costruzione di un "partito unico dell'antifascismo", che allora gli appare come l'obiettivo prioritario. Al tempo stesso introduce un'importante correzione costituita dal fatto che, con la svolta sui fronti popolari del VII Congresso dell'Internazionale comunista e la stipulazione del patto di unità d'azione tra socialisti e comunisti, cerca pazientemente l'accordo con i comunisti e non accetta piú la prospettiva di fungere esclusivamente da centro di unificazione delle varie correnti socialiste. È su questa piattaforma di iniziativa politica in disaccordo con Emilio Lussu che di Gl avrebbe voluto fare il nuovo partito socialista e consuma fino in fondo il contrasto preesistente con Salvemini e Tarchiani che, malgrado giudizi altrettanto duri sulle democrazie occidentali e preoccupazioni altrettanto gravi per l'espansione dei fascismi, sono contrari alla svolta e alla trattativa con i comunisti.

    Sia di fronte alla guerra d'Africa, sia successivamente di fronte al conflitto spagnolo, Rosselli sollecita e conduce, pur tra forti contrasti, incontri e colloqui riservati per una fattiva unità d'azione con il partito di Togliatti, di Grieco e di Di Vittorio. I tentativi, interrotti dall'assassinio di Bagnoles sur l'Orne, non giungono a nessuna pratica conclusione, perché la nuova strategia dei fronti popolari adottata dal Partito comunista d'Italia non può comportare il rapporto privilegiato con una formazione nuova come Gl, con la quale i partiti del movimento operaio hanno lottato duramente negli anni precedenti per l'egemonia della lotta antifascista in Italia, piuttosto che con i socialisti.

    Ma la documentazione che di quei negoziati ci resta, testimonia di un progetto ambizioso di "partito unico dell'antifascismo" da fondare in Italia attraverso una stabile intesa con la sola altra avanguardia rivoluzionaria che Rosselli considera attiva nella clandestinità e disponibile ad azioni a vasto raggio (nel 1936-37 si parlò, addirittura a piú riprese, di una spedizione in Italia)(11).

    Quanto al programma da attuare, alla società da costruire dopo la caduta del fascismo, non c'è dubbio che il periodo che va dal 1934-35 al 1937 segni una radicalizzazione nelle posizioni del movimento giellista. Accanto agli scritti di Rosselli sul settimanale sono particolarmente eloquenti due documenti inediti, l'uno del 1935, l'altro dell'anno successivo che chiariscono l'evoluzione di Giustizia e libertà rispetto alle posizioni del periodo concentrazionista.

    Il primo documento è una lettera del 15 ottobre 1935 a Gaetano Salvemini che si era opposto nettamente alla svolta a sinistra. Riferendosi allo schema di programma di Gl del 1932 a suo avviso già chiaro nell'indicare gli obiettivi della rivoluzione ("spartizione di tutta la terra, nazionalizzazione delle banche e di molte branche industriali, l'espropriazione degli stabili, la punizione dei responsabili non solo della politica ma anche dell'industria e dell'agraria"), Rosselli ricorda a Salvemini quel che già si era concordato:

    "Quando mai tu hai pensato che riforme di questa portata, in un paese come l'Italia, si sarebbero potute attuare salvaguardando la continuità dell'ordine costituito? Quando mai hai pensato che fosse possibile punire i responsabili, tagliare il bubbone, rispettando la legalità, la libertà, fin dall'inizio? Il nostro era un programma di rivoluzione non solo politica ma sociale e tale è rimasto."

    Quindi il leader giellista enuncia i punti essenziali della nuova piattaforma:

    "[...] In fondo il problema che noi vogliamo affrontare e risolvere è quello di una conciliazione non esteriore, ma organica, di un'organizzazione socialista della produzione industriale e semisocialista della produzione agraria, con nuclei artigianali, tecnici, professionali col rispetto della libertà e della dignità dell'uomo. La rivoluzione russa portata in occidente, con tutta l'eredità dell'occidente. Questi sono compiti da offrirsi a una generazione."

    L'altro documento è costituito dagli appunti presi da Rosselli per un discorso pubblico nei mesi immediatamente successivi alla vittoria militare fascista in Etiopia. Nell'elencazione dei punti fondamentali per la lotta al fascismo, il fiorentino scrive che "la forza essenziale di questa lotta è costituita dal proletariato dei campi e delle officine; ed è da lui che si sprigiona la nuova classe dirigente"(12).

    L'esperienza della guerra civile spagnola e la crociata antisovietica che si scatena nel 1937, insieme alla convinzione sempre piú netta (a differenza di Lussu e d'accordo invece con Trentin) che "i socialisti sono finiti", non mutano il giudizio fortemente critico di Rosselli sull'esperienza sovietica e sull'Internazionale comunista ma lo persuadono della necessità e direi dell'urgenza di trovare un accordo stabile con i comunisti italiani. Pochi giorni prima di essere ucciso (26 maggio 1937), scriverà a Dozza riferendosi a un nuovo attacco comunista a Giustizia e libertà:

    "Bisogna stroncare questi residui settari dell'antifascismo se vogliamo arrivare a un'unità fattiva [...] Credo che farete presto l'esperienza di quanto sia preferibile collaborare con uomini e movimenti che assumono una posizione esplicita, piuttosto che con elementi che si lasciano rimorchiare difettando di forza autonoma(13)."

    A parte altri interventi, che non è possibile ricordare in questa sede, confermano una simile evoluzione i cinque articoli che Rosselli pubblicò nel maggio 1937 sul settimanale giellista e che sono tutti dedicati al tema fondamentale che ormai l'occupava, vale a dire l'unificazione politica del proletariato italiano (come si intitolò la serie di scritti). Nell'ultimo, apparso il 14 maggio 1937, ripercorrendo la storia del suo movimento, dedica un passaggio illuminante alla posizione sua e di Gl dopo i grandi avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni precedenti. Scrive Rosselli:

    "Gl è un movimento che ha ormai un netto carattere proletario. Non solo perché il proletariato si mostra ormai ovunque come l'unica classe capace di operare quel sovvertimento di istituzioni e di valori che si propone; non solo perché nel seno del movimento gli elementi proletari hanno sempre il maggior peso; ma perché nell'esperienza concreta della lotta ha misurato tutta l'incapacità, lo svuotamento della borghesia come classe dirigente."

    E piú oltre aggiunge:

    "Dovremmo definirci a un tempo socialisti e comunisti e libertari (socialisti-rivoluzionari, comunisti-liberali) nel senso che riconosciamo quel che di vitale ciascuna di queste posizioni, in sia pure varia misura, contiene. Nel socialismo vediamo la forza animatrice di tutto il movimento operaio. La sostanza di ogni reale democrazia, la religione del secolo. Nel comunismo la prima storica applicazione del socialismo, il mito (assai logorato purtroppo) ma soprattutto la piú energica forza rivoluzionaria. Nel libertarismo l'elemento di utopia, di sogno, di prepotente, anche se rozza e primitiva, religione della persona."

    L'articolo si chiude con il riferimento alla necessità di una nuova sintesi che superi le precedenti (e che Giustizia e libertà si propone di dare) e con la riaffermazione dell'impossibilità da parte di una corrente politica di condurre da sola la lotta contro il fascismo.

    Ora non è questa la sede di affrontare un'analisi esauriente dell'evoluzione del pensiero rosselliano negli ultimi anni (che sarà oggetto del secondo volume della biografia del fiorentino che sto ultimando) ma mi sembra rilevante sottolineare i due aspetti che emergono con forza dai documenti appena citati: da una parte, la spinta all'unificazione del movimento antifascista che fu l'obiettivo raggiunto, sia pure con molte difficoltà, dalle forze della Resistenza negli anni Quaranta; dall'altra, il giudizio negativo sui socialisti (e in parte sugli anarchici) da parte di Rosselli e il privilegiamento dell'alleanza con i comunisti riconosciuti come la maggiore forza rivoluzionaria antifascista14.



    * Testo della relazione presentata al convegno internazionaleAntifascismi e Resistenze, organizzato a Roma dalla Fondazione Istituto Gramsci, 5-6 ottobre 1995.

    Studi Storici 3, luglio-settembre 95 anno 36



    1 Mi riferisco, per far due esempi significativi, al modo in cui gran parte dei giornali italiani ha presentato l'ultimo saggio di E. Nolte su Gli anni della violenza, Rizzoli, 1995, che nulla di nuovo dice rispetto ai lavori precedenti dello storico tedesco ma che è stato salutato quasi come la soluzione dei maggiori problemi storici del XX secolo o alreportage di F. Bandini, Il cono d'ombra, Milano, SugarCo, 1990, sull'assassinio dei Rosselli in Francia, privo di documenti in grado di provare la tesi sostenuta dall'autore secondo la quale Carlo e Nello sarebbero stati assassinati dai comunisti della III Internazionale anziché dai cagoulards pagati dal Sim di Ciano, come Salvemini aveva dimostrato in maniera convincente già oltre cinquant'anni fa.

    2 Per una lettura analitica dei "Quaderni di Giustizia e libertà" apparsi negli anni Trenta cfr. S. Fedele, E verrà un'altra Italia. Politica e cultura nei Quaderni di Giustizia e libertà, Milano, Angeli, 1992, passim. Quanto agli scritti di Carlo Rosselli sono finalmente disponibili presso Einaudi i tre volumi delle sue Opere scelte, cioèSocialismo liberale, a cura di J. Rosselli (1973); Scritti dell'esilio, I, "Giustizia e libertà" e la Concentrazione antifascista (1929-1934), e Scritti dell'esilio, II, Dallo scioglimento della Concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), entrambi a cura di C. Casucci, apparsi il primo nel 1988, il secondo nel 1992. Su Carlo Rosselli dopo la fondazione di Giustizia e libertà, nel 1929, devo rinviare ai due volumi di A. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Firenze, Edizioni U, 1945, al volume collettivo Giustizia e libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1978 e ai saggi di chi scrive, L'itinerario di Carlo Rosselli. Gli ultimi dieci anni, in N.Tranfaglia, Labirinto italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1989, eSul socialismo liberale di Carlo Rosselli, in Aa.Vv., I dilemmi del liberalsocialismo, Roma, La Nuova Italia scientifica, 1994.

    3 C. Rosselli, Scritti dell'esilio, I, cit., Italia e Europa, p. 205. Per le motivazioni del giudizio riportato nel testo a proposito dei caratteri della stabilizzazione fascista devo rinviare a N. Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, Utet, 1995, cap. VI, pp. 645 sgg.

    4 Per le frasi citate cfr. C. Rosselli, Scritti dell'esilio, I, cit., Italia e Europa, pp. 206-210.

    5 Per quel dibattito cfr. ancora S. Fedele, E verrà un'altra Italia, cit., pp. 58-103.

    6 Sulla figura singolare di Andrea Caffi disponiamo per ora soltanto del breve scritto di G. Bianco, Un socialista "irregolare": Andrea Caffi intellettuale e politico d'avanguardia, Cosenza, Lerici, pubblicato nel 1977 con una testimonianza di Alberto Moravia. A una biografia critica di Angelo Tasca, dopo alcuni lavori parziali, attende ora Sergio Soave. L'intervento di Caffi apparve nel n. 4 dei "Quaderni", nel settembre 1932, comePostille all'Interpretazione dell'Hitlerismo di Odis (G.L. Luzzatto); quello di Tasca nel n. 7 con il titolo Opinioni sulla Germania. Dei "Quaderni di Giustizia e libertà" sono apparse due ristampe fototipiche autorizzate presso la Bottega d'Erasmo a Torino: una nel 1959, con prefazione di Alberto Tarchiani; l'altra nel 1975 con prefazione di Alessandro Galante Garrone.

    7 L'articolo è stato ripubblicato, con i piú importanti saggi politici di Nicola Chiaromonte, in un volume di Scritti politici e civili edito da Bompiani nel 1976, con un'introduzione di Leo Valiani e una testimonianza di Ignazio Silone. Per la rottura politica con Rosselli e Gl cfr. A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, cit., pp. 93 sgg.

    8 Cfr. C. Rosselli, Punte vive, in "Giustizia e libertà", 20 marzo 1936; A. C. [Caffi], Posizioni difensive e posizioni di attacco, in "Giustizia e libertà", 10 agosto 1934.

    9 Onorio [A. Caffi], Opinioni sulla rivoluzione russa, "Quaderno di Giustizia e libertà", n. 2, marzo 1932. Nell'ampia rassegna di studi che l'autore dedica agli autori di parte socialista che si sono occupati di recente della situazione sovietica (da Otto Bauer a Karl Kautsky) oltre che ai resoconti di molti esuli russi, Caffi giunge a una conclusione amara e in netto dissenso - mi pare - con quella prevalente in Gl quando afferma: "La dittatura di Stalin è quello che è perché si è costituita con i metodi dell'"inutile strage" e perché non ha trovato altre ancore di salvezza che l'accentramento burocratico, il militarismo, gli arbitrii polizieschi. Non è un "contrappeso" ai regimi di reazione capitalistica che sopportiamo in molti paesi d'Europa e d'America; è un elemento di questa costellazione reazionaria; in essa e per essa si sostiene" (ivi, p. 99).

    10 Sugli articoli sulla Russia di Franco Venturi di cui si accenna nel testo cfr. l'interessante ricerca di E. Tortarolo, La rivolta e le riforme. Appunti per una biografia intellettuale di Franco Venturi, pp. 1-16 del dattiloscritto ancora inedito. Per la svolta di Gl e le posizioni assunte da Rosselli rinvio ancora a N. Tranfaglia, L'itinerario di Carlo Rosselli, cit.

    11 Sui rapporti tra Gl e Pci tra il 1934 e il 1937 cfr. A. Agosti, Il Pci di fronte al movimento di Gl (1929-1937), in Aa.Vv.,Giustizia e libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia, cit., pp. 331 sgg.

    12 Per i documenti citati nel testo cfr. N. Tranfaglia,L'itinerario di Carlo Rosselli, cit., pp. 201-203.

    13 A. Agosti, Il Pci di fronte al movimento di Gl (1929-1937), cit., p. 362.

    14 C. Rosselli, Per l'unificazione politica del proletariato, in "Giustizia e libertà", 14 maggio 1937, ora in Id.,Scritti dell'esilio, II, cit., pp. 530-537.
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    IL SOGGIORNO GENOVESE DI CARLO ROSSELLI
    di Alberto Rosselli

    Ricostruire, per quanto possibile, sulla scorta dei pochi documenti e delle scarne testimonianze, il breve periodo trascorso a Genova (1925 – 1927) da Carlo Rosselli non è cosa facile. Nel corso della sua breve e movimentata vita di intellettuale profondamente impegnato in politica, Carlo Rosselli (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937) fu costretto, anche a causa delle persecuzioni del regime fascista, a cambiare spesso città e addirittura Paese.

    Fortunatamente, la parentesi genovese di Rosselli, che coincise con l’incarico universitario affidatogli proprio tra il 1925 e il 1927 dal professor Attilio Cabiati, ordinario della allora prestigiosa Scuola Superiore di Commercio (nel novembre 1924, per la precisione, Rosselli fu incaricato della docenza di Istituzioni di Economia Politica e l’anno seguente dell’insegnamento di Economia Politica e di quello di Storia delle Dottrine Economiche), coincise anche in parte con la diffusione della rivista Pietre (periodico culturale fondato nel 1926 da Enrico Alpino e altri intellettuali liguri di area socialista e liberale) con la quale Rosselli ebbe modo di confrontarsi. Buona parte delle notizie sul soggiorno dell’uomo politico a Genova si possono quindi estrapolare dalle stesse pagine della rivista che ospitò alcuni suoi interventi. Nel suo ottimo saggio Pietre – Antologia di una Rivista (1926 – 1928) Giuseppe Marcenaro riporta le testimonianze dei redattori e degli intellettuali antifascisti che in quel periodo ebbero modo di incontrare e conoscere Carlo Rosselli: una serie di brevi ma interessanti annotazioni che ci hanno aiutato non poco a fare luce su uno dei periodi meno noti della vita e dell’attività culturale del padre del pensiero politico liberalsocialista italiano.

    Carlo Rosselli nacque a Roma nel 1899 da una famiglia di antiche tradizioni repubblicane e si laureò in Scienze Politiche a Firenze, insegnando in seguito a Milano e infine a Genova. Profondo conoscitore di economia, storia e di dottrine politiche, Carlo Rosselli ancora molto giovane iniziò a dedicarsi alla politica attiva sul versante antifascista venendo a contatto con quasi tutti gli intellettuali italiani che negli anni Venti e Trenta, da posizioni ideologiche diverse, si impegnarono nella resistenza attiva o passiva contro il regime di Mussolini. Abbracciò il socialismo nell’immediato primo dopoguerra e con Pietro Nenni fondò la rivista Quarto Stato.

    Con Gaetano Salvemini, Piero Calamandrei ed Ernesto Rossi fondò all’indomani dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1924) il foglio antiregime Non mollare! al quale collaborò anche suo fratello minore Nello (1900-1937) che in seguito condividerà con lui l’esilio forzato e la tragica fine. Pur interessandosi di politica, Nello preferì comunque dedicare sempre gran parte delle sue energie agli studi storici (egli fu allievo di Salvemini e buon conoscitore della storia del movimento operaio e di quella del Risorgimento). Dopo la parentesi genovese, Carlo Rosselli intensificò ulteriormente l’attività politica e sovversiva. Nel 1927 venne processato e condannato all’esilio nell’isola di Lipari per avere organizzato, insieme a Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Bauer, la fuga di Filippo Turati in Francia. Nel 1929 riuscì comunque ad evadere dall’isola con Emilio Lussu e Fausto Nitti, e a raggiungere anch’egli la Francia, per poi vagabondare anche in Svizzera e Germania. Tra il 1928 e il 1929 Rosselli, allora al confino a Lipari, trovò il tempo per scrivere la sua opera più significativa, Socialismo Liberale (che venne poi pubblicata nel 1930, in lingua francese, a Parigi) e per fondare il movimento Giustizia e Libertà, che vide anche la fattiva partecipazione del suo amico Ernesto Rossi.

    Come è noto, le teorie politiche di Rosselli condensate in Socialismo Liberale, hanno avuto il potere di influenzare, scuotere e anche far storcere il naso ad almeno un paio di generazioni di pensatori italiani ed europei, che videro nell’insegnamento di Rosselli una nuova traccia da seguire - o come vedremo da contestare - nell’evoluzione del pensiero liberale, libertario e socialista. Nonostante la profondità e preveggenza del suo libro, Rosselli venne anche aspramente criticato da non pochi leader comunisti e socialisti dell’epoca. Palmiro Togliatti scrisse su Lo Stato Operaio che il libro di Carlo Rosselli “si collegava in modo diretto alla letteratura politica fascista” e Claudio Treves, in nome del “socialismo marxista” rimproverava l’intellettuale di avere “abbandonato il collettivismo economico e la strategia classista”. Persino Giuseppe Saragat, futuro leader del Partito Socialista Democratico e riformista, contestò a Rosselli “la sua interpretazione troppo formalistica dell’idea di libertà”, per poi ripensarci più tardi quando, nel dopoguerra, disse che Rosselli era stato l’unico uomo politico italiano a concepire una “teoria della libertà veramente innovativa”. Insomma, sulle prime l’opera Socialismo Liberale e il pensiero politico di Rosselli fecero molto scalpore nell’ambiente della sinistra massimalista e comunista. Bisognò infatti attendere addirittura gli anni Settanta per vedere riemergere dall’oblio nel quale era stata relegata con una certa discrezione la sua opera integrale, giudicata ancora piuttosto scomoda dalla cultura ufficiale. Rosselli, come tutti i veri intellettuali libertari, continuava a creare disagio e incomprensioni essendo difficilmente catalogabile o assimilabile dalle correnti politiche e sociologiche più in voga. Nonostante alcune similitudini, il pensiero politico di Carlo Rosselli differiva anche da quello di Piero Gobetti, soprattutto per quanto concerneva il giudizio sulla Rivoluzione d’Ottobre e l’operato di Lenin. Rosselli condannò la prassi prevaricatrice adottata dal leader di Mosca per la presa del potere in Russia e le “inenarrabili sofferenze inflitte al suo popolo”, mentre Gobetti, che era un fior di intellettuale dal cuore generoso ma che non era del tutto a conoscenza della realtà russa degli anni Venti, diede a questo proposito interpretazioni nettamente più accondiscendenti nei confronti della nomenclatura rivoluzionaria sovietica, più che altro sulla base di elementi mitici ed illusori.



    Con Giustizia e Libertà, Carlo Rosselli mosse quindi decise e precise accuse, tutte, si badi bene, basate su analisi scientifiche, nei riguardi dell’autoritarismo e dell’intolleranza dei comunisti della III Internazionale. Rosselli contestava a Marx e ai suoi discepoli l’interpretazione meccanicistica e naturalistica della realtà e dei rapporti sociali: un atteggiamento ideologico che a parer suo non lasciava alcuno spazio alla coscienza e alla volontà degli uomini. Il movimento Giustizia e Libertà si proponeva infatti di fondere l’intransigenza rivoluzionaria con lo spirito liberale e libertario che sarà più tardi la principale componente ideologica del Partito d’Azione.
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    LA LEZIONE DI CARLO ROSSELLI: SOCIALISMO LIBERALE CONTRO IL LIBERISMO SELVAGGIO

    di NORBERTO BOBBIO



    Caro Coen, sin dal giorno in cui mi rivolgesti l'invito a partecipare a questo Convegno, ti dissi che non mi era possibile accettarlo per le mie condizioni di salute. A dire il vero sono stato trattenuto anche dalle mie condizioni di spirito. Di fronte all'enorme complessità dei problemi dell'era della cosiddetta globalizzazione, occorrerebbe una vista lungimirante e acuta, mentre la mia sta diventando sempre più corta e confusa.

    La premessa da cui partiamo è che in un paese come l'Italia che appartiene a pieno diritto all'Europa, lo spazio della sinistra alternativa alla desta non può essere che quello del socialismo democratico e, va da sé, liberale. Però è già stato osservato, a mio parere giustamente, che nella frantumazione, per non parlare dello spappolamento, del nostro sistema politico, sembra che ci sia posto ormai soltanto per partiti sempre più piccoli, che in continua rissa fra di loro si fanno e si disfano da un giorno all'altro nella quasi totale indifferenza di coloro che dovrebbero esserne i destinatari. L'unico partito per il quale sembra non ci sia più posto è un partito socialista unitario e a vocazione maggioritaria, come c'è negli altri paesi dell'Europa di Maastricht. Quali siano le ragioni per cui in Italia un grande partito socialista non ha mai avuto diritto di cittadinanza in questi ultimi cinquant'anni, è stato un argomento sul quale si potrebbe raccogliere una intera biblioteca. Ma da questa ineccepibile constatazione non si può trarre che una sola conseguenza: se di un grande partito socialista che occupi tutto o quasi tutto lo spazio della sinistra non c'è mai stata traccia nel nostro paese, e i partiti socialisti sono sempre stati incredibilmente più di uno in concorrenza fra loro, l'impresa cui ci accingiamo non è facile, anzi, diciamolo pure con tutta franchezza e col dovuto senso di responsabilità, difficilissima. Il che non vuol dire che non debba esser tentata, specie nel momento in cui un socialismo troppo rigido e uno, all'estremo opposto, troppo flessibile, dovrebbero aver imparato una severa lezione dalla loro sconfitta.

    L'omaggio a Carlo Rosselli è già di per se stesso la testimonianza che il socialismo illiberale, che per anni ha ristretto lo spazio del socialismo democratico in Italia, contro il quale Rosselli aveva lungamente combattuto, è stato ormai definitivamente abbandonato. Però occorre riflettere sul fatto che la situazione oggi è rispetto a quella di Rosselli completamente cambiata, per non dire rovesciata.

    Il fronte contro il quale il socialismo democratico di oggi deve schierarsi non è più quello del socialismo pervertito da restituire ai suoi principi in nome della libertà, ma, in nome della giustizia sociale, quello del liberalismo trionfante. Se il socialismo liberale era nato per rivendicare i diritti di libertà contro un socialismo diventato dispotico, il socialismo liberale di oggi deve difendere i diritti sociali, come condizione necessaria per la migliore protezione dei diritti di libertà, contro il liberismo anarchico. Come si legge nell'Introduzione al Manifesto del Partito del socialismo europeo: "Diciamo si all'economia di mercato, ma no alla società di mercato.

    Tu hai pubblicato in questi giorni un libro in cui hai revocato il dibattito ospitato dalla rivista da te diretta e lo hai intitolato "Le Cassandre di Modoperaio". Permetti a uno dei partecipandi a quel dibattito, quale sono stato io, di continuare a fare la parte ingrata della Cassandra, una parte che del resto è sempre stata la mia vocazione.

    Per dare nuova forma e nuovo contenuto a un grande partito socialista, oggi non basta ricostituire la sinistra. Occorre prendere atto che nel nostro paese sta attraversando una crisi gravissima lo stesso istituto del partito politico. Come è capitato spesso nella storia del nostro paese, è avvenuto in breve tempo il passaggio da un estremo all'altro, dalla cosiddetta partitocrazia a una situazione che con un neologismo si potrebbe chiamare "partitopenia".

    I partiti che si vengono formando oggi in Italia non hanno più nulla del partito nel senso originario della parola. Sono raggruppamenti personali e occasionali che stanno avendo un unico effetto, quello di far aumentare l'astensione elettorale, cioè il partito dell'antipartito. Il nuovo partito di sinistra deve affrontare dunque una duplice crisi, non solo quella del socialismo da ricostituire, ma anche quella della istituzione "partito", la cui crisi inceppa addirittura il regolare funzionamento della nostra democrazia.

    Però, un problema alla volta.
    Coi più cordiali saluti a tutti e auguri di buon lavoro.
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    Giorgio Ruffolo :Back to the future


    Comincio con una citazione.

    "Il liberalismo si è investito progressivamente del problema sociale e non sembra più necessariamente legato ai principi dell’economia classica, manchesteriana. Il socialismo si va spogliando, sia pure faticosamente, del suo utopismo ed è venuto acquistando una sensibilità nuova per i problemi di libertà e di autonomia. E’ il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi".

    Con queste parole Carlo Rosselli apre il suo saggio Socialismo liberale, composto a Lipari, quando vi era confinato, e che nascose allora in un vecchio pianoforte per sottrarlo alla indiscreta curiosità della polizia fascista. Queste parole mi sembrano attualissime e adatte a introdurre il tema del nostro Convegno che si intitola appunto: ricordando Carlo Rosselli. Ma che non vuole essere, lo dico subito, un convegno di studi sulla sua figura e sulla sua opera. Noi lo intendiamo come un’occasione per ripresentare il grande tema del rapporto tra socialismo e libertà. Questione antica quanto il socialismo, che oggi si ripropone in un contesto completamente nuovo. Il nostro scopo è di ridestare una memoria del passato per alimentare una riflessione politica sul presente e, soprattutto, sull’avvenire.

    Mi limito a svolgere qualche breve considerazione personale su quattro punti sui quali mi pare che il pensiero di Rosselli incrocia i nostri problemi attuali.

    Il primo punto riguarda il rapporto del socialismo con la democrazia.

    Rosselli mosse un attacco centrale alla visione marxista. Rifiutò il suo determinismo palingenetico, sia nella versione dialettico-hegeliana, sia in quella scientista- positivista. Sostenne una concezione moderna dell’azione politica, aperta all’incertezza e alla fallibilità. Respinse la violenza come metodo dell’azione, accettando senza riserve il metodo della libertà e della democrazia. Escluse la discontinuità rivoluzionaria in nome del riformismo gradualista.

    Quando si dice gradualismo e riformismo, bisogna stare attenti a non intenderlo come un comportamento politico fiacco e rassegnato. Non c’è niente di più impavido e anche avventuroso dell’azione politica di Carlo Rosselli. Il suo liberalismo si spinse, in difesa della libertà calpestata dalle masnade fasciste, sino alla soglia del tirannicidio. Rosselli fu un intrepido eroe della libertà, fino alla morte.

    Quella concezione laica della democrazia che Rosselli aveva rivendicato per il socialismo di contro all’utopia rivoluzionaria, doveva essere ripresa e sviluppata, nella sinistra italiana, dal revisionismo socialista degli anni sessanta e settanta, di contro alle concezioni organicistiche della democrazia, che permeavano una parte così rilevante della sua cultura. Rivissero allora e si svilupparono, in un dibattito che attinse punte elevate di dignità culturale, correnti che si ispiravano da una parte, a Rosselli e a Bobbio; dall’altra, a Gramsci e a Togliatti. A considerare oggi quel dibattito in prospettiva, mi pare appaia chiaro come la prima di queste due posizioni puntasse a creare in Italia una moderna democrazia fondata su forti istituzioni politiche, una democrazia insieme conflittuale e governante, simile ai modelli predominanti nella maggior parte dell’occidente europeo; e pertanto attribuisse un grande valore alle riforme istituzionali e costituzionali; mentre la seconda valorizzava l’importanza delle grandi correnti popolari che hanno attraversato la storia del nostro paese e vedeva la democrazia italiana molto più come l’incontro di queste correnti in una unità organica, che come l’espressione di un conflitto di partiti e di idee in un ambito costituzionale condiviso.

    Mi sembra che oggi sia la prima di queste concezioni ad avere prevalso; anche se sotto la cenere di quella battaglia covano ancora le pulsioni dell’anomalia italiana.

    La scelta incondizionata della democrazia formale, comunque, ha cessato da tempo di dividere la sinistra. Tutta la sinistra è diventata da tempo, sotto questo aspetto, socialdemocratica. Non tutta la sinistra invece ha assorbito pienamente il metodo liberale come regola, costume, spirito. L’intolleranza che si è manifestata da noi in certe forme di giustizialismo fazioso e vendicativo, per esempio, è di pura marca illiberale. Ma di certo oggi non vi è una "questione democratica", come ai tempi di Rosselli. La democrazia non è insidiata né dal fascismo né dal comunismo. Ciò non significa che essa non corra pericoli. Il pericolo più grave che insidia oggi la democrazia è il populismo. E’ l’attacco alla democrazia rappresentativa in nome, non di una democrazia diretta, impraticabile, ma di una democrazia plebiscitaria. In nome, non del popolo sovrano, ma della gente anonima. In nome, non della discussione, ma della eccitazione. Il vero pericolo sta nell’attacco demagogico ai partiti. Sta nel radicalismo fanatico. Sta nel conformismo mediatico.

    Un secondo aspetto per il quale il socialismo liberale di Rosselli era in anticipo sui tempi era quello del rapporto tra il socialismo e il capitalismo. Carlo Rosselli era un economista moderno e aggiornato: collega e cugino di Piero Sraffa, formatosi, come lui, alla scuola di Luigi Einaudi, ma anche di Cabiati, che fu uno dei primi interpreti di Keynes in Italia. Egli riconobbe immediatamente l’arretratezza del marxismo ortodosso nell’analisi del capitalismo e delle sue tendenze. Gli fu subito chiaro l’errore di fondo di quell’analisi, e cioè la convinzione che l’economia capitalistica fosse destinata a confluire attraverso la concentrazione e la proletarizzazione in un solo grande fiume che omogeneizzava la società; quando invece si stava diversificando in forme complesse di organizzazione produttiva. Il precetto della pianificazione centralizzata veniva così a cozzare con quelle tendenze: il che spiega il mostruoso insuccesso storico dell’esperimento sovietico che Sraffa per tutta la vita si rifiutò di riconoscere e Rosselli denunciò subito lucidamente.

    Del resto il manicheismo anticapitalistico, a quei tempi, era condiviso anche dalla maggior parte del socialismo riformista. Si dovettero superare due guerre e una grande crisi perché le grandi socialdemocrazie si riscuotessero da quel manicheismo e si risolvessero decisamente a operare nel quadro di un’economia di mercato e sulla base di un "compromesso storico" con il capitalismo. Quel compromesso porta il nome di due liberali insigni, Keynes e Beveridge e il segno del Welfare State, del quale giustamente la socialdemocrazia è fiera.

    Quella felice esperienza conobbe poi, come tutte le istituzioni umane, un accumulo di entropia, una degenerazione. La degenerazione dello Stato sociale fu lo statalismo: la convinzione errata che le gestioni pubbliche fossero in linea di principio migliori di quelle private. Anche i programmatori socialisti furono vittime di quella patologia.

    Ma quella nostra "programmazione" fu anche un tentativo di modernizzazione che la sinistra comunista rifiutò per miope supponenza e quella socialista abbandonò per viltà. Io penso che quell’istanza, oggi, si ripresenti. E che la cultura della programmazione, opportunamente aggiornata, possa essere il segno innovatore di un socialismo non burocratico, che non vuole gestire, ma regolare, e non semplicemente lasciar fare. Di un socialismo liberale.

    Infatti, la potente controffensiva capitalistica innescata dalla mondializzazione dei mercati e dalla rivoluzione delle tecnologie informatiche sta andando ben al di là del segno del riequilibrio rispetto allo statalismo dirigistico. Si sta instaurando un nuovo "fanatismo liberale", un determinismo finanziario ottuso, un’ideologia, anzi, un’idolatria del mercato totale. In nome di questa idolatria ci si rassegna, anche a sinistra, a fatti intollerabili. E’ ora di dirlo, finalmente. Non è necessario e non è sopportabile che in nome del Dio Mercato ci si rassegni, in economie ricche, alla disoccupazione di massa. Non è necessario e non è sopportabile che, in nome del Dio Mercato, ci si rassegni all’esclusione sociale di un vasto sottoproletariato di deboli e di poveri. Non è necessario e non è sopportabile che l’economia del mondo sia sgovernata, in nome del libero movimento dei capitali, da un capitalismo d’azzardo. Non è accettabile, insomma, per i socialisti, che l’economia diriga la politica, in una strana riedizione di neomarxismo capitalistico. E’ compito supremo della politica dare regole al mercato e determinare gli obiettivi dello sviluppo sociale. Il socialismo liberale è perfettamente compatibile con l’economia di mercato. Ma non ha niente a che fare con il capitalismo anarchico.

    C’è un terzo aspetto essenziale della battaglia revisionista che fu combattuta, a suo tempo, da uomini lungimiranti e coraggiosi, nel nome di un socialismo rinnovato, riformista e liberale. Ed è la battaglia federalista, per il superamento dello Stato-nazione. La battaglia per l’obiettivo che Carlo Rosselli indicò esplicitamente: gli Stati Uniti d’Europa.

    Si è parlato tanto di anomalia italiana e spesso, purtroppo, per valorizzare tendenze domestiche che andavano nel senso contrario alla modernità. Ma c’è un’anomalia italiana positiva che noi italiani possiamo offrire al socialismo europeo: ed è appunto la forte connotazione europeista che fu prima, in Italia, di una minoranza di sinistra illuminata e che è poi diventata, felicemente, patrimonio della grande maggioranza della sinistra italiana.

    Guai se i socialisti europei restassero al di qua di una scelta che ormai non ha più soltanto un carattere ideale e culturale, ma una natura autenticamente politica.

    Io non so se i partiti e i governi socialdemocratici saranno all’altezza di questa comprensione e di questo coraggio. Bisognerebbe dirlo chiaramente ai leader socialisti che governano oggi l’Europa. Se non daranno allo spazio europeo un governo adeguato alle sue enormi potenzialità, non potranno risolvere il problema dell’occupazione. E se non risolveranno quel problema potranno essere spazzati via in modo tanto sorprendente e subitaneo di come sono giunti al potere. Se ci fosse Pietro Nenni, forse gli direbbe: compagni, il socialismo sarà europeo, o non sarà.

    Infine: il messaggio più autentico di Carlo Rosselli stava nel socialismo come ideale morale: in quella endiadi di giustizia e libertà che divenne un motto glorioso .

    Quel motto non era uno slogan. Era una fede.

    Rosselli non aveva paura di usare questa parola. Diceva: meno scienza e più fede.

    Egli rivendicava l’intransigente affermazione della libertà individuale contro ogni gregarismo, autoritarismo, conformismo. Ma la riteneva inscindibile dalla domanda di giustizia: contro ogni sfruttamento, prevaricazione, privatismo.

    Egli vedeva in quel nesso inscindibile l’essenza stessa di un socialismo rinnovato. Di un socialismo liberale.

    Mi chiedo se non sia questo, oggi, nuovamente, il nucleo ideale centrale al quale attingere la forza necessaria perché un grande movimento socialista possa rinnovarsi senza rinnegarsi, dopo aver falsificato tante profezie di tramonto. Il Segretario del Partito ha detto, pochi giorni fa, a Bologna, che noi siamo la forza italiana del socialismo europeo: e dunque, non un partito anomalo, non una sala d’aspetto per un treno che non si sa se verrà, quando passerà e dove andrà. Talvolta, la storia è come il vento. Spazza la polvere che si è accumulata su verità che si credevano sepolte, riscoprendole; e copre di polvere i miti e le mode che si credevano nuovi e vittoriosi. Per sapere veramente che cosa è vecchio e che cosa è nuovo, basta aspettare un po’ di tempo.

    A chi ci chiede, e per l’ennesima volta, di ripiegare il socialismo nell’album di famiglia, dovremmo rispondere che per resistere al vento e per restare nella storia, bisogna avere radici forti. Ecco perché talvolta è utile tornare al futuro.
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    Valdo Spini: Gli elementi di attualità di Carlo Rosselli e del Socialismo liberale

    Gli elementi di attualità di Carlo Rosselli e del Socialismo liberale sono tre. Il primo è quello etico: il socialismo liberale di Rosselli è un socialismo dei valori. Il secondo è l’importanza del fattore istituzionale ai fini del pieno dispiegamento delle libertà e dell’effettiva realizzazione della sovranità popolare. Il terzo è il tema del necessario rapporto pubblico/privato nell’economia; per Giustizia e Libertà, era l’economia a due settori, oggi è il ruolo del pubblico in un’economia di mercato.

    È questa attualità che rende importante la nostra iniziativa, aldilà del sentimento e del ricordo. Sentimento e ricordo che pure sono fortissimi in chi, come me, ha passato gran parte della sua vita politica sotto le foto di Carlo e di Nello nel Circolo Rosselli, rifondato già nel 1944 dagli antichi soci del Circolo di Cultura, animato dagli stessi Rosselli nel 1920-24. In una città, Firenze, che nel 1951 ne aveva visto ritornare le salme, accolte da una gran folla di popolo. La commemorazione venne tenuta dal loro antico maestro Gaetano Salvemini e le bare furono portate a spalla, in prima fila, dal sindaco comunista Mario Fabiani, vestito in tuta da operaio.

    È vero. L’attualità dei Rosselli sta certamente anche nella loro storia. Una saga familiare eroica e colta, la cui conoscenza certamente può concorrere a raddrizzare la spina dorsale del nostro paese. E’ in casa degli antenati dei Rosselli, i Nathan, che muore a Pisa sotto falso nome Giuseppe Mazzini. I fratelli Rosselli sono tre e cadono tutti in giovane età. In guerra il primogenito, Aldo. Nel 1937, sotto il pugnale assassino della Cagoule, Carlo e Nello, due giovani intellettuali, l’uno economista di formazione, l’altro storico affermato. Allora, Carlo era reduce dalla guerra di Spagna, ma tutta la sua vita era stata condotta all’insegna di un attivo ed indomabile antifascismo. La coraggiosa madre dei Rosselli, Amelia Pincherle era imparentata con uno dei grandi della letteratura italiana, Alberto Pincherle, che scriveva col nome di Alberto Moravia. Una saga familiare che certamente rappresenta un punto di forza per la tradizione democratica del paese, un esempio di coerenza, di dirittura morale, di spirito di sacrificio. Una lotta antifascista mai disgiunta e questo è il grande merito storico da un’intransigente battaglia per la libertà. Una storia che non verrà mai ricordata abbastanza ai giovani del nostro paese.

    Si potrebbe sottolineare la straordinaria preveggenza di molte delle posizioni espresse da Carlo Rosselli sul fascismo, sull’inevitabilità della guerra, sugli stessi Stati Uniti d’Europa. Oppure parlare delle sue illuminanti intuizioni politiche. Nel 1937 Carlo Rosselli commemora a Parigi Antonio Gramsci, e afferma: "l’umanità ha perso un pensatore di genio e la rivoluzione italiana il suo capo". Gramsci si era venuto a trovare in netto dissenso con la direzione del suo partito, ma Rosselli coglieva la validità del suo messaggio per l’intera sinistra italiana.

    Ma il nostro convegno non intende tanto essere una rievocazione storica quanto un atto politico. Non siamo qui per aggiungere la foto di Rosselli ad un variegato "pantheon" dei nostri antenati, ma per compiere una precisa scelta politica. Noi siamo socialisti democratici e liberali. Non ci scioglieremo in un partito democratico. Siamo qui per interrogarci su cosa ci possa dire, alle soglie del Duemila, il messaggio politico e ideale di Carlo Rosselli, il suo testo teorico, Socialisme Liberal, apparso in francese, nell’esilio parigino nel 1930, con i successivi sviluppi fino agli ultimi scritti, stesi poco prima dell’uccisione, avvenuta il 9 giugno 1937, intitolati significativamente Per l’unificazione politica del proletariato. Nel 1926, Carlo Rosselli, con Sandro Pertini e Ferruccio Parri aveva organizzato l’espatrio dall’Italia del patriarca del socialismo italiano, Filippo Turati. Ma Rosselli era un socialista eretico. Aveva riflettuto sulla sconfitta e sull’avvento del fascismo, ed era insofferente di ogni immobilismo ed attendismo sia nel pensiero che nell’azione. Al suo apparire in francese, Socialismo Liberale per la sua critica radicale del marxismo fu accolto da un nutrito fuoco di sbarramento che andava dai socialisti riformisti ai comunisti. Claudio Treves intitolò la sua critica Né liberale né socialista. Anche il giovane Giuseppe Saragat fu critico, nonostante che Rosselli gli avesse dedicato il volume con questo distico: "al più liberale dei marxisti, il più marxista dei liberali". Critico anche il leader del partito socialista ufficiale, Pietro Nenni. Durissimi i comunisti: Palmiro Togliatti arrivò nel 1934 a definire Carlo Rosselli e il movimento da questi fondato, Giustizia e Libertà, addirittura "fascismo dissidente", aggiungendo imprudentemente che la storia gli avrebbe dato ragione. Oggi invece noi qui intendiamo rendere giustizia a Rosselli.

    Una prima precisazione si impone. Si parla del socialismo liberale, cioè di un revisionismo che parte dal socialismo. All'inizio degli anni Quaranta si presenterà in Italia, con il suo Manifesto, il liberalsocialismo di Calogero e Capitini. Se il socialismo liberale di Carlo Rosselli intendeva "fare i conti" fino in fondo con Marx e con il revisionismo socialista, fare approdare cioè compiutamente il socialismo all'idea di libertà, i liberalsocialisti giungevano a conclusioni analoghe partendo dalla sponda opposta, dal pensiero liberale, più concretamente dal magistero liberale di Benedetto Croce, considerato ormai politicamente inadeguato. Viceversa, lo stesso Croce non riconobbe mai la possibilità di una conciliazione di questi termini filosofici, liberalismo e socialismo, per lui antitetici. Egli coniò per il liberalsocialismo una definizione - l'ircocervo a significare un incrocio da cui sarebbe nata una creatura impossibile. Socialismo liberale e liberalsocialismo, partendo da sponde opposte, giungono a risultati analoghi ma non del tutto coincidenti.

    In realtà Rosselli si colloca, primo tra i socialisti italiani, ma in compagnia di quei laburisti inglesi che egli aveva studiato da giovane economista, nel solco dei socialisti non marxisti. Nel suo caso, in un socialismo post-marxista che supera esplicitamente il dibattito revisionista interno al marxismo stesso. Non un socialismo utopistico pre-marxista, ma un moderno socialismo liberale. Con il socialismo liberale si possono affrontare i problemi tipici del nostro tempo, cioè quelli di una società complessa e stratificata, immersa in una competizione globale. Non a caso venne da una personalità di questo filone culturale, come Paolo Sylos Labini, quel saggio sui ceti medi che operò una profonda revisione della sociologia tradizionale della sinistra.

    Oggi, superati dall'evoluzione del capitalismo i presupposti teorici del marxismo, caduta col muro di Berlino l'illusione di una lenta ma sicura trasformazione interna alle società del socialismo reale, si può o meno parlare di socialismo?

    La risposta di Rosselli (e la nostra oggi con lui) è che si può parlare di socialismo se si parla di socialismo liberale, cioè di un "socialismo" come "attuazione progressiva dell’idea di libertà e di uguaglianza tra gli uomini". È significativo, in questo senso, leggere oggi quanto scrive Tony Blair sulla sua Terza Via: "La Terza Via costituisce un importante momento di rivalutazione che trae vitalità dall’unione delle due grandi correnti di pensiero di centrosinistra il socialismo democratico e il liberalismo". Rosselli, dal canto suo, è un socialista per il quale le socializzazioni, le nazionalizzazioni, l'intervento pubblico nell'economia, non costituiscono un fine in sé e per sé, ma un mezzo per la realizzazione delle libertà, per assicurarne l'effettivo godimento a tutti.

    Il socialismo democratico e liberale ha vinto la sua battaglia contro il socialismo autoritario e totalitario. Questo è crollato mentre la democrazia e la libertà si sono diffuse ben aldilà delle loro tradizionali frontiere. Ma, dopo la caduta del muro di Berlino, il socialismo democratico e liberale ha di fronte a sé come concorrente il liberal-liberismo, cioè un liberalismo economico ideologizzato in termini di valori e di princìpi ideali e politici. L'attualità di Rosselli sta soprattutto nel fatto che il socialismo liberale intende accettare come terreno di confronto con il liberal-liberismo proprio quello delle libertà. In altri termini, la sfida di oggi si può sintetizzare così: chi riuscirà ad assicurare più libertà per tutti, il socialismo liberale o il liberal-liberismo?

    Lionel Jospin, ad esempio, così definisce quale dovrebbe essere l’Europa governata dai socialisti, rimanendo ancorata alla sua tradizione storica: "Per rimanere fedele a ciò che ne fa la forza e la vocazione l’Europa deve essere umana e sociale. Questa civiltà si basa su dei valori: la democrazia rappresentativa, la solidarietà sociale, lo spirito d’impresa, le pari opportunità in particolare tra uomini e donne - e la diversità delle identità culturali".

    Quello che distingue il socialismo liberale dal liberal-liberismo è innanzitutto un principio filosofico o, per meglio dire, etico-politico. Non dobbiamo mai dimenticarlo! Per il socialismo liberale, il socialismo che deve essere realizzazione progressiva dell'idea di libertà, l'uomo oggi si direbbe soprattutto la donna - può trovarsi in una condizione di reale libertà quando è libero dal bisogno, dalla disoccupazione, dalla disinformazione, da quello che in genere può essere definito un condizionamento di carattere materiale o educativo rispetto alla possibilità di esplicare la propria personalità. Come risultato di questa condizione di libertà le facoltà dell'uomo si esprimono pienamente e le società si assestano su livelli più elevati sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

    Facciamo parlare Rosselli: "Il socialismo non è né la socializzazione, né il proletariato al potere, e neppure la materiale eguaglianza. Il socialismo, certo nel suo aspetto essenziale, è l’attuazione progressiva dell’idea di libertà e di eguaglianza fra gli uomini: idea nuova, che giace più o meno sepolta dalle incrostazioni dei secoli, al fondo di ogni essere umano; sforzo progressivo di assicurare a tutti gli uomini una eguale possibilità di vivere la vita che sola è degna di questo nome, sottraendoli alla schiavitù della materia e dei materiali bisogni che oggi ancora dominano il maggior numero; possibilità di scegliere liberamente la loro personalità in una continua lotta di perfezionamento contro gli insulti primitivi e bestiali e contro le corruzioni di una civiltà tropo preda del demonio del successo e del denaro (Socialismo Liberale, cap. V: Il superamento del marxismo, Einaudi, 1973, p. 427).

    Per il liberal-liberismo, è dalla spinta all’affermazione personale che deriva il progresso della società, da una competizione rude e senza troppi sentimentalismi. Se poi questa spinta è necessitata dallo stesso morso del bisogno o, comunque, dalla mancanza di una tutela esaustiva delle condizioni sociali dell’uomo, il liberal-liberismo non si commuove troppo. L’importante è che la spinta all’affermazione individuale non venga fermata od ostacolata da troppi legami esterni. Il socialismo liberale, invece, intende coniugare la spinta all'affermazione individuale, alla qualificazione personale, all'iniziativa economica, con la morale della responsabilità collettiva, col senso di solidarietà sociale e di responsabilità individuale verso la società stessa.

    Tutto ciò potrebbe sembrare generico solidarismo. Ed infatti il socialismo liberale incontra sul piano dei valori quello cattolico. Ma lo distingue un elemento culturale, quindi laico. L’accento è posto sulla responsabilità dei comportamenti individuali non sulla morale imposta per legge. L'alternativa al liberal-liberismo non è un paternalismo solidaristico, è un'etica individuale della responsabilità collettiva.

    Si diceva degli elementi di attualità del socialismo liberale.

    Il primo elemento è quello etico. Il socialismo liberale è laico, ma eticamente orientato. Quello che viene a perdere in termini di scientificità e di determinismo rispetto al marxismo, il socialismo liberale lo viene a recuperare sul terreno etico, diremmo noi sul terreno dei valori. "Il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, che si attua nelle coscienze", dice Carlo Rosselli nel suo scritto I miei conti col marxismo. Il socialismo è socialismo dei valori, non mero democraticismo.

    Si manifesta qui il tema dei valori della politica, tema di drammatica attualità che, se non risolto, porterà con sé quello della crisi del partito politico. Un moderno partito del socialismo liberale non può essere confinato alla lottizzazione dei posti o all'organizzazione delle elezioni, lasciando ad altri il tema delle grandi elaborazioni programmatiche e il compito delle grandi battaglie politiche e sociali. Altrimenti il partito diviene oggetto, come oggi è, di un attacco a fondo che tende a negarne le buone ragioni di esistenza, magari da parte di quelli stessi che hanno richiesto di limitarne lo spazio a beneficio delle coalizioni o dei singoli esponenti politici.

    Nella società della videocrazia il partito o è una comunità capace di saldare l’etica politica individuale con quella collettiva, con i suoi diritti e i suoi doveri, o non è.

    Si può tornare a chiedere ai militanti che si iscrivono al partito una rinnovata tensione morale e ideale. Ma questa deve andare di pari passo con un’etica democratica dei dirigenti politici, dal loro sottoporsi a precise regole di coerenza e di trasparenza.

    L'attuale stato di fatto è del tutto inadeguato. Dove, come si decide democraticamente una linea ed un atteggiamento? Oggi è un po' misterioso. Se un tema è imbarazzante per il partito (vedi ad esempio la difesa della scuola pubblica) lo si deferisce alla coalizione. Se su un tema la coalizione non intende decidere (vedi quello della riforma della legge elettorale per il Parlamento europeo) lo si demanda ai partiti, sicuri che non verrà deciso. Coalizioni e partiti si compongono e si scompongono, forze politiche nuove nascono a ripetizione, deputati trasmigrano da un partito all'altro, l'elettore assiste perplesso. Non parliamo poi del militante di partito di fronte al quale passano temi di grande rilevanza, come quello se siamo un partito democratico o socialdemocratico o modernamente socialista liberale in senso europeo, senza che si prenda una decisione largamente dibattuta e vincolante. Una situazione del genere non è più accettabile.

    Parlare di Rosselli significa affrontare il problema dell’etica della politica e con essa il tema del partito, cui egli guardava come organizzazione aperta e federativa. Significa porsi il problema di un’organica riforma del finanziamento dei partiti, della democraticità delle decisioni, dei diritti di cittadinanza dei membri del partito stesso. Un tema ineludibile.

    Il secondo elemento di attualità del filone rosselliano è quello dell'autonomia e dell'importanza dell'aspetto istituzionale. La forma del contenitore istituzionale, elettorale e partitico, viene a condizionare il contenuto, cioè quel materiale in fusione che è rappresentato dalla volontà popolare. Il fatto che l’elemento istituzionale possa condizionare il conseguimento degli ideali di Giustizia e di Libertà, è una intuizione di grande significato e di assoluta validità del socialismo liberale. Piero Calamandrei, con i fratelli Rosselli nel fiorentino Circolo di Cultura del 1920-24, deputato nel 1946 alla Costituente, sarà presidenzialista e giustificherà in termini modernissimi il presidenzialismo del Partito d'Azione di allora.

    Oggi, per quanto attiene alla riforma delle istituzioni, i nodi sono la necessità di assicurare ai cittadini la scelta su chi li governerà, la realizzazione del federalismo, del decentramento, delle autonomie. Nelle istituzioni occorre dare una grande battaglia popolare. Non la possiamo lasciare ai referendari. La riappropriazione popolare delle decisioni attraverso riforme ampiamente e chiaramente democratiche appartiene a noi. È un grande movimento politico che dobbiamo sviluppare alla base del Paese per rilanciare le riforme in senso democratico, contro i conservatorismi che le hanno sempre frenate.

    Il terzo elemento di attualità del socialismo rosselliano sta nell'essersi posto il tema del rapporto pubblico/privato in un’economia di mercato.

    Lenin e quello che egli chiamava il rinnegato Kautski non erano così lontani nella considerazione ideale della società cui volevano arrivare alla fine di un percorso politico pur così diverso e così antagonistico.

    Rosselli e il suo movimento, Giustizia e Libertà, si pongono il problema di cosa voglia dire socialismo liberale nell'assetto dell'economia e lo risolvono - in modo avanzato per il socialismo dell’epoca - col tema dell'economia a due settori, il settore privato e il settore nazionalizzato e socializzato.

    Si tratta di un tema che verrà poi sviluppato da Ernesto Rossi e dagli amici del Mondo, nonché da Riccardo Lombardi in senso antimonopolistico. Se vi ha da essere un monopolio, questo ha da essere pubblico, proprio per garantire appunto una vera concorrenza e quindi una vera libertà.

    Oggi il problema si pone in termini diversi: il mercato senza regole e orientamento non raggiunge i suoi stessi fini.

    Si chiede cioè al pubblico di essere strumento regolatore, garanzia di funzionamento del libero mercato, presupposto normativo per agire nel mercato stesso. Ed è giusto. Ma veramente pensiamo che i poteri pubblici possano essere dei neutrali regolatori, senz’anima e senza sistema di valori? È proprio quando si afferma di essere neutrali, di non portare nel proprio agire valori o ideologie, che queste in realtà sono occultate ma ben presenti. Quando si parla di "buon" funzionamento del mercato ci si deve mettere dalla parte dei consumatori, dell’azionariato diffuso, della correttezza e non dell’avventurismo delle operazioni finanziarie di controllo aziendale, della tutela della vera, autentica imprenditorialità, della formazione consapevole di una nuova forza lavoro dotata degli strumenti conoscitivi per affrontare adeguatamente le nuove, più ardue sfide dell’occupazione. È questo, del resto, che ci chiede oggi di fare l’Europa.

    Siamo in una società caratterizzata dalla globalizzazione che non consente più di trovare nicchie nazionalistiche al riparo dalla competizione globale. Al tempo stesso però siamo in una società in cui, proprio per lo stesso processo di mondializzazione, la competizione non è più solo di imprese ma anche di sistemi, nazionali o regionali che essi siano, quindi di rapporti politici e sociali, di livelli di civiltà. Ma anche tale processo globalizzante presuppone nuovi impegni per i socialisti europei, a cominciare da quello dell’immigrazione e dei suoi diritti.

    Dice Felipe Gonzalez: "Se il socialismo democratico significa ancora qualcosa, ebbene questo qualcosa deve essere il desiderio di solidarietà con il vicino, con le zone più emarginate, con l’uomo che si trova oltre quella linea di divisione di civiltà e di cultura che è il Mediterraneo".

    Nella moderna società dell’informatica si propone il problema del socialismo nel senso riaffermato più volte, per esempio, da Tony Blair. Lo sviluppo spontaneo porterebbe a restringere a pochi il beneficio dell’impressionante sviluppo scientifico e tecnologico del nostro tempo. Il socialismo liberale questi benefici li vuole assicurare a tutti. Il neo-socialismo europeo di questi anni Novanta fa propria l’importanza del fattore umano come elemento significativo e caratterizzante, la sua educazione, la sua formazione, secondo una logica di uguaglianza di opportunità. Anche questa fu un'intuizione cui improntò la sua vita politica un liberal-socialista come Tristano Codignola.

    Ma si manifestano nuove tendenze. Prendiamo il caso dell’ambiente. È difficile trovare oggi chi non accetti almeno l’idea che la tutela dell’ambiente, addirittura a livello planetario, non implichi l’orientamento e il controllo di determinate produzioni e di determinate forme di vita e di organizzazione sociale. Quello che non viene più accettato in nome della programmazione o del controllo pubblico dell’economia, viene accettato in nome dell’ambiente e della tutela delle risorse naturali.

    Prendiamo il caso della fame nel mondo e dello stato di indigenza in cui versa buona parte della popolazione mondiale. Non possiamo pensare oggi che esso possa essere risolto con la mera applicazione delle teorie liberiste. Si tratta di affermare quello che si chiama una "global governance", un sistema articolato e flessibile nei rapporti politici, economici e sociali a livello internazionale.

    Prendiamo il problema dell’occupazione, specie di quella giovanile. Anche qui è difficile ritenere che esso possa essere risolto semplicemente con lo spontaneismo del mercato, mentre è necessaria una politica attiva ed orientata dei pubblici poteri, nel nostro caso a livello europeo. Come ci aveva indicato il Libro Bianco di Jacques Delors.

    Il socialismo liberale ci deve, in altre parole, sollecitare ad una più moderna ed adeguata teoria del rapporto pubblico/privato.

    Afferma Oskar Lafontaine: "In questo periodo di grandi cambiamenti occorre, infine, modernizzare il concetto di socialdemocrazia: né il protezionismo ormai obsoleto, né il ritorno alla nazionalizzazione rappresenta una soluzione. L’unica via in grado di offrire benessere e sicurezza al cittadino medio in un’economia globalizzata è la giustizia sociale attraverso la cooperazione internazionale".

    Il fallimento del comunismo non può portarci ad accettare acriticamente teorie liberiste ideologizzanti che la stessa realtà dei fatti respinge.

    Le ideologie hanno diviso. I valori possono unire. E quelli del socialismo liberale uniscono. Ha scritto Carlo Rosselli in "Per l’unificazione politica del proletariato", rivolgendosi a socialisti, comunisti, repubblicani: "Nessuna ragione di dissenso antica o recente, può essere tanto grave da giustificare l’eternarsi della divisione, nessun vantaggio derivante da una pretesa maggiore chiarezza e compattezza ideologica può superare l’immenso vantaggio derivante dall’unione delle forze e degli sforzi di tutti".

    E da questo convegno può essere gettato un ponte ma anche un appello - verso questa unità: il convegno su Rosselli ha anche questo valore. Di essere un'offerta di convergenza e di unità, con spirito di pluralismo e di apertura a tutti coloro che in questi valori si riconoscono. Una sorta di apertura di una "seconda fase" nella costruzione del nuovo Partito del Socialismo europeo in Italia, iniziata l’anno scorso a Firenze.

    Carlo Rosselli fu un eretico rispetto al socialismo italiano dei suoi tempi. Ma non lo fu rispetto al partito laburista britannico degli stessi anni, e con Socialismo Liberale intese aderire apertamente alla socialdemocrazia europea "che si muove - sono parole di Rosselli - verso una forma di rinnovato liberalismo, che riassorbe in sé i movimenti apparentemente opposti (illuminismo borghese e socialismo proletario)". Voglio dire che parlare di Rosselli e del suo socialismo eretico non significa non porsi il problema di una chiara identificazione e collocazione della sinistra italiana nel socialismo europeo. Tutt’altro. È vero che in questi anni, che hanno visto la loro quasi generale affermazione come forza di governo, i socialisti europei si sono mossi verso il centro, hanno sottolineato l'aspetto liberale della loro impostazione. E questa si è dimostrata la carta vincente. Ma lo hanno fatto non rinnegando, ma partendo dalla loro tradizione di rappresentanza del mondo del lavoro. Vi è una differenza fondamentale tra gli Stati Uniti d'America, dove si è affermato il partito democratico, e l'Europa, dove si è affermata la socialdemocrazia e il laburismo. Gli Stati Uniti hanno costituito una società del tutto nuova, creata dal basso e stratificatasi più su motivi etnici o di ondate migratorie che per una generale contrapposizione di classe. In Europa, invece, la stratificazione sociale e la lotta economica e politica del mondo del lavoro hanno rappresentato un patrimonio che nessun Partito Socialista di nessun paese europeo intende rinnegare. "Il socialismo - afferma Rosselli - deve essere l’alfiere della classe oppressa".

    Si tratta pertanto di riscoprire, con i valori di Rosselli, i valori del socialismo europeo.

    Di questi valori dobbiamo essere orgogliosi. Si dice - e giustamente - che l’Italia non ha finora avuto un partito socialista della forza quantitativa e qualitativa degli altri paesi europei. Ma vi è una domanda da porsi: in questi anni ci abbiamo veramente provato con chiarezza, senza ambiguità, dando le necessarie battaglie politiche, pagando i relativi prezzi, ma anche riscuotendo i frutti della coerenza? La risposta è no. Se oggi nel centrosinistra ci si sente in grado di riproporre una sfida contro i partiti è proprio per questo. Ad un Partito dei Democratici di sinistra è logico che qualcuno voglia contrapporvi i Democratici tout court che siano questi per l’Ulivo o per l’Europa. Ma se il nostro è Partito del Socialismo democratico e liberale Europeo, con la sua specificità e il suo chiaro riferimento interno, europeo ed internazionale, allora si potrà respingere la sfida, rinnovare la politica, sollevare un nuovo interesse dei cittadini.

    Dunque non ci sono scorciatoie. La strada di una società responsabile, fondata sulla giustizia e sulla libertà è l’unica praticabile. È la sfida del nostro tempo: conciliare i due grandi valori del socialismo liberale. "Carlo e Nello Rosselli - Giustizia e Libertà. Per questo morirono, per questo vivono", ha scritto Piero Calamandrei sulla lapide della loro tomba nel cimitero di Trespiano.

    Valdo Spini
    Ultima modifica di zulux; 06-03-10 alle 23:16
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

  8. #18
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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    ELZEVIRO Una nuova biografia

    Carlo Rosselli vero uomo d’azione

    di CORRADO STAJANO


    A proposito di Carlo Rosselli si sprecano le definizioni. Fu soprattutto un anomalo della politica, difficile da catalogare. Capì precocemente le contraddizioni del liberalismo, del socialismo, del marxismo. Denunziò l’insufficienza dei partiti, la loro angustia, la costante vocazione al compromesso. Tentò di dar vita a un movimento, «Giustizia e libertà», che avrebbe dovuto far da sintesi tra l’idea di libertà e i fondamenti della giustizia sociale. Il pensiero di Rosselli, raccolto in Socialismo liberale , non ebbe mai grande fortuna, con quel titolo che sembrava un ossimoro. Il socialismo, per lui, era la «filosofia della libertà». Voleva riportare il socialismo ai «suoi principi primi, alle sue origini storiche e psicologiche». Ha spiegato Bobbio nell’edizione einaudiana del 1979 che per Rosselli il marxismo era una vera e propria concezione del mondo, un sistema, non un metodo, al contrario del liberalismo, esso sì un metodo che si ispira a una concezione generale della storia. Il socialismo era un ideale e il liberalismo avrebbe potuto creare le condizioni necessarie per permettere ai movimenti ispirati al marxismo di far valere le loro ragioni, nel rispetto delle regole democratiche. Quell’ideale era raggiungibile soltanto con il metodo della libertà.
    Uno studioso italo-americano, Stanislao G. Pugliese, professore di storia alla Hofstra University (Hempstead, NY) ha scritto ora un biografia intellettuale, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista , pubblicata da Bollati Boringhieri (pagine 289, lire 90.000, euro 46,48) che si propone di mettere in luce soprattutto il pensiero politico rosselliano. Ma già a pagina 7 del suo saggio, Pugliese scrive: «Per molti versi è più opportuno considerare Rosselli un "moralista pubblico" anziché un teorico politico».
    Dalla lettura di un libro documentato come questo si capisce che Rosselli ha fatto assai più di quanto ha scritto. Non è un maestro del pensiero come Gramsci, Luigi Einaudi, Salvemini. È un uomo d’azione e la sua figura e le sue imprese seguitano a rimanere protagoniste. La fuga di Turati in Corsica organizzata nel 1926 da Rosselli e da Pertini; la fuga dal confino dell’isola di Lipari, con Emilio Lussu e Fausto Nitti, nel 1929; la guerra combattuta in Spagna nel 1936 contro i golpisti del generale Franco; il famoso discorso pronunciato alla Radio di Barcellona il 13 novembre 1936, «Oggi in Spagna domani in Italia», che probabilmente gli costò la vita; la morte, con il fratello Nello, il 9 giugno 1937, vicino a Bagnoles-de l’Orne, in Normandia, assassinato dai cagoulards francesi su mandato dei Servizi segreti militari italiani; tutti fatti conosciuti e divulgati, ma che non smettono di affascinare.
    L’icona che nei suoi secondi cinquant’anni del Novecento fa ricordare Carlo Rosselli è proprio la storia di un intellettuale che dopo dieci anni di carcere, confino, fughe, esilio, prende le armi e muore a 38 anni come un Cristo pugnalato su una strada di campagna lontano dalla patria. Per questo i suoi scritti sono stati sottovalutati: anche perché, il più delle volte, se si eccettua Socialismo liberale (Lipari, 1929, pubblicato a Parigi l’anno dopo), sono scritti giornalistici che servono sempre, più che a proporre un pensiero dottrinario, a spiegare la situazione politica, a comporre contrasti, a incitare alla lotta contro il fascismo. Per l’uomo d’azione fanno come da ponte tra un momento e l’altro di una vita inquieta.
    La bibliografia su Carlo Rosselli non è prolifica. Tra i libri più importanti la biografia di Aldo Garosci, storico e testimone, pubblicata nel 1945, il saggio di Nicola Tranfaglia (1968) che termina alla nascita di «Giustizia e libertà» e il libro, il più recente, di Giuseppe Fiori, Casa Rosselli. Vita di Carlo e Nello, Amelia, Marica e Maria , (Einaudi, 1999) che riesce a fondere vita privata e vita pubblica, politica e affetti.
    Dal «Non mollare» al «Quarto Stato» alla fondazione di «Giustizia e libertà», la lotta di Rosselli contro il fascismo fu intransigente. Una furia. Contro lo Stato burocratico-dittatoriale, contro la debolezza di carattere degli italiani. Il fascismo, per lui, non era soltanto una reazione di classe o l’autobiografia di una nazione, ma anche l’espressione di una crisi morale, umana, della civiltà.
    Il saggio di Pugliese, in modo contraddittorio rispetto alle intenzioni dell’autore, aiuta proprio a rimeditare sul personaggio. Sulla curiosità umana di Rosselli, sulla qualità intellettuale e sulla ricchezza di energie dei suoi maestri e dei suoi compagni. Oltre che sulla sua inadattabilità nei confronti della politica politicante, sul suo rigore e sui rapporti tesi con tutti i partiti e i leader democratici, Togliatti, Nenni.
    Carlo Rosselli amava dire di considerarsi un estromesso dall’Italia, non un fuoruscito. Un prigioniero altrove con l’impegno di riconquistare la libertà.

    Corriere della Sera
    11 ottobre 2001
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    Relazione di Federico Coen sul tema: " Socialismo e libertà nel revisionismo socialista degli anni settanta"

    1. Per comprendere il significato politico-culturale dell’operazione revisionistica condotta dalla rivista "Mondoperaio" del P.S.I. tra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta, è indispensabile accennare, sia pure sommariamente al contesto storico in cui quell’operazione prese corpo. Il Partito socialista era reduce da una lunga fase di transizione durata un quindicennio che si era articolata in due fasi: una prima fase, iniziatasi con il Congresso di Venezia all’indomani del XX Congresso del PCUS, e conclusa con l’assunzione di responsabilità di governo con la DC, fu caratterizzata dall’abbandono della politica frontista e dal recupero di autonomia dal P.C.I.; una seconda fase, sviluppatasi attraverso la partecipazione a una serie di governi di centro-sinistra, e conclusasi con la sconfitta elettorale del 1968 e con la rinnovata scissione della social-democrazia di Saragat, fu caratterizzata dal tentativo, in gran parte vano, di tradurre in azione di governo la scelta riformista che il partito aveva compiuto nella fase precedente.

    Il prezzo di questa duplice transizione fu per il Partito socialista molto elevato: il recupero di autonomia a sinistra fu pagato con la rovinosa scissione del PSIUP, che pregiudicava ulteriormente il radicamento sociale del partito già sottrattogli in larga misura dal Partito comunista nel dopoguerra e negli anni del frontismo; la rinnovata partecipazione al governo, in condizioni di oggettiva inferiorità nei confronti della DC e di rottura a sinistra, impediva di dare a questa partecipazione un costrutto programmatico innovativo e spingeva gran parte dei quadri dirigenti del partito a integrarsi, nei contenuti e nei metodi, al modo di governare del partito di maggioranza.

    Per farla breve, e scusandomi della sommarietà di questa ricostruzione, si può ben dire che all’inizio degli anni settanta il Partito socialista venne a trovarsi in una vera e propria crisi di identità, attraversato com’erta da pulsioni diverse ed opposte: il neo-massimalismo della sinistra di Lombardi, tendente a liquidare l’esperienza di governo con la DC in funzione di un’alternativa di sinistra di cui mancavano le condizioni sul versante stesso del PCI; il governativismo senza illusioni delle correnti di maggioranza preoccupate di impedire una svolta in senso autoritario della politica italiana; la tentazione, visibile soprattutto in De Martino, di assecondare la politica berlingueriana del compromesso storico, con la formula degli equilibri più avanzati.

    E’ in questa crisi di identità - che conduceva oltre tutto a una crescente estraneità del socialismo italiano rispetto ai partiti socialisti europei - che si inserì l’operazione revisionista incentrata soprattutto (ma non solo) sulla rivista "Mondoperaio", ad opera principalmente (ma non solo) del c.d. gruppo giolittiano che si era formato intorno ad Antonio Giolitti nel corso dell’esperienza della programmazione economica. Operazione che andrà sviluppandosi attraverso una verifica rigorosa delle premesse ideologiche e culturali della scelta riformista, attraverso una rivisitazione altrettanto rigorosa del legame tra democrazia e socialismo che era alla base di quella scelta, e anche attraverso la formulazione di una serie di indicazioni programmatiche che, a partire da quelle premesse, miravano a indirizzare la politica italiana verso l’approdo di una governabilità fondata sulla democrazia dell’alternanza come naturale terreno di azione del socialismo riformista, in Italia come in Europa.

    2. Dovendo necessariamente schematizzare, i momenti salienti di quella operazione politico-culturale si possono così indicare:

    in primo luogo, i conti con il marxismo, in cui il ruolo principale fu svolto , com’è noto, da Norberto Bobbio con i suoi celebri saggi attraverso i quali veniva a innestarsi fruttuosamente nel socialismo italiano quella tradizione liberal-socialista risalente a Carlo Rosselli e ad altri esponenti antifascisti che nel corso della Resistenza si era incarnata nel Partito d’Azione. La strenua battaglia condotta da Bobbio per il primato dello stato di diritto e per la democrazia rappresentativa , in polemica non solo con il determinismo marxista ma anche con i cultori della democrazia diretta e con le tendenze anarcoidi ancora vive nella sinistra anche socialista, aveva un’importanza essenziale sul piano ideologico prima ancora che su quello della politica istituzionale perchè faceva giustizia di una concezione millenaristica (palingenetica) del socialismo come società perfetta,destinata a fare a meno dello stato, e rivalutava all’opposto l’idea del socialismo come frontiera mobile, in cui la battaglia per la giustizia sociale va condotta nel confronto permanente con le forze conservatrici, nel quadro di quella che fu chiamata allora la democrazia dell’alternanza.
    In secondo luogo, i conti con il c.d. socialismo reale, che furono condotti da una parte attraverso l’analisi impietosa del carattere strutturalmente anti-socialista del regime sovietico e di quelli dei paesi satelliti, e dall’altra attraverso la pratica della solidarietà attiva con la cultura dissidente del mondo comunista i cui esponenti più qualificati trovarono sulle colonne della rivista occasioni di espressione sempre più frequente e significativa. Per questa parte, Mondoperaio ha trovato poi un seguito nella rivista Lettera Internazionale che fu fondata insieme ad alcuni dei socialisti dissidenti della Primavera di Praga e che conta ormai nove edizioni in tutta Europa. Parallelamente, Mondoperaio ,sviluppava rapporti sempre più stretti con gli esponenti del socialismo occidentale e con Willy Brandt e gli altri leader dell’Internazionale socialista.


    Su un altro piano si collocavano i conti con il conservatorismo costituzionale, con cui mettevamo decisamente in luce i limiti della Costituzione del l948 sul terreno della governabilità e su quello dell’articolazione territoriale del potere pubblico, prefigurando - soprattutto con una serie di importanti saggi di Giuliano Amato - gran parte degli indirizzi di riforma dello stato che sono stati al centro dei lavori della Bicamerale e che sono tuttora all’ordine del giorno della politica italiana. La formula allora adottata fu quella della "democrazia governante", come corollario della"democrazia dell’alternanza".

    In quarto luogo, merita di essere ricordata la battaglia che alcuni di noi si impegnarono a sviluppare su Mondoperaio per fare i conti con l’abnorme diffusione in Italia della corruzione politica, dovuta in via generale alla prassi clientelare messa in atto soprattutto dalla DC, e che, nei suoi aspetti inerenti al Partito socialista, era alimentata dalla sproporzione macroscopica tra la vasta area del potere acquisita soprattutto nell’era craxiana e la debolezza del radicamento sociale ed elettorale del partito.

    Minore sviluppo ebbe invece - e lo dico autocriticamente - la presa di distanza dal vizio statalista che portava, se non a demonizzare certo a sottovalutare il ruolo dell’economia di mercato , statalismo che ancora negli anni della programmazione era largamente presente in tutta la sinistra, e non solo. Ma l’apertura verso la politica dei redditi - ancora osteggiata in quegli anni da tante parte della sinistra e del movimento sindacale - rientrava ampiamente nelle posizioni e nei dibattiti della rivista.
    3. Lo spirito innovativo e modernizzante che improntava in quegli anni gran parte dell’intellighenzia socialista suscitò forti resistenze nell’area della sinistra.

    Nel PCI erano gli anni del compromesso storico che tanto sul piano ideologico quanto su quello politico erano apertamente in contrasto con la nostra linea di condotta: sul piano ideologico per i risvolti organicistici del compromesso storico (la celebre formula della "ricomposizione unitaria" della società italiana, risalente a Franco Rodano, ma condivisa da Berlinguer e da Ingrao) sul piano politico non solo per la opposta valutazione della realtà dell’impero sovietico e del ruolo svolto dall’URSS nella politica internazionale ma anche per il rifiuto di rimettere in discussione la Costituzione del 1948. Da parte nostra, ci impegnammo a incalzare il PCI anche nell’affermata originalità della sua via nazionale al socialismo (Gramsci e Togliatti) e poi della c.d. terza via tra socialdemocrazia e comunismo. Ma sempre, almeno nel periodo qui considerato, coincidente con la mia responsabilità di direttore, le campagne di Mondoperaio furono costantemente condotte con spirito unitario, senza alcuna demonizzazione. Su tutti i temi importanti da noi trattati in quegli anni le colonne della rivista furono costantemente aperte al confronto con i compagni del PCI.

    Con l’area socialista e con il PSI passato sotto la leadership di Craxi i rapporti furono, per alcuni anni, molto positivi. Il c.d. revisionismo socialista procedeva non solo sulle colonne di Mondoperaio ma anche su quelle dell’Avanti!, diretto allora per un lungo periodo da Gaetano Arfè, su Critica Sociale, e nel Centro Studi del partito, diretto allora da Luigi Covatta. Furono anni di intesa tra l’intellighenzia socialista e il partito ufficiale, un’intesa che ebbe i suoi momenti alti almeno in due occasioni: nel Progetto socialista del 1978, che nella sua parte programmatica (il Piano del lavoro e il Piano della democrazia) ebbe tra i suoi autori Ruffolo e Amato, e nella grande Conferenza programmatica di Rimini del 1982, dove tra l’altro fu avanzato da Claudio Martelli il moto progetto della coniugazione dei meriti e dei bisogni, che riprendeva la formula dell’eguaglianza delle opportunità che era stata della Società fabiana e del Labour Party, proponrndo una riforma del welfare di stampo europeo.

    Ma l’intesa era destinata a incrinarsi quanto più andava avanti, soprattutto con la Presidenza del Consiglio di Craxi, l’identificazione del partito con il potere a tutti i livelli, con le conseguenze di ordine sociale e di ordine morale già ricordate, e con l’abbandono di fatto deiprogrammi di riforme ai quali con tanto fervore si era lavorato negli anni precedenti.

    4. Per concludere, che cosa rimane oggi delle battaglie di allora, quali insegnamenti se ne possono trarre, in un contesto storico-politico per tanti aspetti radicalmente mutato?

    Alcune delle tesi sostenute allora dal c.d. revisionismo socialista sono ormai divenute pane quotidiano nella sinistra: il ripudio del c.d. socialismo reale di matrice leninista, l’accettazione della democrazia dell’alternanza, con tutto il background che questo comporta nella concezione stessa del socialismo, l’accettazione dell’economia di mercato, la scelta dell’alleanza occidentale, e almeno per quanto riguarda il maggior partito della sinistra, l’adesione all’Internazionale socialista (anche se non ancora evidenziata nel nome del partito).

    Ciò nonostante la sinistra italiana è ancora ben lontana dal cogliere i frutti di questo revisionismo riformista ormai vincente sulla carta. Il revisionismo del PCI è giunto a maturazione con dieci anni di ritardo, mentre il patrimonio revisionista del PSI è stato dilapidato da una prassi politica inadeguata e contraddittoria. Anche in Italia la sinistra riformista è al governo, ma la sua forzapolitica ed elettorale è ben distante da quella degli altri partiti socialisti europei. E questa anomalia si riflette sul sistema politico italiano nel suo complesso, dove imperversa il pluripartitismo più esasperato e dove sono comparsi soggetti politici anomali e potenzialmente eversivi, sia a destra che al centro e a sinistra. . Il fatto è che nell’area della sinistra si presentano ancora oggi, come già nel vecchio PSI, le tentazioni ricorrenti delle fughe all’indietro e delle fughe in avanti. Le fughe all’indietro del massimalismo e del fondamentalismo, le fughe in avanti dei neofiti del liberismo, che confondono l’accettazione dell’economia di mercato con la rinuncia a governare il mercato. E anche la fuga in avanti di chi confonde la cultura di governo con l’identificazione del partito con il potere a tutti i livelli, con la conseguenza di smarrire il legame del partito riformista con la società e con i movimenti spontanei che nella società si esprimono.

    Ma c’è oggi una fuga più pericolosa di tutte, che si può definire la fuga verso il nulla, e che consiste nello snobbare il socialismo riformista in nome di improbabili traguardi più avanzati che si traducono in formule propagandistiche dietro le quali c’è il vuoto. La retorica dell’Ulivo, inteso come soggetto politico autosufficiente anzichè come alleanza di governo, appartiene a questo tipo di fuga . Accade allora che l’anomalia italiana rispetto all’Europa migliore , anzichè come un ostacolo da superare, venga scambiata per una virtù, per un improbabile articolo da esportazione. Sono illusioni che si pagano care, che rendono più difficile la transizione che da più di vent’anni noi riformisti cerchiamo faticosamente di portare a compimento.

    "Socialismo e libertà"
    Ricordando Carlo Rosselli

    Roma, 27 febbraio 1998
    Residence Ripetta
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

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    Predefinito Rif: Carlo Rosselli, il padre del socialismo liberale

    L'utopia concreta di Carlo Rosselli

    di Giorgio Spini

    Siamo nel pieno di un'ondata di libri, saggi, convegni su Rosselli e il socialismo liberale. Norberto Bobbio ha pubblicato una nuova edizione di Socialismo liberale (Einaudi 1997) aggiungendovi altri suoi scritti fra cui uno intitolato proprio Attualità del socialismo liberale; Giorgio Napolitano, Valdo Spini e Walter Veltroni sono stati protagonisti di un dibattito Socialismo e libertà, ricordando Carlo Rosselli, a Roma, nel febbraio scorso; Mastellone ha stampato un lavoro su Carlo Rosselli e "la rivoluzione liberale del socialismo" (Firenze, Olschki, 1999); Arianne Landuyt è intervenuta in più dibattiti su Rosselli e nel marzo scorso è stata l'anima di un convegno a Siena su Il modello laburista nell'Italia del '900; Zeffiro Ciuffoletti ha edito l'Epistolario familiare dei Rosselli (Mondadori 1997). Interventi nel dibattito su Rosselli si sono avuti da parte di alte personalità degli studi storici e politico-filosofici da Salvatore Maffettone, Vittorio Foa, Pietro Graglia a Nicola Tranfaglia o Santi Fedele. A Barcellona v'è stato un convegno su Carlo Rosselli e la Catalogna antifascista. Negli Stati Uniti, la prestigiosa "Princeton University Press" ha pubblicato Socialismo liberale in traduzione inglese con un ampio saggio di Nadia Urbinati, Another Socialism. E ci scusiamo se per esigenze di spazio non diamo qui un elenco completo di coloro che di Rosselli si sono occupati negli ultimi tempi. Dunque, sull'attualità di Rosselli non c'è dubbio possibile. E non c'è dubbio neanche sul rapporto tra questa fortuna del socialismo liberale di Rosselli e il crollo inglorioso del socialismo illiberale comunista. Va preso atto inoltre che, una volta spazzate via le dittature fasciste dalla storia e cessata la guerra fredda, non c'è stato più alcun paese di Europa, salvo la solitaria eccezione della Spagna, in cui non siano ascese al governo forze in qualche modo riconducibili al binomio rosselliano "Giustizia e Libertà". E anche l'eccezione Aznar in Spagna quanto durerà? Ma forse il discorso sull'attualità di Rosselli e della sua critica al determinismo marxista riguarda non solo e non tanto i comunisti, quanto gli esponenti del socialismo tradizionale, come Turati e Treves. Con i comunisti Rosselli ha discusso relativamente poco per l'ottima ragione che i comunisti, a cominciare dal Migliore di loro, Togliatti, di Rosselli cercavano di sbarazzarsi con gli insulti e le diffamazioni, anziché impiantare con lui un dibattito teorico. La sua critica era rivolta in gran parte a chi il determinismo marxista accettava, ritenendolo scientificamente fondato, pure auspicando il ritorno di un regime di libertà dopo la caduta della dittatura fascista. Oggi i fascismi e i comunismi sono crollati, l'Occidente liberale ha riportato una vittoria a scala planetaria. Ma appunto a scala planetaria si è aperto un nuovo conflitto sull'interpretazione da darsi a tale vittoria. Da una parte v'è quello che più di uno ha definito "liberismo selvaggio", ed è l'indirizzo che ieri trionfava in Inghilterra col governo Thatcher ed ancora adesso è sostenuto negli Stati Uniti dai repubblicani. Dall'altra sono le istanze di un socialismo democratico come quello affermatosi in quasi tutti i paesi europei, e anche fuori d'Europa, per esempio in Israele. In mezzo stanno i democratici americani e il loro presidente Clinton, stretti fra proposte riformiste e timori elettorali. Sulla natura stessa di questo conflitto è aperto il dibattito. C'è chi pensa che la partita sia tra liberismo e statalismo, stato o mercato. C'è chi sostiene invece che la partita è tra chi vuole il massimo affrancamento del maggior numero possibile dalle catene dell'ignoranza, dalla miseria, dalla sofferenza fisica e chi si rassegna all'inevitabile predominio di oligarchie di potenti e di astuti, se non di cosche mafiose addirittura (anche la mafia a modo suo è un'esaltazione del privato rispetto allo Stato...). Questi ultimi di norma fanno appello a ferree leggi economiche e sono rassegnati a soggiacere a Entità Superumane che oggi si chiamano Competizione e Mercato, come ieri si chiamavano Dialettica Materialista della storia o Plusvalore. Per altri invece la volontà e l'intelligenza umana restano comunque i protagonisti della storia e l'instaurazione di rapporti sempre meno selvaggi e crudeli fra gli uomini resta sempre un obiettivo proponibile. Nella misura in cui costoro esistono nell'attuale, è attuale quella che Rosselli medesimo chiamava la sua "impostazione volontarista e moralista" dei problemi politici e sociali. I termini della realtà contingente sono cambiati, ma quelli di fondo della lotta per la libertà sono ancora quelli additati da Rosselli "La libertà comincia con l'educazione dell'uomo e si conclude col trionfo di uno Stato di liberi, in parità di diritti e doveri".
    Liberalismo e socialismo, considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati

 

 
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