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    Prima parrocchia a Roma per la “forma straordinaria” della liturgia

    Affidata alla Fraternità sacerdotale San Pietro

    di Elizabeth Lev


    ROMA, venerdì, 16 maggio 2008 (ZENIT.org).- La Diocesi di Roma ha eretto nei giorni scorsi la prima “parrocchia personale” della città per i fedeli che seguono la “forma straordinaria” della liturgia del Rito Romano.

    Si tratta della chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, affidata alla Fraternità sacerdotale San Pietro, che ha gioito per la notiza dato che le strutture della chiesa di San Gregorio dei Muratori erano troppo piccole per accogliere la grande folla che si riuniva per gli eventi liturgici.

    Sulla scia della Lettera Apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum”, il Cardinale Camillo Ruini, Vicario del Papa per la diocesi di Roma, ha proposto l'assegnazione della Santissima Trinità dei Pellegrini alla Fraternità.

    La domenica di Pasqua, il Papa ha decretato l'erezione della parrocchia per garantire un'adeguata assistenza pastorale alla comunità dei fedeli tradizionali che risiede nella stessa Diocesi.

    Per la Fraternità è una vera e propria pietra miliare: non solo è il 10° apostolato eretto come piena parrocchia personale, ma anche il primo ad essere istituito in Europa.

    Padre Joseph Kramer, nominato primo pastore della Santissima Trinità dei Pellegrini e rettore della chiesa, ha spiegato a ZENIT che l'apostolato della Fraternità è iniziato a Roma nel 1988 sotto gli auspici della Commissione Ecclesia Dei con approvazione papale.

    Oggi nelle Diocesi di tutto il mondo operano circa 200 sacerdoti della Fraternità, che servono i fedeli legati alla Messa e ai sacramenti del rito romano tradizionale.

    Parlando di cosa significhi la nuova parrocchia per la Fraternità, padre Kramer ha riconosciuto in primo luogo “il grande segno di fiducia da parte della Diocesi” e la “notevole responsabilità” del compito, visto che “Roma è sempre stata un esempio per il resto della Chiesa”.

    Il sacerdote ha anche espresso il desiderio che “la parrocchia di Roma sia un buon esempio non solo di servizio pastorale, ma anche della bellezza e della solennità della forma straordinaria della Messa per i molti pellegrini che giungono” in città.

    La Santissima Trinità dei Pellegrini è stata la sede dell'Arciconfraternita dei Pellegrini e dei Convalescenti, un'istituzione caritativa fondata da San Filippo Neri per assistere i poveri e gli ammalati, soprattutto i pellegrini.

    La nomina di padre Kramer lo ha reso anche cappellano dell'Arciconfraternita. “San Filippo – ha osservato – sembra essere stato il primo a dare inizio alla Devozione delle Quarant'Ore qui a Roma e noi porteremo sicuramente avanti questa tradizione nella chiesa”.

    “Siamo anche interessati alla carità pratica nei confronti dei convalescenti nelle loro case”, ha aggiunto. “Come San Filippo, che assisteva quanti erano stati mandati via dagli ospedali sovraffollati nel XVI secolo, faremo visita e ci occuperemo di quanti sono malati e costretti in casa”.

    Il rettore della chiesa ha rivelato che tra i progetti previsti c'è anche quello di predisporre un centro per accogliere i molti studenti pellegrini a Roma. “Ci sono nuovi programmi universitari sempre aperti in città e vorremmo diventare un punto di riferimento spirituale per quanti vengono qui non solo per studiare, ma anche per approfondire la propria fede”.

    La chiesa della Trinità è stata costruita nel 1597 sulla scia della Riforma liturgica tridentina, e padre Kramer ha sottolineato i numerosi elementi che la rendono ideale per la Fraternità.

    “La visibilità dell'altare e il tabernacolo elevato, grande e ben illuminato con la grande balaustra d'altare seguono le linee delle grandi costruzioni della chiesa post-tridentina, come il Gesù e la Chiesa Nuova”, ha affermato.

    “Ci sono otto cappelle laterali, ma non navate laterali e tutto si concentra sull'altare principale”.

    La chiesa contiene anche numerose opere artistiche, come la Vergine e i Santi di Cavalier d'Arpino, ex datore di lavoro di Caravaggio, e San Gregorio il Grande che Libera le Anime del Purgatorio di Baldassarre Croce.

    La pala d'altare è un capolavoro dipinto da Guido Reni al culmine della sua carriera. Reni riprodusse la Santissima Trinità per l'Anno Giubilare del 1625, quando migliaia di pellegrini avrebbero visitato la chiesa.

    L'apertura ufficiale della parrocchia avverrà l'8 giugno.

    Il Cardinale Darío Castrillón Hoyos, Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha definito l'erezione della parrocchia “un importante atto che applica a Roma il recente motu proprio 'Summorum Pontificum' di Benedetto XVI”.

    “È un atto disposto dal Papa per la diocesi di Roma che ha un valore in sé, nel progressivo percorso in atto dell'applicazione del motu proprio sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970”, ha spiegato.

    Alla nuova parrocchia, si legge nel decreto del Cardinale Ruini, sono riconosciuti gli stessi diritti di cui godono le altre della città. Per l'amministrazione e il sostentamento del parroco saranno osservate norme promulgate dalla Conferenza Episcopale Italiana e dal Vicariato di Roma.

    Fonte: Zenit, 16.5.2008

  3. #263
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    Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus
    Domenico Savino
    26 maggio 2008

    Auspichiamo che Dio doni al Papa la forza di impugnare la scure… da usarsi non tanto nei confronti del relativismo del Mondo (questo va da sé), ma nei confronti di cardinali, vescovi, preti e teologi; e dei giornali, soprattutto di quelli cattolici.
    Ma Ratzinger è un mite, sa di avere anche lui qualche colpa sulla coscienza e non farà male a una mosca; cercherà di persuadere, di spiegare, di far riflettere.
    A nostro giudizio sbaglia.
    Qui non c’è di mezzo la coscienza, ma qualcosa che ai suoi interlocutori preme molto di piùe cioè le poltrone, quelle di vescovo anzitutto.
    Oltrechè - si intende – quella futura di Papa.
    Andiamo con ordine.

    Da quando è uscito il Motu proprio che «liberalizza» la celebrazione della Messa con il Vetus Ordo la strategia elaborata dagli ambienti progressisti e da una vasta fetta dell’episcopato woityliano, fino ad allora solo abbozzata, è divenuta operativa (sia chiaro se faranno Woityla santo a furor di popolo, io, il «Santo subito», lo chiamerò «Santo subìto»).
    Come scrivevo nel dicembre 2005, già appariva «evidente l’indocilità con cui la nomina di Ratzinger è stata accolta in certi ambienti ecclesiali e non, storditi e incapaci di rassegnarsi al fatto che certi disegni siano andati in fumo e increduli di fronte all’evidenza schiacciante che nella Cappella Sistina abbia aleggiato lo Spirito Santo e non già lo ‘spirito del Concilio’.
    Tuttavia questo spirito di ribellione, povero di seguito popolare, ma ricco di élites, di media, di appoggi importanti, già organizza la ‘resistenza’ nelle vaste enclavi criptoprotestanti di un cattolicesimo esangue o all’ombra di ambigui chiostri o comunità, nella ‘rete’, su giornali e riviste o lungo la via Emilia (che da Milano, a Piacenza, a Reggio Emilia conduce a Bologna), covato talvolta da Curie amiche, agitando una protesta sottile e strisciante, chiedendo salvaguardia di spazi o ipocritamente guaendo misericordia, salvo malignamente insinuare di colpi di mano, di manovre curiali o sommessamente commentare che in fondo questo Papa è già vecchio, che si tratta solo di attendere…
    » (1).

    Le scaramucce dei primi due anni di pontificato, l’algida obbedienza con cui il ministero papale è stato accolto, un malcelato compiacimento per tutte le volte in cui il Pontefice è sembrato agli occhi degli stolti che inciampasse nel suo «integralismo» (come nell’episodio di Ratisbona), rendevano palese lo scatenarsi all’interno del corpo ecclesiale di tensioni che prima o poi sarebbero dovute diventare manifeste.
    Quell’occasione è stata il Motu proprio.
    Doveva ancora entrare in vigore, che il 29 luglio non a caso su Il sole 24 ore, giornale di Confidustria e dei «poteri forti», «l’anti-papa di Gerusalemme» Carlo Maria Martini rilasciava un’intervista nella quale dettava la linea: in primo luogo annunciava di non voler usare il messale antico, «perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima […] In secondo luogo - sottolinea il cardinale - non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla San Paolo ad esempio in Galati 5,1-17. Al contrario, sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperto porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più vivibile» […]
    Da ultimo «pur ammirando l’immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove - conclude il cardinale - ho visto come vescovo l’importanza di comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l’Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni nè suscitare ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli. Ricavo come valido contributo del ‘Motu proprio’ la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo fra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».

    Basterebbero queste parole, sottili quanto avvelenate, a illuminare circa l’idea eversiva del Concilio Vaticano II presente in certi contesti e, corrispondentemente, a far capire il disprezzo profondo per tutto ciò che è Tradizione, cui si allude come una sorta di luogo chiuso in cui mancava ogni respiro di libertà e di responsabilità.
    Basterebbe questo a far capire la malafede e la scaltrezza volpina di chi usa della volontà del Papa di riconciliarsi con la Tradizione, per chiedere simmetricamente un’apertura ancora più ampia verso la sovversione sincretista, nascosta sotto l’astuta formula di «dialogo fra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero».
    Poi Martini s’è ritirato nell’ombra e i suoi «agenti» si sono messi all’opera.

    Ai primi di settembre a Milano, il vescovo e cardinale Tettamanzi eseguiva per primo e l’arciprete del Duomo di Milano Luigi Manganini, intimava ai decani della diocesi che il Motu proprio di Benedetto XVI sulla liberalizzazione del messale antico non venisse applicato nei territori dove vige la liturgia ambrosiana.
    La decisione veniva giustificata affermando che nel documento papale si menziona soltanto il «rito romano» e soprattutto perché «nelle nostre zone non ci sono state contestazioni o particolari richieste da parte dei tradizionalisti».
    Il 13 dicembre venivano depositate in curia circa 500 firme, con cui si chiedeva al cardinale Tettamanzi, arcivescovo di Milano, l’estensione del Motu proprio sulla Messa «vetus ordo» alla Diocesi ambrosiana.
    Risultati, per ora, zero.
    Sempre ai primi di settembre i responsabili della Settimana liturgico-pastorale della Comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia di Santa Giustina di Padova e l’Associazione Professori e Cultori di Liturgia (APL) pubblicavano un documento dal titolo «Avvio di una riflessione sul Motu Proprio ‘Summorum Pontificum’ di Benedetto XVI».
    Il documento non analizza il Motu Proprio, lo sterilizza.

    Infatti per questa «casta» vi è una prima e sola preoccupazione: «la Riforma liturgica non è e non deve essere ‘messa in dubbio’».
    Inoltre la richiesta non deve creare divisione (quella che hanno creato loro è irrilevante),
    la partecipazione attiva deve essere salvaguardata (cosa ciò significhi non è spiegato).
    Relativamente ai «soggetti che richiedono il rito extraordinario», l’esistenza della necessità di un «gruppo stabile», richiesta dal Motu proprio, andrebbe intesa così: «Si esclude un gruppo pur numeroso, ma occasionale (ad esempio un elenco di firme non costituisce di per sé un ‘gruppo stabile’ e ‘motivato’); si esclude una richiesta pur stabile, ma di un singolo; si esclude un gruppo di persone, pur cospicuo e stabile, i cui membri non siano appartenenti alla medesima parrocchia al cui parroco viene rivolta la domanda; si esclude anche una richiesta dell’‘uso extraordinario’ dovuta non ad una ‘aderenza strutturale’ alla precedente tradizione, ma ad un caso o ad una circostanza particolari».
    Insomma si esclude a tal punto che il gruppo diviene stabile a una sola condizione: che non esista.
    Ma non basta.

    Chi vuole celebrare col Vetus ordo dovrebbe possedere una adeguata «formazione liturgica», cioè «una buona conoscenza e una provata confidenza con un rito che non appartiene più al cammino di formazione ecclesiale di laici e ministri ordinati. Pertanto una tale formazione non può essere data per scontata. Questa esigenza è rilevante perché l’atto liturgico non rimanga un segno puramente esteriore».
    Quanto alla lingua latina, essi ritengono che «la richiesta di celebrazione in forma ‘extraordinaria’ presuppone la capacità dei membri del gruppo stabile richiedente di entrare adeguatamente nella comunicazione verbale latina che struttura il testo rituale. La presenza di questo requisito è importante per non cadere nel pericolo di un formalismo liturgico privo di interiore maturazione, con conseguenze negative sulla qualità della pastorale parrocchiale e della spiritualità individuale. Sul piano della efficacia pastorale, queste condizioni (oggettive e soggettive) richiedono di essere tutte contemporaneamente presenti».

    Insomma, per andare a Messa, casomai riusciste ad aggregarvi stabilmente ad un non-esistente «gruppo stabile» occorre aver frequentato il Triennio Teologico Pastorale (magari tenuto da loro) e se per caso, nonostante ciò, siete riusciti a conservare la Fede, dovreste concludere l’anno accademico superando brillantemente un esame di latino.
    Chissà come hanno fatto ad andare a Messa per dei secoli milioni di contadini che parlavano solo il dialetto!
    Per fortuna mio bisnonno Silvio, che contadino era, è morto.
    Per fortuna loro s’intende… perché come sapevano usare i forconi i contadini, nessuno!
    Ma non è finita!
    Quali potrebbero essere i «ministri che presiedono il rito preconciliare» si domandano questi «Soloni della Liturgia»?
    Già, chi celebra?

    Non i preti «che hanno ricevuto la loro formazione e hanno vissuto una esperienza celebrativa a partire dalla riforma liturgica. Costoro dovrebbero perciò celebrare in un rito che non solo non conoscono, ma che non fa parte dell’ordinario panorama ecclesiale, pastorale e spirituale in cui sono nati e nel quale sono cresciuti. A questo divario generazionale si potrà rimediare soltanto in tempi molto lunghi e non certo mediante ausili editoriali o ‘audio-video’, che necessariamente darebbero luogo a un ‘addestramento’ superficiale e improvvisato rispetto alla serietà del Mistero celebrato. […] Un principio sapienziale e prudenziale richiede che nessuno debba celebrare in un rito (o secondo un uso) che non conosce per esperienza diretta, per formazione sedimentata e al quale non sente di poter ‘aderire’».
    Dunque nessun prete giovane potrebbe per costoro celebrare col rito antico, ma solo sacerdoti rigorosamente ultrasettantenni, possibilmente di salute cagionevole e che si estinguano nel giro massimo di un lustro.
    Ma soprattutto se proprio desidera farlo, il prete reazionario lo faccia da solo, di nascosto, quasi fosse un atto impuro, perché - continua il documento - «un sostanziale aggiramento della logica pastorale e liturgica del documento potrebbe verificarsi nel caso si operasse una interpretazione estesa dell’articolo 4, che prevede la possibilità per ogni fedele che lo desideri di assistere alla ‘Messa senza il popolo’ celebrata privatamente da un ministro secondo il rito preconciliare».
    Il popolo a questo rito non deve assistere, perché gli fa male.
    Capito?

    In realtà se la fanno sotto, perché sono consapevoli che se si cominciasse a celebrare di nuovo stabilmente e diffusamente col Rito antico i loro palcoscenici (perché così hanno ridotto il Presbiterio!) avrebbero una platea vuota e il mito del Vaticano II si scioglierebbe come la cera delle candele sotto l’azione del fuoco.
    Lo ammettono, ma sempre con quel linguaggio sottile di chi detiene il monopolio delle «nuove verità».
    Scrivono infatti: «L’inopportuna estensione della applicazione di tale articolo renderebbe di fatto vana la serie di condizioni necessarie alla celebrazione ‘con il popolo’ secondo il rito preconciliare. In realtà, anche in questo caso, il criterio dovrebbe essere quello della ‘partecipazione attiva’. La presenza di fedeli come ‘estranei o muti spettatori’ creerebbe una discontinuità con il dettato del concilio Vaticano II, che in Sacrosanctum Concilium 48, afferma: ‘la Chiesa volge attente premure affinché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede’».
    La contemplazione del Mistero per costoro non basta: ci vogliono le loro vuote parole.

    Naturalmente anche la conclusione è una summa diabolica di comiche acrobazie espressive: «Una forma rituale, anche se a precise condizioni viene dichiarata ‘non proibita’, va considerata ‘extra-ordinem’, in quanto non viene necessariamente ritenuta per principio né consigliabile né raccomandabile. […] La presenza di una ‘forma extraordinaria’ può essere compresa senza conflitto e in una logica di autentica riconciliazione soltanto nella misura in cui essa rimane strettamente limitata a condizioni oggettive e soggettive ‘non ordinarie’. Solo un accurato discernimento di queste condizioni potrà permettere al cammino liturgico delle comunità ecclesiali di trarre profitto pastorale e spirituale da questo passaggio disciplinare, recuperando l’uso della partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio al mistero celebrato, e così purificando - grazie a questo nuovo uso - le proprie celebrazioni da ogni possibile abuso».

    In sintesi ecco cosa pensano i Camaldolesi e i professori di liturgia: la Messa col rito antico fa male al popolo, che non dovrebbe assistervi perché essa insegna cose contrarie al Vaticano II; nel caso vi sia questa ostinazione essa potrebbe essere celebrata da un sacerdoto anziano, da solo, in camera sua, dopo aver superato un corso di aggiornamento liturgico, rifatto l’esame di latino, quello del sangue e delle urine, a condizione che queste certifichino che egli ha già un piede nella fossa e che anche il colorito non lasci presagire niente di buono.
    Come insegna il santo Vangelo. «Ti benedico, o Padre, [...] perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo. 11, 25).
    Amen

    Domenico Savino

    (Continua)


    --------------------------------------------------------------------------------

    1) Confronta http://www.effedieffe.com/rx.php?id=...&chiave=savino
    «La guerra del Conclave», Domenico Savino, 30/12/2005.
    2) Confronta http://www.apl-italia.org/mp1.html

    effedieffe.com 26.05.2008

  4. #264
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    Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus (2)
    Domenico Savino
    29 maggio 2008

    Dominicus è la pubblicazione periodica della Provincia Domenicana «San Domenico in Italia».
    Se fosse vivo, povero San Domenico, non reggerebbe; sono sicuro: un rogo, piccolo piccolo, ma lo accenderebbe.
    Non per certi suoi «confratelli», che pure almeno una scottatina se la meriterebbero, ma per la loro rivista sì.
    Nel numero 4 del bimestre settembre-ottobre 2007, quasi in simultanea con il documento dei responsabili della Settimana liturgico-pastorale della Comunità monastica di Camaldoli, l’Istituto di Liturgia Pastorale dell’Abbazia di Santa Giustina di Padova e l’Associazione Professori e Cultori di Liturgia (APL), di cui ho riferito nella prima parte, fra Riccardo Barile o.p. (nomen est omen) svolgeva sulla citata rivista domenicana alcune considerazioni sul Motu Proprio (1) partendo da una domanda: «La simpatia crescente per il vecchio rito pone delle domande: c’è stato un difetto di attuazione della riforma? I liturgisti sono riusciti a comunicarne le motivazioni al popolo di Dio e a farla amare?».

    Rispondo - per dirla alla Crozza - pacatamente e serenamente: no, sono riusciti a farla detestare.
    Lo dico pur frequentando regolarmente Messe celebrate con il Novus Ordo, quando non mi riesce di spendere tra andata e ritorno quattro ore di tempo e venti euro di benzina e autostrada per andare a «udir Messa», pardon «partecipare alla celebrazione eucaristica» in quel di Bologna, presso la Chiesa di Santa Maria della Pietà, detta dei Mendicanti in via san Vitale, 112.
    Tutto quanto potevano fare per rendere alla lunga problematico, quando non urticante assistere alla Santa Messa l’hanno fatto ed anche di più: dimentichi di celebrare in persona Christi si sono trasformati in «Pippibaudi dell’Eucaristia», prendendo abusivamente il posto di Colui che ne è Ostia, cioè vittima e quindi Sacrificato oltrechè Sacrificatore: la «tragedia» del Sacrificio si è mutata nella «commedia» della cena fraterna e talvolta nel self-service conviviale.
    Si fossero limitati a questo!
    Nient’affatto.
    Hanno deciso che anche noi dobbiamo far parte del cast, siamo obbligati a partecipare allo «spettacolo».

    Qualcuno, più d’uno (certamente io) s’è scocciato.
    A Messa ci vado con la morte nel cuore: sogno un sacerdote afasico, che celebra con la maschera d’argento, anonimo, umile, devoto, che non sorride, non ammicca, non esorta: fa «il suo mestiere» e lo fa bene; non cerca di compiacere, di persuadere, di colpire.
    Vorrei andare alla Messa non di don Tizio o di don Caio; vorrei andare alla Messa.
    Vorrei vivere un Mistero piccolo e immenso in silenzio, un’ora alla settimana, vorrei stare in chiese silenziose e raccolte, vorrei incontrare il Signore e non la «curva sud» fatta di chitarre, maracas, tamburi, bonghi, battimano e ritmi ancestrali; vorrei stare coi miei fratelli in contemplazione di quel Mistero che solo Lui ci fa fratelli, perché ci ha redenti dal nostro peccato, dal nostro comune peccato originale e dai nostri comuni peccati attuali: miserere nobis.
    Vorrei stare in silenzio, con un po’ di timore per quello che vi accade, a sentire il mio cuore che parla con Lui e Lui che parla al mio cuore.
    Vorrei…
    Nossignore, verboten: vietato.

    Domanda. C’è stato un difetto di attuazione della riforma?
    No.
    Purtroppo c’è stata la riforma.
    C’è nostalgia del passato?
    No, c’è nostalgia della Messa.
    Tutto qui: «Chi si mette all’aratro e poi si volta indietro non è fatto per il Regno dei cieli».
    La Messa, cari e vari Barili, non ha tempo.
    E’ l’Eternità.
    E’ questo che i «vari Barili» non hanno capito.
    E infatti il Barile di turno non capisce e scrive. «la nostalgia dell’Egitto e la tentazione di ritornarvi accompagnarono l’esodo» (Es 13,17; 14,11-12; 16,3; 17,3; Nm 11,5.18,20; 14,2-4): così anche nella vita della chiesa, venendo meno la generazione che ha iniziato svolte significative e persistendo il peso della difficoltà quotidiana, nasce la tendenza a tornare indietro.
    Pover’uomo, prigioniero del tempo!
    Lui forse ha nostalgia della sua giovinezza ormai passata e della sua giovanile, prometeica voglia di rifare il Mondo e la Chiesa!
    Lui forse palesa la stanchezza di desolanti speranze deluse!

    Io no, non ho nostalgie, né speranze: ho voglia di incontrare il Signore, finchè Egli si fa trovare, perché so che il tempo è breve.
    Cristo il mondo non lo cambia, l’ha vinto.
    Cristo la Chiesa non l’aggiorna, la santifica e la vivifica col Suo eterno sacrificio.
    Non è un sociologo: è semplicemente - ma forse è troppo poco per un moderno teologo e liturgista - il Salvatore del Mondo!
    E’ qui la differenza, è qui che non capiscono.
    Il tempo da cercare non è ieri o domani: è il «sempre», ove contemplare il Signore!
    Alla Sua luce potrò amare perfino certi domenicani… anche se - confesso - con un po’ di difficoltà!
    «Il giorno dell’indulto - così il «padre» Barile definisce il giorno in cui il Motu proprio viene promulgato (la lingua, evidentemente parla della sovrabbondanza del cuore!) - il telegiornale di RAI2 ha trasmesso la dichiarazione di un prete lefebvriano, che ha usato l’espressione ‘la Messa di sempre’, che è un assurdo storico e teologico (semmai la Messa di sempre è l’ultima cena), senza che gli sia stata opposta altra dichiarazione chiarificatrice».
    Fateci caso: questa frase è da sola un indicatore.

    Il Vetus Ordo è il giorno dell’indulto, quasi si trattasse di condonare un reato (per loro evidentemente lo è).
    L’insistenza su di un termine che venne usato nel 1984 per il «Quattuor abhinc annos», emesso dalla Congregazione per il Culto Divino e che concedeva la facoltà di usare il Messale Romano edito da Giovanni XXIII nell’anno 1962, ha lo scopo di fossilizzare quasi nella fattispecie delittuosa la celebrazione con il Vetus Ordo.
    L’invidia per i fratelli cattolici della Fraternità San Pio X poi, che in quella giornata dell’estate scorsa vedevano riconosciuta la giustezza di una battaglia che era costata anni di persecuzioni dolorosissime, emerge dalla stizza per il risalto dato loro dai media.
    L’idea che la Messa sia non già l’attualizzazione del Sacrificio della Croce, quanto essenzialmente la «Cena del Signore» la dice lunga sulla consistenza del pacchetto azionario luterano nella teologia «cattolica» attuale.

    Il livore si trasforma talvolta in rammarico: la colpa - dice il «padre» Barile - sta nel cedimento di Woityla.
    Cedere un poco, ha significato capitolare: «Infatti, l’attuale distinzione tra l’espressione ‘ordinaria’ della preghiera della chiesa (il Messale di Paolo VI) e quella ‘straordinaria’ ma attuale e praticabile (il Messale del 1962) (SP 1) era implicitamente contenuta nei testi citati dell’Ecclesia Dei afflicta e su di essi si fonda. Ora, se a qualcuno viene concesso di celebrare la Messa - e non solo la Messa - com’era prima di questa riforma, più che dalla riforma liturgica non si concede una dispensa dalla Sacrosanctum concilium? E stante il valore simbolico della liturgia, non si concede di fatto una dispensa... dal Concilio? Certo, nessun dubbio che il Papa abbia l’autorità di farlo e massimo rispetto per le sue determinazioni, ma la domanda resta».

    Esatto: è possibile essere cattolici ed ottenere una dispensa dal Vaticano II?
    Risposta. Sì, certamente sì, non essendo stato quello un Concilio dogmatico, ma pastorale.
    Ma il bello viene ora.

    Pensavate voi che il Vetus Ordo fosse solo uno scelus, un delitto?
    Vi sbagliavate: il Vetus Ordo è quasi un «peccato contro natura».
    Infatti l’analogia immediata per il «padre» Barile è con le coppie di fatto.
    La Chiesa - sissignori! - avrebbe dovuto trattare le pretese dei tradizionalisti più o meno lefebvriani così come tratta le pretese di gay, lesbiche e trans.
    Avrebbe cioè dovuto ragionare con la logica dei DICO: «Tutti conoscono - scrive il ‘padre’ Barile - l’obiezione cattolica ai DICO: le leggi che ci sono basterebbero per regolare rapporti patrimoniali ed economici, mentre la teorizzazione di un nuovo rapporto tra i sessi fa saltare la famiglia e diventa un modello pericoloso. Come sempre, il rigore della morale sul sesso si allenta quando si passa alla liturgia..., eppure anche qui sarebbe stato possibile ragionare come sui DICO: le leggi che c’erano sarebbero bastate per praticare l’antica liturgia, mentre l’aver teorizzato una forma ordinaria e straordinaria (SP 1) diventa un modello alquanto pericoloso, nella misura in cui è una ‘novità’ rispetto a quanto sino ad ora si è fatto e a quanto si è richiesto di obbedire. Si dice che l’antico rito, proprio perché antico, veicola una tradizione e dei valori da non perdere, e dunque può essere praticato… Bene: allora, se l’antichità del rito del 1962 viene riabilitata, è perché si vuole rimettere in vigore la teologia veicolata da questo rito, che forse non si considera sufficientemente accolta e integrata nella riforma».

    Infatti torna il problema: lex orandi, lex credendi.
    In realtà costoro della liturgia se ne fanno un baffo.
    Sanno che al di là di essa sono i contenuti della Fede che devono tornare ad essere messi in discussione e che i temi sollevati dai cattolici della Fraternità San Pio X e dagli altri movimenti e gruppi fedeli alla Tradizione non potranno più essere elusi.
    Lo sanno e digrignano i denti: «La sensazione - scrive il Barile - è che in tutta la questione i lefebvriani dettino l’agenda e le condizioni con un metodo classico di conquista: prima ci si impadronisce di un territorio, poi si tratta cedendo qualcosa, ma conservando ciò che non si sarebbe mai ottenuto limitandosi dall’inizio a obbedire e a trattare».
    La parola d’ordine è quella di resistere.
    Il messale di Paolo VI - Giovanni Paolo II è divenuto la linea del Piave.
    Il Papa lo ha già detto chiaramente nei suoi scritti: la riforma del 1969 è stato un vulnus per la Chiesa.

    Lo sanno e rafforzano le fortificazioni: «In altri termini, si rischia di avviare una seconda riforma liturgica parallela all’attuale e a partire dall’uso del Messale del 1962. L’effetto domino si completa con la possibilità di erigere una ‘parrocchia personale’ (SP 10) e a questo punto si accetterà non solo una differenza rituale, ma anche un ambiente legittimato a rilanciare un nuovo - cioè vecchio - modo di pensare la Chiesa, il suo rapporto con l’ecumenismo, con la società, con la politica, insomma con il mondo».
    Questo perché «la liturgia fa la Chiesa e la Chiesa fa la liturgia» vale anche per la liturgia del 1962.
    Facendosi scudo perfino del cardinale Siri e della sua obbedienza, contrapposta alla «ribellione» lefebvriana, scatta poi la rabbia per non essere più nel «cuore del Papa»: sono innegabili gli scritti e le simpatie del teologo Ratzinger per la Messa tridentina, come le foto di lui celebrante tra neotradizionalisti.

    Tutto questo genera difficoltà nel rapportarsi al Papa da parte di alcuni uomini di Chiesa: sembra che si faccia qualcosa per evitare la divisione, ma solo da una parte (destra): il Papa è veramente convinto quando afferma la bontà della riforma liturgica oppure lo dice per dovere, mentre il suo cuore è nel concedere l’indulto?
    Noi - cristiani normali - ci governa, quelli - dell’indulto - li ama...
    Un po’ hanno ragione, ma è una conseguenza: a forma extra-ordinaria, corrisponde amore extra-ordinario.
    Occorre che se ne facciano una ragione… o si con-formino.

    Conclusione del «padre» Barile: per ora resistere al Vescovo di Roma (così luteranamente definito) e attendere che la dialettica storica (hegelianamente sottesa) realizzi attraverso l’astuzia della Ragione un più alto livello di sintesi.
    Conformarsi al divenire storico, significa per costoro conformarsi a Dio, perché ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale.
    Papale, papale - casomai con loro quest’espressione abbia un senso - scrive infatti il Barile: «Ma la conclusione è il rispetto della storia che è anche il rispetto di Dio che agisce nella storia. Nel rispetto di tutte le dinamiche umane, Dio ha voluto Ratzinger come vescovo di Roma e con lui il Motu proprio. Per ora Dio chiama i liturgisti ad agire in questo contesto, senza cercare di osteggiare il Motu proprio, ma lavorando con alacrità e gioia nel rinvigorire la liturgia corrente affinché, parafrasando 2Cor 5,4, già da ora ‘ciò che mortale’ della liturgia del 1962 ‘venga assorbito dalla vita’ della liturgia riformata dopo il Vaticano II».

    Il fatto è che la fine del «vaticansecondismo» significherebbe la fine di un sistema, di un regime, di una cultura, di una struttura di potere che ha occupato e soffocato la Chiesa.
    Della liturgia gliene importa poco: « Il problema – scrive il ‘padre’ Barile - non è il qualche centinaio o migliaio di fedeli in più che celebreranno secondo il precedente Messale, ma la mentalità che ne deriva e i principi posti circa la non abrogazione, le parrocchie personali, il potere dei parroci e la debolezza dei vescovi nell’attuazione dell’indulto».
    Poi quella preoccupazione che deve aver tolto il sonno a molti aspiranti monsignori e teologi: «Forse per le nomine episcopali e di altri posti di responsabilità si resterà attenti che i candidati siano favorevoli alla mentalità del Motu proprio».

    Quando si dice una Chiesa rinnovata e tutta spirituale…

    (2. - continua)

    Domenico Savino

    effedieffe.com 29.05.08

    --------------------------------------------------------------------------------

    1) Dominicus, Pubblicazione periodica della Provincia Domenicana «San Domenico in Italia» - numero 4 settembre - ottobre 2007, Summorum Pontificum, Considerazioni di fra’ Riccardo Barile, pagine 163.

  5. #265
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    Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus (Parte III)
    Domenico Savino
    14 giugno 2008

    Parte da Jesus, il mensile dei Paolini, fratello minore di Famiglia cristiana (qualcuno - non ricordo chi, ma so perchè - lo ha soprannominato «Fanghiglia cristiana»…) l’attacco più recente e più duro al «Motu Proprio Summorum Pontificum», con un dossier che da solo in tempi civili sarebbe valso almeno una scomunica.
    Titolo del dossier, contenuto nel numero di maggio: «Il Vetus che avanza», una provocazione che fa il verso a «il nuovo che avanza», slogan coniato per celebrare la «Milano da bere» prima e il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica poi.
    La presentazione del Documento Pontificio è fin dall’inizio settaria: lo si presenta come «voluto da papa Benedetto XVI per riportare in comunione con Roma i lefebvriani».
    Non è essenzialmente così, perché in realtà nella lettera ai vescovi il Papa dice quello che già da cardinale aveva più volte affermato, a partire da quanto scrisse nell’autobiografia «La mia vita» del 1997: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta».

    Nel libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald («Dio e il mondo», 2001), Ratzinger tornava ancora a criticare gli abusi della riforma postconciliare, chiedendo ai confratelli vescovi di essere più tolleranti con i fedeli che chiedono la Messa col vecchio rito come previsto dall’indulto di Papa Wojtyla (ricordo che le condizioni per l’uso del «Vetus Ordo» erano prima del «Motu proprio», stabilite dai documenti «Quattuor abhinc annos» e «Ecclesia Dei», oggi di fatto abrogati).
    Così col «Motu Proprio» egli, prima ancora che lanciare un ponte verso il mondo tradizionalista, chiarisce che anche «molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne - prosegue il Papa - anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché - chiarisce Ratzinger - ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa».

    Il fine primario del «Motu Proprio» non è dunque essenzialmente quello di «recuperare» i lefebvriani (che - sia detto- non sono, né si sono persi!), quanto quello di salvare la Messa cattolica. L’ibridazione che il «Novus Ordo», specie col tempo, ha realizzato con la «cena protestante», la perdita progressiva della dimensione sacrificale della Messa, lo svilimento della sua dimensione anagogica, il proliferare di abusi hanno indotto il Papa a porre le premesse per una trasfusione di sacralità dal vecchio al nuovo rito in vista di loro riavvicinamento e di quella che taluni chiamano già la «Riforma della Riforma»: «Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione ‘Ecclesia Dei’ in contatto con i diversi enti dedicati all’‘usus antiquior’ studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso».
    Contro la «Messa fai da te», Joseph Ratzingre da cardinale ci aveva provato più volte a riportare ordine, scrivendo per Papa Giovanni Paolo II nel 2003 la Lettera enciclica sull’Eucarestia dal titolo «Ecclesia de Eucharistia» e lavorando con il cardinale Arinze alla stesura dell’Istruzione «Redemptionis sacramentum - Su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia».
    Fatica sprecata.
    Da Papa ci aveva riprovato con la Esortazione Apostolica Postsinodale «Sacramentum caritatis».
    Risultato vicino allo zero.
    I documenti del Magistero preti e vescovi non se li sono neppure letti.
    Hanno tirato dritto per la loro strada.
    Quanto ai fedeli, oramai, a Messa è già molto se ci vanno.
    Questa volta con il «Motu Proprio» il Papa ha alzato il tiro.
    Qualcuno ha scritto: la ricreazione è finita.

    I vari vescovi e porporati, fin qui sordi agli inviti del Pontefice, questa volta hanno dovuto almeno uscire allo scoperto: l’ala progressista, Martini in testa, ha detto di no e si è messa di traverso.
    Dietro di lui uno stuolo rumoroso di ecclesiastici, teologi, preti e pretonzoli si è ammassato a fare diga contro il «Vetus che avanza».
    Questa chiamata alle armi non deve stupire.
    Chi crede al valore salvifico della Santa Messa, all’efficacia di grazia che nel Suo Sacrificio eternamente offerto viene sempre riattualizzata, sa che questa è l’unica arma vera contro l’irrompere delle forze del male nella Chiesa e nel Mondo.
    Naturale che coloro i quali cercano invece il «dialogo con il Mondo» non siano disponibili ad usare «l’arma decisiva» e abbiano fatto di tutto per riporla negli arsenali della archeologia liturgica!

    La drammaticità con la quale il Pontefice guarda all’ora presente fa capire perché, contro il degrado della Santa Messa, unico efficace rimedio (unitamente alla preghiera contro la «dissoluzione della realtà»), il Papa non si sia limitato alle reprimende e alle esortazioni, cioè ai pannicelli caldi: questa volta ha richiamato in servizio la Tradizione cattolica, ovvero il Sacrificio della Messa.
    I suoi avversari più pericolosi, quelli intra moenia, questa volta hanno capito che il Papa faceva sul serio, perché nella logica del «lex orandi, lex credendi», ciò non potrà che significare dopo il ritorno della Messa di sempre (un’espressione urticante per i neomodernisti) il ritorno della Fede di sempre. Non è una previsione, è una certezza per chi crede nell’efficacia e nella potenza del Sacrificio. Quella Messa è l’unico rimedio efficace, «fonte e culmine» di rinascita della vita cristiana e della Chiesa cattolica.
    A Jesus non sono stupidi.
    Per attaccare il «Motu Proprio» anzitutto hanno dato la parola ad una donna e già questa è una scelta specifica: Vittoria Prisciandaro, l’autrice del pezzo introduttivo e di quello durissimo di attacco ai tradizionalisti, è la direttrice responsabile di «Servir», mensile dell’Associazione Centro Astalli per l’Assistenza agli Immigrati, che è il servizio dei Padri Gesuiti per i Rifugiati, presente in circa 50 Paesi nel mondo.
    Il «taglio» è facilmente intuibile: ecumenismo, interculturalità, intergrazione.
    La scelta del titolo del dossier di Jesus (Il vetus che avanza) potrebbe essere specificamente suo, perché ci sta con il personaggio della Prisciandaro.
    Frequentemente le piace nei titoli servirsi di slogan o titoli famosi di film.

    A metà tra «Ballando con uno sconosciuto» e «Ballando coi lupi» si situa, ad esempio, il suo «Ballando con Allah», un articolo in cui descrive così le pratiche dei dervisci danzanti, tanto cari a Franco Battiato: «La preghiera coranica inizia, dolce e litanica. Poi cede il passo al canto malinconico del flauto di canna, il ney. Una quindicina di giovani prendono posto al centro della sala circolare. Sono raccolti, concentrati come si conviene agli officianti di una sacra liturgia. Un anziano dai capelli bianchi li accoglie, si inchina e guida i loro passi. E’ il sey, il maestro, che accompagna il viaggio spirituale verso Dio. La musica diventa corale. Si moltiplicano i flauti, si aggiungono i tamburi e una viola fa da contrappunto alle voci maschili. Saranno una cinquantina i protagonisti di questa cerimonia antica dal fascino indiscusso. E’ il Sema, la preghiera dei dervisci danzanti, nata dalla mistica dell’Islam, il sufismo, e filtrata attraverso l’ecumenismo ante litteram di Celaddin Rumi, il poeta filosofo chiamato Mevlâna (‘la nostra guida’). Contemporaneo di Francesco di Assisi, in qualche modo il saggio vissuto nelle steppe dell’Anatolia ne richiama il messaggio di shalom universale, la regola della carità, l’invito all’accoglienza senza giudizio. Non sarebbe dispiaciuto al ‘poverello’ ritrovarsi fianco a fianco con i ‘mendicanti’, termine persiano da cui proviene la parola dervisci. ‘Vieni, ritorna, chiunque tu sia, vieni / Non importa se sei un infedele, un idolatra o un adoratore del fuoco / Vieni, anche se hai infranto il tuo giuramento cento volte, vieni lo stesso / La nostra non è la porta della disperazione e del tormento / Vieni’».
    Capite da soli che quando si assimilano il dissolvimento estatico della coscienza, propria di questa pratica (ma anche delle orge rituali, o no?), con la mistica del povero San Francesco, il resto viene di conseguenza.
    Ma tant’è, questo - è proprio il caso di dirlo - passa oggi il convento.

    Dunque a Vittoria Prisciandaro hanno dato l’incarico di demolire il «Motu Proprio» e lei ha deciso di farlo con una tattica astuta, invertendo i ruoli e proclamando: «la Tradizione siamo noi».
    E’ l’idea più volte espressa da Alberto Melloni, erede di Alberigo e della «Scuola bolognese», che citando il padre Congar, afferma ad esempio che «c’è una ‘Tradizione’ maiuscola, che preserva ed affina l’intelligenza della verità, e c’è invece una ‘tradizione’ con la minuscola, che è fatta di approssimazioni nostalgiche con le quali qualche anima vecchia rimpiange modi d’essere della propria gioventù e piange calde lacrime per quella che - al massimo - può essere solo una ‘tradizione’. Al contrario la ‘Tradizione’ in senso forte è fatta di scelte, di intuizioni del tempo e della storia, di discontinuità storiche imboccate coraggiosamente proprio per evitare che, in nome di qualche illusoria perpetuazione, si perda il contenuto più profondo della verità cristiana» (1).
    Per dire in maniera più ammiccante le stesse cose, la Prisciandaro ha deciso di liquefare il «Vetus Ordo» nella post-modernità.
    Con un’immagine da «Vanity Fair» ha unito il ritratto del giovane prete attratto dalla liturgia preconciliare («talare, racchetta da tennis sotto il braccio, Messa in latino in parrocchia e, a seguire, happy hour con gli amici»), rubandola all’analisi di François Cassingena, per sposarla con una cultura e un modo postmoderno di sentire la fede e scrivendo: «Secondo il teologo francese, quello di Pio V è un Messale rigorosamente individualista, in sintonia con il sentire di oggi, mentre quello di Paolo VI ha un approccio comunitario, e per questo più antico».

    Badate alla sottigliezza: la vera Tradizione è il Concilio Vaticano II, l’antitradizione sono ad un tempo la post-modernità e il pre-concilio.
    Vi prego di notare come è sottile il modo di pervertire la realtà: siccome la post-modernità è individualista, mentre il mondo tradizionale era comunitario, essendo il «Novus Ordo» comunitario esso è tradizionale.
    Sarebbe come dire: siccome Dio è immortale, mentre la scimmia è mortale, essendo la Prisciandaro mortale (almeno lo spero!), la Prisciandaro è una scimmia.
    Ora non so cosa ne pensi la giornalista di Jesus, ma il primate è offesissimo e - devo dire - non senza ragione.
    Anche perché, rimanendo nella zoo-teologia, la nostra chiama in causa Andrea Grillo, docente di Liturgia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo, che, riprendendo alcune considerazioni in base a cui il favore verso l’antico rito esprimerebbe una nuova forma di appartenenza e di identificazione sociale, sentenzia: «Si dà forma a percorsi individualistici o privatistici: il gruppo si autoisola dalla comunità perché celebra secondo un regime rituale diverso, rinunciando a tutta la ricchezza biblica del nuovo lezionario, alla preghiera universale quotidiana, all’unità delle due mense, alla concelebrazione, alla comunione sotto le due specie».

    Insomma, dice Grillo, «C’è un problema per una pastorale dell’unità. Si potrà anche dire che i fedeli fanno parte della stessa Chiesa, ma di fatto vengono alfabetizzati da liturgie che tra di loro sono in un rapporto di tensione, perché la seconda è nata per correggere la prima».
    Ignora forse il Grillo parlante che il «Vetus Ordo» ha qualche annetto in più di consolidato liturgico rispetto alle sperimentazioni post-conciliari e soprattutto che il «Novus Ordo» è una riforma che ha tradito, prima che la Tradizione, lo stesso Concilio Vaticano II, il quale per esempio prescriveva nella Sacrosantum Concilium che:
    - regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa;
    - di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica;
    - non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti;
    - l'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
    Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
    Non si parlava di altare girato verso il popolo, né di altre sperimentazioni, innovazioni, aggiornamenti, contestualizzazioni, amenità, bonghi e maracas, che siamo stati costretti a subire domenicalmente e di cui i liturgisti si riempiono la bocca ed il portafoglio coi sussidi liturgici imposti nei seminari e nei corsi di formazione.

    Nell’articolo della Prisciandaro le presunte «difficoltà nell’interpretazione e nell’applicazione del ‘Motu proprio’ » vengono enfatizzate e… indovinate qual è la più evidente?
    Naturalmente «il fatto che il ripristino dell’antica liturgia avrebbe mandato a rotoli 40 anni di dialogo ebraico-cristiano, riproponendo la preghiera universale del Venerdì Santo in cui si pregava per la conversione degli ebrei».
    Siamo alle solite.
    Dovremmo forse rinunciare alla Santa Messa di sempre, perché rammenta il Sacrificio di redenzione e il fatto che autorità ebraiche coi loro seguaci misero a morte Nostro Signore? Dovremmo forse dimenticare che proprio quella Messa ci esorta a rinnovare la oramai abbandonata «Missio ad Haebraeos»?
    Aperti e tolleranti con tutti, dai danzatori di Allah ai «Fratelli maggiori», dal Dalai Lama, ai riti Vudù, sul «Vetus ordo» le vestali di Jesus riscoprono l’omogeneità.

    Citando Basilius Groen, olandese, direttore dell’Istituto per la liturgia, l’arte cristiana e l’innologia dell’Università di Graz, in Austria, veniamo messi in guardia circa il rischio «che ci si trovi di fronte a due modelli ecclesiologici diversi: il primo è centrato sul prete, per l’altro è fondamentale la partecipazione della comunità».
    E per marcare la differenza Groen richiama il documento preparatorio del Messale di Trento che inizia con la frase «Sacerdos paratus» («quando il prete è pronto»), mentre il testo della liturgia di Paolo VI apre con «Populo congregato», («quando l’assemblea è riunita»).
    Bisognerebbe ricordare che il «Populo congregato» senza il «Sacerdos paratus» può, a seconda delle locali tradizioni gastronomiche, imbandire ottime tavole ed organizzare le più svariate pastorali dello «gnocco fritto» o della «piadina alla rucola», ma non celebrare il Santo sacrificio della Messa.
    A meno che il liturgista olandese non intenda fare proprie ed estendere a tutto il corpo ecclesiale la cancrena che nella terra dei tulipani i domenicani, con il consenso dei provinciali dell’ordine, hanno generato e cioè la distribuzione in tutte le 1.300 parrocchie cattoliche di un opuscolo di 38 pagine intitolato «Kerk en Ambt» («Chiesa e ministero»), nel quale propongono di trasformare in regola generale ciò che in vari luoghi già si pratica spontaneamente, vale a dire: «in mancanza di un prete, sia una persona scelta dalla comunità a presiedere la celebrazione della messa… Non fa differenza che sia uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe».
    La persona prescelta e la comunità sono esortati a pronunciare insieme le parole dell’istituzione dell’eucaristia: «Pronunciare queste parole non è una prerogativa riservata al prete. Tali parole costituiscono la consapevole espressione di fede dell’intera comunità».

    Il professor Groen - citato dalla Prisciandaro - rivendica la missione dei teologi di fare sul serio il proprio lavoro: «Non siamo infallibili, ma abbiamo il dovere di esercitare una funzione profetica di controllo critico al servizio della Chiesa».
    La precisazione che non fossero infallibili non era necessaria: ce ne eravamo accorti.
    Per il resto, specie dopo il Vaticano II e la riscoperta del ruolo dei laici, anche noi sentiamo forte il dovere di esercitare una funzione profetica di controllo critico al servizio della Chiesa: noi la chiamiamo tradizionalmente, semplicemente ed evangelicamente «correzione fraterna».
    Direi che per cominciare il legno di pioppo può andare benissimo…

    (3 continua)

    Domenico Savino

    effedieffe.com 14.06.08

    1) Il Corriere della Sera, 22 novembre 2005, pagina 41, «Elzeviro: Il Concilio di Trento», di Alberto Melloni.

  6. #266
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    Attacco al Motu proprio: da Martini a Jesus (Parte IV)
    Domenico Savino
    26 giugno 2008

    Un lettore, nome in codice «Milanese», scrive a proposito dei miei tre articoli sul «Motu proprio»: «Caro Savino, per quanto sia gustoso quello che scrive, deve proprio mettere un’altra puntata? Sono già a rischio esaurimento dopo tre».
    La capisco, caro lettore, ma se ne faccia una ragione.
    Si prenda un ricostituente, assuma dell’iperico contro la depressione, ma mi ascolti un’ultima volta.
    Prometto che sull’argomento ho finito… per ora, ma non senza prima avere messo in luce alcune cose, che riguardano il «mondo tradizionalista».
    Perché dalla lettura del numero di maggio di Jesus e dal suo sciagurato inserto, di cui ho parlato nella scorsa puntata, una cosa sola infatti è certa: questi maledetti retrogradi - i tradizionalisti, s’intende! - tanto hanno fatto, tanto hanno brigato nella curia romana, che hanno ottenuto finalmente la loro Messa.
    Però adesso basta.
    Che vogliono di più?
    Se la celebrino e la smettano di rompere… la mitica «comunione ecclesiale», s’intende.

    Questo è in estrema sintesi il senso dei tre articoli che concludono l’inserto di Jesus, dedicato al Motu proprio.
    Titoli eloquenti per una carrellata europea: «Italia: vescovi obbedienti, tradizionalisti aggressivi»; «Francia: con i tradizionalisti non c’è ‘pace liturgica’; «Germania: i vescovi temono nuove tensioni».
    I tre titoli ne recano in grassetto una parte e posti in sequenza è possibile costruire a sua volta questo titolo: «Tradizionalisti aggressivi, non c’è ‘pace liturgica’, [si] temono nuove tensioni».
    Insomma, se non si ricompone la comunione ecclesiale, la colpa è loro, dei tradizionalisti, che sono aggressivi, non amano la pace, creano tensioni.
    Nessun accenno alla catastrofe provocata da quarant’anni di ecclesiologia sciagurata, nessun
    mea-culpa per il crollo delle vocazioni, nessuna autocritica per l’incapacità del «cristianesimo mondano» di reggere l’urto del «mondo», nessun riconoscimento dell’insipienza nell’analisi dei fenomeni della modernità, ancora «non pervenuta» la decodifica delle sue matrici spirituali anticristiane, fuori di orizzonte la comprensione delle matrici gnostiche della post-modernità, smarrite le cartelle cliniche dell’infarto nella pratica religiosa, passata ad esempio in Irlanda negli ultimi 20 anni dal 90 al 30%.

    Evaporata la «nuova Pentecoste», sconvolta la «nuova primavera» della Chiesa (forse - chissà? - dai cambiamenti climatici), dilapidato un patrimonio spirituale immenso e millenario nel breve volgere di qualche lustro, invece di fare come il figliol prodigo e prendere coscienza di avere consumato la propria eredità (e anche la nostra, in verità!) «puttanneggiando» con ogni infezione spirituale, fino a ridursi a mangiar carrube coi porci, tentano periodicamente, sistematicamente, impudentemente di rifilarci di nuovo la «patacca del Papa buono», la versione ri-masterizzata del «discorso alla luna», l’amletica, «moderna», arrendevole, esausta pontificalità di Montini,
    la vigorosa, dinamica, ferita, ecumenica, dialogica, forse dialettica, infine tremula e tragica immagine di Wojtyla, intercalando il tutto con il sorriso di Luciani, la pipa di Pertini, la barba di Toaff, il sari di madre Teresa e la zucca pelata del Dalai lama, su sfondo iridato in stile new-age.
    Finiti gli anni del trionfalsmo dell’era w oytiliana, dietro il cui enorme successo mediatico si è mimetizzato oltre ad un vuoto abissale delle coscienze, soprattutto una progressiva erosione dei codici stessi della Fede ad opera di una minoranza rivoluzionaria attivissima, l’era Ratzinger segna all’interno della Chiesa un riflusso che sembra un po’ Termidoro e potrebbe preludere all’Impero.
    Ma se così fosse non ci sarebbe da rallegrarsene: l’Impero fu comunque l’Impero della Rivoluzione.

    Come nella Rivoluzione la borghesia, che ne era stata protagonista, rivendicava per sé la gestione del potere, eliminandone gli eccessi giacobini, pure utilissimi per lo scardinamento dell’ordine preesistente e indirizzandola verso uno sbocco moderato e poi neo-autoritario, funzionale questa volta al nuovo ordine, così temiamo possa accadere nella Chiesa: troppi moderati che hanno favorito l’aggiornamento conciliare, plaudito alle aperture al mondo, esaltato il dialogo interreligioso, proclamato come valore supremo quello della libertà religiosa, oggi plaudono a Ratzinger, al Motu proprio, alla «Messa in latino».
    Ecco dunque che, mentre denunciamo le smaccate manovre per sterilizzare il Motu proprio e con esso disinnescare il dispiegarsi della piena potenza salvifica del Sacrificio di Cristo eternamente riattualizzato nella Messa, occorre comunque precisare a tutti quelli che da «destra» plaudono all’iniziativa del Papa che - mi si passi la metafora - qui non sono in gioco i pennacchi o le divise,
    il ristabilimento dei protocolli e delle gerarchie.
    Fuor di metafora e per tornare al Motu proprio, a noi interessa essenzialmente il ristabilimento della Verità, che è il Cristo, da cui discende ogni cosa.
    La «lex orandi» deve essere cioè lo strumento per ristabilire la «lex credendi».

    Io non credo nella fissità, ma neppure nella dialettica.
    E’ possibile - perché no? - che si trovino nuove forme per esprimere Verità eterne: questo è sempre stato nella vita della Chiesa.
    A condizione però che le verità restino immodificate e le forme siano acconce.
    E’ possibile che le Verità vengano approfondite, a condizione che non vengano stravolte.
    E’ possibile addirittura che le Verità vengano arricchite di nuove Verità (si pensi ai dogmi proclamati negli ultimi due secoli: Infallibilità pontifica, Immacolata Concezione ed Assunzione di Maria Santissima ), ma si tratta di Verità che confermano le precedenti, non che le sovvertono.

    La Chiesa non ha avuto bisogno del Vaticano II per aggiornare il proprio lessico alla mutevolezza della realtà: diciamo che con un po’ di sapiente lentezza ha saputo cogliere ben prima del 1959
    i segni dei tempi e si è sempre districata benissimo nel mondo, anche quando a guidarla non c’era un «Papa buono», ma magari un «Papa cattivo, peccatore, incestuoso».
    Il mistero della Chiesa non sta infatti negli uomini di Chiesa: altrimenti Cristo non avrebbe scelto Pietro, ma Giovanni, come avrebbero fatto senz’altro molti teologi dell’aggiornamento
    post-conciliare.
    Il Mistero della Chiesa è dato dalla inabitazione in Essa di Cristo, dal Suo amore sponsale per Lei.
    La questione è se la Chiesa si è o meno stancata del suo Sposo.
    Questo è il vero problema.
    Torniamo allora a parlare della Verità.
    Lasciamo stare il Concilio Vaticano II: esso è solo l’ultimo, non certo il più importante, tra i Concilii della Chiesa.
    Trattiamolo - visto che non è un Concilio dogmatico - come il terzo concilio Lateranense.
    Qualcuno ricorda di cosa trattò?
    No, eppure il dogma della Fede venne trasmesso egualmente.
    Ecco, appunto, ripartiamo dai dogmi, dalla chiara, inequivocabile, proclamazione dei dogmi.
    Dico questo, perché gli «aggressivi tradizionalisti» in fondo solo questo richiedono.
    E a ragione.

    Nella Lettera agli amici e benefattori, numero 72 del 14 aprile 2008, sua eccellenza monsignor Bernard Fellay superiore generale della Fraternità San Pio X si compiace del Motu Proprio, ma domanda se, dopo il ristabilimento della «lex orandi» seguirà o meno il pieno ristabilimento della «lex credendi» e pone alcune domande:

    • Il compito fondamentale della Chiesa è di annunciare verità soprannaturali ed eterne?
    • La denominazione classica di «false religioni» rivolta alle fedi diverse da quella cristiana è ancora valida?
    • I termini «eretiche» e «scismatiche», che qualificano le religioni più prossime alla religione cattolica, sono spariti.
    Perché?
    • L’ecumenismo va inteso come sforzo che la Chiesa deve compiere per la conversione di tutti i cristiani ed un ritorno all’unità cattolica, o la costituzione di una nuova specie di unità «negoziata» che non richiede più alcuna conversione?
    • Il dogma «extra Ecclesiam nullus omnino salvatur», richiamato nel documento Dominus Iesus parlando di Ecclesia, fa riferimento alla Chiesa cattolica o alla Chiesa di Cristo che non coincide con la Chiesa cattolica, ma che in essa vi sussiste?
    • Le eresie diffusesi nel corpo ecclesiale negli ultimi decenni sono denunciate o confermate?
    • Se ora si afferma che la Chiesa non cambia, come possono tali cambiamenti essere perfettamente in linea con la Tradizione cattolica?
    • Perché si permette che le università cattoliche persistano nelle loro divagazioni, l’insegnamento del catechismo resti uno sconosciuto e la scuola cattolica non esista più come specificamente cattolica?
    • Come può questo nuovo modo di intendere la Chiesa essere ancora in armonia con la definizione tradizionale della Chiesa?

    Domande pressanti, precise, ineludibili.
    Comunque la pensiate, domande sensate, che hanno alla base principi di logica e
    non-contraddizione: piaccia o meno «idem non potest simul esse et non esse sub eodem respectu».
    Insomma è difficile dare torto ai «tradizionalisti», perchè effettivamente in gran parte del corpo ecclesiale si è realizzata la profezia di Paolo VI.
    Era l’8 settembre del 1977 e Papa Montini - Montini dico, non Lefebvre! - sconsolato così si confidava all’amico Jean Guitton: «C’è un grande turbamento in questo momento nel mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la Fede. Capita ora che mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di San Luca: ‘Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?’. Capita che escano dei libri in cui la fede è in ritirata su punti importanti, che gli episcopati tacciano, che non si trovino strani questi libri. [...] Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia».

    In effetti il tema della Verità è centrale, esso rappresenta il nucleo della Fede cattolica.
    Nel clima di «pax religiosa» inaugurata dallo «spirito di Assisi» quanti risponderebbero che per esempio, pur con tutto il rispetto verso tradizioni spirituali antichissime e pur riconoscendosi che in esse talvolta è presente qualche barlume di verità, la verità essenziale dell’induismo per un cristiano è quella di essere una «falsa religione»?
    Quanti sarebbero disposti ad affermare che questa essenza sta nello stabilire se Gesù di Nazareth è il Messia atteso da Isreale o un Avatara, se Dio è l’energia del Brahaman o un Dio personale, se la Trinità è o meno la stessa cosa della Trimurti, se la vita dell’uomo è unica ed irripetibile o è destinata a riprodursi in molteplici esistenze fino a che non troverà la via della dissoluzione nel Brahaman, se il cosmo e quindi noi tutti facciamo parte di una dimensione reale o siamo solo un immenso gioco di nomi e forme, se infine ci attende una Salvezza o una Liberazione.
    Poi è possibile parlare con tutti i brahmini del mondo, ma senza confusioni e senza infingimenti: il loro dio non è il Dio cristiano e cattolico.
    E non lo è neppure quello dell’Islam: non è sufficiente essere monoteisti.
    E non lo è neppure il dio giudaico, giacchè il giudaismo ha rifiutato precisamente il Logos di Dio, cioè il Suo Figlio, Gesù di Nazareth.
    Per non parlare del buddismo, dell’animismo e di ogni altra forma evoluta o primitiva di spiritualità.
    Quanto alle fedi cristiane: Lutero o Huss furono o no eretici?
    L’autocefalia delle Chiese ortodosse è scisma o no?
    E, pur nella loro meravigliosa spiritualità, gli ortodossi sbagliano a ritenere che lo Spirito Santo non procede dal Padre e dal Figlio?

    A noi per secoli hanno insegnato di sì e questo è quello che perfino io ho imparato a memoria nel catechismo di San Pio X: «La Chiesa cattolica è infallibile, epperò quelli che rifiutano le sue definizioni perdono la fede e diventano eretici.
    Si trovano fuori della vera Chiesa gli infedeli, gli ebrei, gli eretici, gli apostati, gli scismatici e gli scomunicati.
    Gl’infedeli sono quelli che non hanno il Battesimo e non credono in Gesù Cristo; sia perché credono e adorano false divinità, come gl’idolatri; sia perché pure ammettendo l’unico vero Dio, non credono in Cristo Messia; né come venuto nella persona di Gesù Cristo, né come venturo, tali sono i maomettani ed altri somiglianti.
    Gli ebrei sono quelli che professano la legge di Mosè; non hanno ricevuto il battesimo e non credono in Gesù Cristo.
    Gli eretici sono i battezzati che ricusano con pertinacia di credere qualche verità rivelata da Dio e insegnata come di fede dalla Chiesa cattolica, per esempio gli ariani, i nestoriani, e le varie sette dei protestanti.
    Gli apostati sono coloro che abiurano, ossia rinnegano con atto esterno la fede cattolica, che prima professavano.
    Gli scismatici sono i cristiani che, non negando esplicitamente alcun domma, si separano volontariamente dalla Chiesa di Gesù Cristo, ossia dai legittimi pastori.
    Gli scomunicati sono quelli che per mancanze gravissime vengono colpiti di scomunica dal Papa, o dal vescovo, e sono quindi, siccome indegni, separati dal corpo della Chiesa, la quale aspetta e desidera la loro conversione».

    Per secoli, tutti hanno capito, talvolta - lo ammetto - fin troppo.

    Oggi, dichiarando che la Fede era divenuta invece incomprensibile, l’aggiornamento del modo di esporre i suoi contenuti sta portando a rendere nebulosi i dogmi, sicchè il relativismo trova ampi spazi di diffusione.
    Per esempio su questi temi il nuovo compendio catechistico è un testo per super-esperti, che espone alcune verità senza chiamare per nome nessuno.
    Il tema della verità di Fede è esposto al numero con questa domanda: «Che cosa implica l’affermazione di Dio: ‘lo sono il Signore Dio tuo’ (Esodo 20,2)?».
    Risposta: «Implica per il fedele di custodire e attuare le tre virtù teologali e di evitare i peccati che vi si oppongono. La fede crede in Dio e respinge ciò che le è contrario, come ad esempio, il dubbio volontario, l’incredulità, l’eresia, l’apostasia, lo scisma. La speranza attende fiduciosamente la beata visione di Dio e il suo aiuto, evitando la disperazione e la presunzione. La carità ama Dio al di sopra di tutto: vanno dunque respinte l’indifferenza, l’ingratitudine, la tiepidezza, l’accidia o indolenza spirituale, e l’odio di Dio, che nasce dall’orgoglio».
    Per sapere però cos’è il dubbio volontario, l’incredulità, l’eresia, l’apostasia, lo scisma occorre prendere in mano il Catechismo della Chiesa cattolica, un tomo di qualche centinaio di pagine che nessuno legge, sublime magari, ma - diciamolo - inaccessibile ai più, che dopo averla presa alla lontana ci spiega al paragrafo 2.088: «Il primo comandamento ci richiede di nutrire e custodire la nostra fede con prudenza e vigilanza e di respingere tutto ciò che le è contrario. Ci sono diversi modi di peccare contro la fede: il dubbio volontario circa la fede trascura o rifiuta di ritenere per vero ciò che Dio ha rivelato e che la Chiesa ci propone a credere. Il dubbio involontario indica l’esitazione a credere, la difficoltà nel superare le obiezioni legate alla fede, oppure anche l’ansia causata dalla sua oscurità. Se viene deliberatamente coltivato, il dubbio può condurre all’accecamento dello spirito».

    Poi prosegue al paragrafo 2.089: «L’incredulità è la noncuranza della verità rivelata o il rifiuto volontario di dare ad essa il proprio assenso. ‘Viene detta eresia l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il Battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti’».

    Provate voi a convincere la gente che si nutre di televisione e sms a leggere in «combinato disposto» paragrafi ed articoli del Catechismo e del suo compendio!
    Qui c’è posto solamente per dubbiosi ed increduli di varia gradazione, ma il cristiano medio dove li colloca concretamente infedeli, ebrei, mussulmani, seguaci di Sai Baba?
    Se questi ultimi ad esempio si mescolano anche ai cattolici, che diciamo?

    La confusione regna sovrana e ognuno può dire la sua.
    Per esempio - rileva Monsignor Fellay - proprio recentemente, a proposito della controversia sulla nuova preghiera per gli ebrei, rammenta che «i cardinali Kasper e Bertone hanno affermato che la Chiesa non li convertirà. Siamo alla confusione più totale e tutto, naturalemente, come conseguenza dell’aggiornamento che voleva rendere la Fede più comprensibile. Quanto ai mussulmani non è infrequente sentir dire da diaconi, sacerdoti, esponenti dei circoli ecumenici ed interreligiosi o tra le inarrestabili marciatrici della pace sulla tratta Perugia-Assisi che essi sono figli della «religione del libro». E tu prova a spiegare loro che perfino il nuovo catechismo chiarisce al paragrafo 108 che «la fede cristiana tuttavia non è una ‘religione del Libro’. Il cristianesimo è la religione della ‘Parola’ di Dio: di una Parola cioè che non è ‘una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente’. Perché le parole dei Libri Sacri non restino lettera morta, è necessario che Cristo, Parola eterna del Dio vivente, per mezzo dello Spirito Santo ce ne sveli il significato affinché comprendiamo le Scritture»!

    Qualcuno dirà che non è colpa della Chiesa se i cattolici sono ignoranti.
    Verissimo, ma diciamo anche ad esempio che se il Catechismo anziché usare il termine «libri sacri» avesse detto «libri dell’Antico Testamento» avrebbe tolto ogni dubbio circa il fatto che ci rientrino anche i Veda e le Upanishad o il Canone buddista, come qualcuno ha potuto interpretare.
    Quando si dice l’aggiornamento…

    Dunque occorre che si torni a fare chiarezza.
    Io credo che questo Papa abbia intrapreso la via giusta.
    Ma capisco altresì perché da Ecône si precisi che «senza disperare, senza impazienza, noi constatiamo che i tempi per un accordo non sono ancora venuti… sarebbe molto imprudente e precipitoso lanciarsi sconsideratamente nel perseguimento di un accordo pratico che non sarebbe fondato sui princìpi fondamentali della Chiesa, e specialmente sulla Fede».

    Tuttavia proprio Jesus riporta una intervista col cardinale Dario Castrillon Hoyos, colombiano, 79 anni e dal 2000 presidente della Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», ove egli dice: «Ci sono segnali positivi, c’è un dialogo non interrotto. Ancora qualche giorno fa ho scritto una nuova lettera a monsignor Fellay, superiore della Fraternità, come risposta a una sua precedente. Oltre agli incontri e alla corrispondenza, ci sentiamo anche al telefono».
    Poi una precisazione importante ed ulteriore: «Ritengo viabile la riconciliazione con la Fraternità San Pio X perché, come spesso abbiamo detto a ‘Ecclesia Dei’, non si tratta di un vero scisma ma di una situazione anomala nata dopo l’‘azione scismatica’ di monsignor Lefebvre nel conferire l’episcopato senza mandato pontificio, anzi contro la volontà espressa del Papa. Nel mio cuore ho la grande fiducia che il Santo Padre riuscirà a ricucire il tessuto della Chiesa con l’arrivo di questi fratelli alla piena comunione. Rimarranno sempre alcune differenze, come sempre abbiamo avuto nella storia della Chiesa».

    Ecco, ma noi che possiamo fare?
    I cattolici della fraternità San Pio X chiamano ad una «crociata del Rosario», chiedendo che «ognuno s’impegni a recitare il Rosario con regolarità in una precisa ora del giorno; visto il numero dei nostri fedeli e la loro distribuzione nel mondo intero - precisa monsignor Fellay - possiamo stare certi che tutte le ore del giorno e della notte avranno le loro voci vigilanti e oranti, voci che vogliono il trionfo della loro Madre celeste, l’avvento del Regno di Nostro Signore ‘come in cielo così in terra’».

    Nell’unirmi a questa esortazione voglio non si dimentichi che quanto è accaduto, accade ed accadrà nella Chiesa ha innanzitutto una valenza soprannaturale.
    La Chiesa sarà sempre perseguitata.
    Non dobbiamo meravigliarci che sia così.
    Questa persecuzione è stata annunciata da Gesù: «Ricordate la parola che io vi dissi: ‘Non c’è servo più grande del suo padrone’. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Giovanni 15,20).
    Il Beato Pio IX soggiungeva che, alle tradizionali note della Chiesa, «una, santa, cattolica e apostolica», ne manca una: «e perseguitata».
    Ora questa persecuzione non è essenzialmente opera delle potenze terrene, ma di quelle ultraterrene, non di quelle storiche e naturali, ma di quelle soprannaturali.
    Alle forze soprannaturali ci si oppone con armi soprannaturali: tra queste in primo luogo la santa Messa.
    L’abolizione del Sacrificio è il viatico all’irruzione delle forze del Male.
    Chi si oppone al ritorno del Vetus Ordo vuole sempre più eliminare dalla Messa celebrata con il Novus Ordo l’idea di sacrificio e, volente o nolente, fa il gioco dell’Avversario.
    L’attualizzazione nella Messa dell’Eterno sacrificio della Croce è la continuazione dell’opera redentrice di Cristo, che ha sconfitto il peccato e la morte.
    Come è scritto nella Sacra Scrittura: «senza effusione di sangue non v’è remissione».

    Questo concetto è rifiutato da molta della teologia attuale, che ha sposato Lutero contro il Concilio di Trento.
    Pervertendo la nozione stessa della bontà infinita di Dio, si respinge l’idea che prima della venuta di Cristo occorreva offrire dei sacrifici cruenti per placare la Sua collera, e cioè per soddisfare la sua giustizia dopo il peccato originale.
    E si respinge altresì l’idea che Gesù Cristo non ha voluto sottrarsi a questa legge.
    Viene addirittura considerata come empia la dottrina cattolica tradizionale secondo cui nell’incarnazione, la santa Trinità ha decretato che il Figlio di Dio versasse il suo sangue per espiare i nostri peccati: sacrificio espiatorio come nell’antica legge, ma dove al posto del sangue dei capri e delle pecore ci sta il sangue di un Agnello Immacolato, il Cristo, con un valore infinito agli occhi di Dio: l’unico sacrificio di Redenzione.
    Indubbiamente, oggi Gesù Cristo nella Messa non può più soffrire, e propriamente parlando non può più espiare, ma egli offre un sacrificio propiziatorio che placa la giustizia divina e che ci rende nuovamente propizi a Dio, per mezzo dell’applicazione delle soddisfazioni e dei meriti del Calvario, che vengono nuovamente presentati a Dio per mezzo della Vittima presente sull’altare sotto le apparenze del pane e del vino.
    Il Motu proprio serva a tutti per recuperare il senso più profondo della Messa ed armi tutti, insieme con la Preghiera, nella battaglia contro Satana ed i suoi demoni.
    Ma perchè questa lotta?

    Perché la nostra natura indebolita dal peccato originale ci rende inclini al male e soggetti alla tentazione, dunque all’azione del maligno.
    Scrive il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo 407: «In conseguenza del peccato dei progenitori, il diavolo ha acquisito un certo dominio sull’uomo, benché questi rimanga libero. Il peccato originale comporta ‘la schiavitù sotto il dominio di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo’. Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi».
    E prosegue al paragrafo 409: «La drammatica condizione del mondo che ‘giace’ tutto ‘sotto il potere del maligno’ (1 Giovanni 5,19) fa della vita dell’uomo una lotta: ‘Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio’».

    Per questo compito i cristiani devono essere ben rivestiti dell’armatura di Dio: «State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti della corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete dunque in mano lo scudo della fede, con il quale potete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,14-18).
    Per poter fare ciò, occorre ridare la Messa alle ànime, la Messa intesa come sacrificio espiatorio, sacrificio soddisfattorio, sacrificio propiziatorio.
    Solo con la Santa Messa, solo dall’altare è possibile ricostruire le coscienze di cattolici fedeli che vivano in stato di Grazia.
    Solo dalla Grazia ricevuta ed accolta è possibile pensare di re-incoronare Nostro Signore Gesù Cristo, ed attuare quaggiù la preghiera che Egli ci ha insegnato: «Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra».

    Seguiamo l’esempio di Bologna.
    Mobilitiamoci in ogni diocesi, raccogliamo delle firme e chiediamo che ovunque sia concessa una Chiesa ove tornare a celebrare la Messa antica.
    Andiamoci con devozione e partecipazione.
    Perseveriamo.
    Non limitiamoci ad imprecare contro il buio: accendiamo mille luci nella notte.
    Il Signore farà il resto.

    Domenico Savino

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