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Discussione: Unione Latina

  1. #21
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    La storia delle lingue romanze e neolatine è una balla come quella che il sole girava intorno alla terra.
    Per secoli questa è stata la teoria dominante, per pura ignoranza e più tardi per dogmatismo ideologico.

    TC = TEORIA DELLA CONTINUITA'
    Da: Origini delle lingue d’Europa, di Mario Alinei
    II volume, da pagina 577

    Capitolo quattordicesimo
    L'area «italide»: introduzione
    Veniamo ora all'ultimo tassello del nostro puzzle, che è anche quello che studieremo più dettagliatamente: l'area «italide».

    1. Limiti della teoria della romanizzazione
    Come ho spiegato in OR1, la teoria tradizionale pone tutte le lingue e i dialetti «romanzi» in una relazione genetica (cioè di madre verso figli) con il “Latino di Roma”, che la “romanizzazione” avrebbe introdotto in tutta l'area, detta appunto romanza.
    L'imperialismo romano viene visto come l'unico motore del processo che avrebbe imposto il Latino come lingua dominante nelle diverse aree dell'Impero.

    E questo Latino dominante non sarebbe il Latino classico della letteratura latina, e neanche la lingua parlata nella Roma delle origini, all'inizio del I millennio a.C., ma il Latino cosiddetto «volgare», identificato col Latino parlato dal popolo di epoca imperiale, nei primi secoli della nostra era.
    L'identificazione di una variante socialmente marcata del Latino come antenata delle parlate moderne è una delle più importanti conquiste della romanistica, ed è interessante notare come questa innovazione non sia stata ancora assimilata dalle discipline sorelle, per la ricostruzione dei processi genetici di altri gruppi linguistici.
    Per questi, la documentazione scritta - nonostante il suo carattere obbligatoriamente elitario - è tuttora considerata l'unica valida.

    Tuttavia, anche volendo restare nel quadro tradizionale, la datazione della lingua poi denominata “Latino volgare” alla società latina tardo-imperiale è del tutto arbitraria.

    Roma, come qualunque altro nucleo protourbano all'inizio dell'età del Ferro, nella prima metà del I millennio a.C., non poteva essere che il coronamento di un processo millenario.
    Gordon Childe considerava l'urbanesimo come uno dei tratti fondamentali di quello stadio «civile» che nella tripartizione delle età preistoriche seguiva quello «selvaggio» del Paleolitico e quello «barbaro» del Neolitico (cfr. OR1), e che oggi si preferisce chiamare «delle società stratificate».
    In effetti, l'urbanesimo è la conseguenza stessa della stratificazione sociale giunta a maturità, in quanto la città rappresenta il locus prescelto dalle élites per il loro dominio sui ceti chiamati a coesistere con loro in condizioni di subordinazione.

    La preesistenza di un antica lingua unitaria (che poi corrisponde a ciò che è stato chiamato Latino), e l'esistenza di diverse varietà di “lingua volgare” (poi chiamata “Latino volgare”) sono quindi presupposti per la stessa fondazione della città di Roma.
    Inoltre, queste considerazioni permettono di proiettare non solo sulla Roma delle origini, ma su ognuno di quei nuclei urbani che emergono, nel Lazio e nell'Italia del Ferro in genere, un gruppo dominante con una propria norma linguistica elitaria, accanto a gruppi subordinati con un proprio substandard.

    Proprio come molto più tardi, nell'Italia medievale, e anche all'interno di una sola regione come la Toscana, si assiste alla lotta di diverse norme elitarie (chiamate «lingue volgari», questa volta, in opposizione al Latino), riflesso della concorrenza fra ceti emergenti delle diverse regioni e delle diverse città di una stessa regione.
    E come la vittoria del Fiorentino sulle altre norme riflette la supremazia fiorentina nella Toscana e nell'Italia del Duecento e Trecento, così quella del Latino di Roma riflette la supremazia di Roma nell'Italia dell’età del Ferro.
    Per cui, la sovrapposizione della stratificazione sociale a un preesistente quadro di differenziazione linguistica doveva aver determinato da tempo non «una» lingua volgare (poi chiamata Latino volgare”), ma «un insieme» di “Latini volgari”, in tutte quelle cittadine dell'Italia mediana in cui il ceto dominante romano si era sovrapposto a parlate più o meno affini.

    Nonostante Giacomo Devoto, in quello che chiamerei il suo «manifesto» postumo, scritto dopo lo «scossone miceneo» [Devoto 1978, cfr. OR1, cap. III] , avesse implicitamente ammesso la stessa cosa, sostenendo la tesi che «le varietà indeuropee confluite in Italia sono "infinite"» [ibidem, 478], la linguistica storica tradizionale continua imperturbabile nel suo rifiuto di fare i conti con la nuova realtà.
    Devoto, più di vent'anni fa, aveva parlato di una linguistica che «sonnecchiava», e di «immobilismo tradizionale».

    Che cosa si dovrebbe dire oggi?
    Da un lato si afferma unanimamente che «la romanizzazione è partita dal basso» [Pisani 1978, 57], senza peraltro offrire alcuna prova, che non sia linguistica – e quindi circolare –, di un'affermazione in così stridente contrasto con la realtà della colonizzazione romana.
    Dall'altro, gli studiosi più acuti e più cauti sostengono che «una linguistica della romanizzazione è in buona parte ancora da fare» [Prosdocimi, cit. in Vignuzzi e Avolio 1993, 639], e che «continuano a sfuggirci le modalità, diverse nelle singole zone, con cui il latino è riuscito nel tempo - e per di più in assenza di una vera e propria politica linguistica - ad imporsi come idioma d'uso quotidiano in un territorio molto vasto, e ad essere parlato di generazione in generazione fino ad oggi» [ibidem] .
    In realtà, nell'ottica della TC non si può assolutamente escludere che il Latino della romanizzazione sia individuabile soltanto, o prevalentemente, nel cosiddetto lessico di tradizione dotta, e che il cosiddetto Latino volgare, ben lungi dall'essere stato introdotto dai Romani «dal basso», sia invece la continuazione delle diverse varianti del gruppo italide, da sempre parlate nell'area.

    Ma anche senza questa ipotesi «forte», che naturalmente richiede ben altre ricerche, è indubbio che la teoria tradizionale erri, quando vede soltanto Roma, e ignora le influenze che le norme linguistiche delle altre città dell'Italia del Ferro possono avere avuto sul Latino, sia scritto che parlato.
    Erra anche quando vede una sola lingua (poi denominata “Latino volgare”), mentre ce ne saranno stati altri nella stessa Roma, oltre a una grande quantità in tutti i centri minori e nelle campagne.
    Erra, in terzo luogo, quando vede, anche limitatamente al Latino, soltanto una diffusione del Latino, quella della romanizzazione, mentre ce ne sono state certamente molte altre precedenti, legate al processo di formazione, crescita e diffusione del nuovo ceto dominante destinato a gestire Roma.
    Ed erra infine quando considera il processo di differenziazione delle lingue e dei dialetti romanzi come posteriore alla romanizzazione, e fa coincidere il suo inizio, grosso modo, con il V secolo d.C., quando finisce l'Impero, si sfaldano le strutture della società latina, e alla vecchia classe dominante latina si sostituiscono i nuovi gruppi invasori germanici.
    Di nuovo, il mito dell'invasione!
    Da Wartburg in poi, il modello teorico per la spiegazione della formazione dei dialetti romanzi parte da un Latino volgare monolitico, cui le invasioni avrebbero dato un colpo mortale, e procede in modo meccanicistico a quella che viene chiamata la sua frammentazione.
    Questo processo sarebbe avvenuto durante il Medio Evo, e soprattutto nei «secoli bui» dell'alto Medio Evo, quando il «buio» permette di immaginare qualunque cosa, anche la più inverosimile.
    Si tratta di un modello insostenibile, anche nel quadro tradizionale, come ho già mostrato in OR1, con l'illustrazione della TC che ho chiamato «minima», e del principio che ho chiamato «proiezione micenea».
    Anche nel quadro tradizionale, insomma, accanto al processo di romanizzazione, e indipendentemente dalla presenza e continuità di altri linguemi italidi nell'area nord-mediterranea, occorre tener presente la realtà della “l a t i n i z z a z i o n e”, come processo preistorico e protostorico, che ancora prima della fondazione di Roma porta il Latino ad affermarsi gradualmente come norma linguistica di un nuovo ceto elitario nell'Italia mediana, in concorrenza con altre norme elitarie, e in sincronia, anche se a uno stadio più primitivo, con quanto avviene per il Greco miceneo nel II millennio a.C.
    Occorre cioè vedere la stessa fondazione di Roma all'inizio dell'età del Ferro, piuttosto che come un inizio, come un punto di arrivo, cioè come lo sbocco di un processo di formazione, che anche nell'insostenibile cronologia e nell'inaccettabile scenario tradizionale dovrebbe pur iniziare con il supposto «arrivo», nell'età del Rame, dei Protoitalici, identificati dalla teoria tradizionale nei pastori guerrieri di Remedello e di Rinaldone. Fra il III: millennio e il I, insomma, perché un'élite possa porsi il programma di costruire e gestire a proprio vantaggio un centro urbano come Roma, occorre che essa abbia prima conquistato posizioni di dominio anche rispetto ad altri ceti dominanti, affini o no, dai quali avrà anche ricevuto, nel corso di questo processo, notevoli influenze culturali e linguistiche.
    Anche nello scenario tradizionale, voglio dire, la lingua detta "Latino" non può essere solo la lingua di Roma, ma dev'essere anche la lingua di coloro che poi furono denominati "Latini" che non avevano ancora fondato Roma.
    Non vi è dunque nessuna ragione, che non riposi sul preconcetto, sul dogma o sul «sonno della ragione», che impedisca di collegare i processi di sviluppo linguistico parallelo delle parlate neolatine.
    Roma è un capitolo, non l'inizio, di questa storia.

    Nella TC questa storia si allunga, ma essa dovrebbe esistere, sia pure in un orizzonte più limitato, anche nel quadro tradizionale, mentre viene semplicemente ignorata.

    ......................



    (da pag. 581 a pag. 585)
    2. Le due innovazioni della TC per il gruppo italide: innalzamento della cronologia, estensione dell'area
    Oltre all'innalzamento della cronologia, su cui non ho bisogno di tornare, la principale novità nei riguardi dell'etnogenesi italide - che la TC condivide con la teoria di Renfrew - è che il gruppo che ho chiamato italide non può più essere limitato alla sola Italia, ma dev'essere esteso a tutto il bacino nord-mediterraneo, dalle sponde atlantiche della penisola iberica a quelle dell'Adriatico orientale.
    Sia per la TC che per la teoria di Renfrew, la ragione di questa estensione sta nella necessità di far convergere l'unità culturale espressa dalla grande cultura neolitica della Ceramica Impressa/ Cardiale (v fig. 2.2 a p. 62) con l'unico gruppo linguistico che doveva trovarsi nell'area, assumendo una sua continuità per lo meno dal Neolitico.
    In effetti, sia la rapida espansione di questa grande cultura ad occidente, sia la sua sostanziale differenza dall'altrettanto grande, e più antica, cultura neolitica balcanica, indicano che nell'area costiera nord-mediterranea centro-occidentale doveva esistere un notevole grado di affinità linguistica, e cioè che in Iberia e Francia meridionale si parlavano linguemi affini al Latino e alle lingue italiche.
    Come vedremo, questa tesi era stata già suggerita da altri studiosi inglesi molto prima di Renfrew.
    Inoltre, nella TC, che non ammette invasioni di massa e sostituzioni linguistiche neanche nel Neolitico, e assume una continuità di fondo più remota, a questa fondamentale convergenza areale si aggiunge quella con la cultura del Paleolitico finale - fra 24000 e 10000 a.C. ca. - detta Epigravettiano o Tardogravettiano (v. fig. 14.1), e con le culture mesolitiche che le seguono, anch'esse omogenee, che menzionerò più oltre.
    L'omogeneità linguistica romanza dell'area nord-mediterranea, dall'Atlantico all'Adriatico orientale, verrebbe quindi prefigurata da questa molto più antica unità culturale, paleo-, meso- e neolitica (quindi non più romana).
    Rispetto alla visione tradizionale, dunque, l'unità dell'area detta “romanza” non solo non potrebbe essere il risultato esclusivo della romanizzazione dell'area, ma non lo sarebbe neanche della precedente latinizzazione, in quanto deriverebbe dalla fondamentale unità etnolinguistica di un gruppo differenziato del phylum IE, comprensivo del Latino e dell' Italico (di qui in poi sempre in senso stretto), che si era insediato nell'area fin dall'Epigravettiano, se non da prima (le lingue neolatine o romanze non derivano più dal latino di Roma, ma sono ad esso parallele).
    Non sarebbe più vero che il Latino di Roma, per ragioni che sono sempre state lasciate al caso o all'immaginazione, si è imposto solo nelle aree più fortemente acculturate - che poi avrebbero formato la «Romania» linguistica - mentre nelle altre aree dell'Impero romano, meno profondamente acculturate, sarebbe stato sommerso dalle lingue autoctone.
    Più semplicemente, la romanizzazione avrebbe lasciato le proprie tracce solo là dove i linguemi precedenti erano già affini al Latino, mentre non avrebbe avuto conseguenze linguistiche rilevanti - salvo l'introduzione di prestiti - nelle aree in cui i linguemi autoctoni erano di ceppo diverso (Germanico, Celtico, Slavo, Illirico).
    Si noti che anche il modello di Renfrew, che identifica il gruppo italico e un «gruppo iberico IE» non meglio identificato con la cultura della Ceramica Impressa/Cardiale, ha le stesse implicazioni.

    2.1. Problemi di terminologia: «romanzo» e «italico»
    E quindi evidente che nella TC non è più possibile usare il termine romanzo per indicare il gruppo di linguemi attualmente parlati nel bacino nord-mediterraneo, né italico per indicare il suo antenato IE.
    Romanzo (o neolatino), nella TC, può designare a rigore soltanto sviluppi e fenomeni successivi alla romanizzazione di epoca imperiale, quindi tardo-imperiali, alto e basso-medievali e moderni.
    Naturalmente, questo processo conserva una grande importanza anche per la TC, ma non sarebbe più quello che introduce il Latino in queste aree, bensì quello che lo reintroduce, o per meglio dire introduce una nuova variante di Latino (intendendo per Latino le lingue prima di quella di Roma, e anche per questo termine sarebbe il caso di trovarne uno più adatto, onde non confonderlo con il Latino propriamente detto che è tradizionalmente quello di Roma) nelle aree dove da sempre se ne parlava un'altra, o si parlava un linguema ad esso più o meno affine come il Falisco, l'Italico, il Venetico, e i molti altri linguemi ignoti che non sono stati mai fissati in una forma scritta, ma che possiamo postulare sulla base delle lingue e dei dialetti odierni.
    Nella TC quel capitolo della romanistica tradizionale che ha a che fare con le «origini» passerebbe in secondo piano - perché non riguarderebbe più le origini - mentre le vere origini - di linguemi non più romanzi - verrebbero collegate con la preistoria e la protostoria dell'area nord-mediterranea, e quindi con vicende che la linguistica romanza non ha mai considerato oggetto del proprio studio.
    Per questo nuovo oggetto di studi, la romanistica dovrebbe collegarsi strettamente all'archeologia, acquistare una visione interdisciplinare, ed entro certi limiti diventare anche indoeuropeistica.
    Per il Latino stesso, poi, la TC dovrebbe non solo distinguere, più rigorosamente di quanto non faccia la linguistica tradizionale, fra «Latino classico» nel senso di lingua scritta elitaria, e «Latino parlato», le cui varietà di tipo regionale e/o sociale saranno state pressoché illimitate; ma dovrebbe anche postulare stadi e varietà geograficamente e cronologicamente differenziati di un “Latino preromano” (cioè anteriore alla fondazione di Roma e alla formazione del ceto elitario latino), coesistenti con varietà e stadi paralleli dell'Italico, del Venetico e delle altre lingue IE dell'Italia antica, che noi conosciamo solo nelle loro forme di koinai scritte.
    Nello scenario della TC, insomma, Latino, Italico, Venetico, Falisco e lingue affini precederebbero non solo la romanizzazione, ma anche la nascita stessa di Roma, e di millenni.
    Inoltre, è del tutto evidente che le lingue scritte non possono rappresentare l'insieme dei linguemi esistenti, ma rappresentano solo quei gruppi elitari più potenti e capaci, o più fortunati, che hanno raggiunto stadi più avanzati di organizzazione sociale, e hanno quindi avuto anche bisogno di uno strumento formale come la lingua scritta per consacrare formalmente le loro proprietà economiche e il loro potere politico.
    Tutti i gruppi elitari minori, le ancora più numerose comunità e vaste popolazioni subordinate, e quelle in cui i gruppi elitari non si erano formati adeguatamente, ci restano (a tutt'oggi) necessariamente sconosciuti.
    Per quanto riguarda il termine italico, occorre anzitutto ricordare che gli studiosi italiani di solito si oppongono al suo uso per indicare il superordinato del Latino, in quanto considerano - del tutto giustamente - Latino e Italico rami paralleli di uno stesso ceppo, e l'uso di Italico come termine superordinato del gruppo del tutto fuorviante.
    Purtroppo - ed è curioso - non è stato mai proposto, se non en passant, un termine alternativo a quello tradizionale, e a mia conoscenza non esiste manuale di indoeuropeistica, anche italiano, che non faccia uso di italico in questo duplice senso.
    Anche i curatori di un recente manuale sulle lingue indoeuropee pubblicato in Italia, Anna Giacalone Ramat e Paolo Ramat, pur proponendo, in omaggio alla prassi italiana, un capitolo sul Latino distinto da quello sulle lingue italiche, non sono intervenuti sul saggio di Watkins che riguarda il proto-indoeuropeo, il cui elenco canonico di lingue indoeuropee comprende l'«Italico».
    E anche un innovatore italiano come Pisani, che ha proposto la nozione di «lega linguistica italica» [Pisani 1978, 39 ss.] , più flessibile di quella tradizionale dal punto di vista genetico, ha finito con l'usare lo stesso termine, pur «senza alcun addentellato con l'uso ora corrente» [ibidem].
    Solo Devoto - e proprio nell'articolo-«manifesto» sopra ricordato - aveva suggerito il termine di italoide, riprendendolo da un articolo di Lejeune (che lo aveva riferito ai tratti dell'Elimo, vicini a quelli delle lingue italiche [Lejeune 1969D: «le varietà indeuropee confluite in Italia sono "infinite", e al massimo raggruppabili in un sistema "italoide"» [Devoto 1978, 478].
    Questa, tuttavia, non è la ragione per cui italico non risulta più termine adeguato nell'ambito della TC per designare il gruppo linguistico antenato del Latino e delle altre lingue affini dell'Italia antica. La ragione è che questo ter-mine implica necessariamente una diffusione areale limitata all'Italia.
    Per la TC, invece, l'area di diffusione paleo-, meso- e neolitica del gruppo in questione è quella nord-mediterranea, che si estende dalla costa atlantica all'Adriatico orientale.
    Di conseguenza, l'introduzione di un nuovo termine mi è sembrata inevitabile.
    Ho esitato molto prima di fermarmi - non senza riserve - sul termine Italide. Avevo prima considerato un termine etnicamente «vuoto» come Ibero-Dalmatico, motivato geograficamente e analogo a quelli in uso per molti phyla e gruppi; o un termine come Para-Italico, che avrebbe sottolineato che le lingue affini del gruppo erano al di fuori dell'Italia antica; o termini più scientifici del tipo Italide e Italoide.
    Ho finito con adottare Italide - concordando in questa scelta con un suggerimento di Alessandro Parenti - perché mi sembrava che questo termine indipendentemente dal nuovo quadro della TC potesse comunque prestarsi a designare il superordinato del Latino e dell'Italico, e colmare così la lamentata «casella vuota» terminologica.
    Idealmente, la mia proposta sarebbe di introdurre Italoide per il nuovo gruppo ibero-daImatico -- destinato a restare per sempre sfumato -- e Italide per il superordinato italiano di Italico e Latino.
    Per non appesantire l'illustrazione, ho inteso usare Italide, e intendo usarlo nel prosieguo, sia come superordinato tradizionale che come riferimento al nuovo gruppo.

    Note mie:
    molti sono i termini in uso che dovranno essere modificati e non solo romanzo;
    ed altri nuovi dovranno soppiantare i vecchi onde non ingenerare equivoci e confusioni: uno di questi è la denominazione delle lingue prelatine che hanno generato il latino di Roma, che gioco forza non potranno più essere denominate Latino preromano.
    E tutto per necessità di chiarezza come nel caso i termini italide e italoide.
    Alcune delle frasi tra parentesi e in neretto, nel testo dell'Alinei, sono chiarificazioni da me introdotte.

  2. #22
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    La mia capitale è Venezia non roma.
    Mi a so veneto e no tajan, roman o padan.
    W S. MARCO!

  3. #23
    Alexander Iulius Parmenses
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    ci sarebbe ovviamente anche la continuità territoriale... credo che la confederazione elvetica abbia ottimi meccanismi decisionali.

  4. #24
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    Citazione Originariamente Scritto da No Man's Land Visualizza Messaggio
    Io preferirei un'Unione Mediterranea...
    Ci scapperei subito, no grazie!

  5. #25
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    Non ho ancora compreso a fondo il perchè di questa proposta di unione latina.

  6. #26
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    Citazione Originariamente Scritto da Paolo Sarpi II Visualizza Messaggio
    La storia delle lingue romanze e neolatine è una balla come quella che il sole girava intorno alla terra.
    Per secoli questa è stata la teoria dominante, per pura ignoranza e più tardi per dogmatismo ideologico.

    Alcune delle frasi tra parentesi e in neretto, nel testo dell'Alinei, sono chiarificazioni da me introdotte.
    A parte che per capirci meglio dovresti avere l'accortezza di postare solo il testo originale senza i tuoi commenti personali, mi chiedo dove vorresti arrivare con tutto questo.

  7. #27
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    UNIONE MEDITERRANEA, sì ... sarebbe bellissima.
    Ma che non sia ancorata alla lingua latina la quale non condraddistingue la regione etnicamente.
    L'Unione Mediterranea dovrebbe corrispondere grosso modo all'antico mondo ellenico.

  8. #28
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    Citazione Originariamente Scritto da uqbar Visualizza Messaggio
    UNIONE MEDITERRANEA, sì ... sarebbe bellissima.
    Ma che non sia ancorata alla lingua latina la quale non condraddistingue la regione etnicamente.
    L'Unione Mediterranea dovrebbe corrispondere grosso modo all'antico mondo ellenico.


    Uao! Sarebbe una scelta di assolutata utilità! Inoltre è tremendamente realizzabile. Caspita. Perchè non ci ho pensato prima! Un'union ellenica!



    Uqbar, ti rendi conto che siamo nel 2007 e che il mondo ellenico fa parte di una storia conclusa da circa 21 secoli? Ma questa è fantapolitica. Su, un po' di realismo!

  9. #29
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    Dio me ne scampi...

    Gradirei molto di più una riedizione dell' Austro Ungarico invece... Naturalmente comprendente anche l' Emilia

  10. #30
    la ricerca della bellezza nascosta
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    Citazione Originariamente Scritto da Lupus in Fabula Visualizza Messaggio


    Uao! Sarebbe una scelta di assolutata utilità! Inoltre è tremendamente realizzabile. Caspita. Perchè non ci ho pensato prima! Un'union ellenica!



    Uqbar, ti rendi conto che siamo nel 2007 e che il mondo ellenico fa parte di una storia conclusa da circa 21 secoli? Ma questa è fantapolitica. Su, un po' di realismo!
    Se leggi meglio ho detto che l'unione mediterranea dovrebbe corrispondere grosso modo alle regioni che un tempo facevano parte del mondo ellenico. Non ho detto di riesumare o di realizzare remake della Magna Grecia.

    Se ti fai un giro tra le comunità della calabria o della puglia (non quelle urbane delle città ormai degradate - parlo delle realtà dei piccoli paesini interni ancora rimasti puliti e candidi) e poi vai nei paesini del peloponneso ad esempio, ti sorprenderai nel vedere tratti comuni importantissimi. Ma il discorso può essere esteso a gran parte del mediterraneo un tempo ellenico.

    Non si tratta di "ellenismo" ma di mondo mediterraneo comune.

 

 
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