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  1. #1
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    Predefinito Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    "Solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale" Marx-Engels

    Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Giancarlo de Vivo*


    Paul Samuelson alla morte di Keynes scrisse: “la Teoria Generale … è un libro scritto male, e male organizzato; qualunque non addetto ai lavori che l’abbia comperato ha sprecato i cinque scellini che ha speso … è arrogante, … abbonda in confusioni”, ma “quando alla fine uno lo capisce a fondo, la sua analisi risulta ovvia ed allo stesso tempo nuova. In breve, è un’opera di genio”. Come tale, possiamo aggiungere, rimane largamente misteriosa a molti economisti.

    La pesante crisi in cui siamo immersi ha riportato alla ribalta il pensiero di Keynes, che fino all’altro ieri era trattato come un cane morto dagli economisti benpensanti. Perfino un membro del board della Banca Centrale Europea, organismo anti-keynesiano per costituzione, ha scritto che in certi casi non aver ascoltato Keynes ha dato “risultati disastrosi” (L. Bini-Smaghi, Il Sole-24 Ore, 25 febbraio). Qualche giorno dopo R. Perotti ha sostenuto (Il Sole-24 Ore, 28 febbraio) che Keynes era “uno dei grandi geni del XX secolo”. Secondo lui il grande contributo di Keynes sarebbe stato quello di “evidenziare il ruolo della spesa pubblica come strumento anticiclico”. Ma se questo fosse vero il contributo non sarebbe molto sostanzioso, e comunque nient’affatto originale: quasi 25 anni prima di Keynes, Pigou (oggetto degli strali di Keynes nella Teoria Generale) in un libro sulla disoccupazione aveva sostenuto che la spesa pubblica poteva essere efficacemente usata in funzione anti-ciclica.

    Perotti potrà liquidare questa osservazione come mera manifestazione di quelle preoccupazioni filologiche dei “keynesiani tradizionali” cui irride nel suo articolo, ma resta il fatto che c’è qualcosa che non quadra nelle sue idee su Keynes. Sarà poi per la mia difettosa conoscenza degli “sviluppi della ricerca economica”, ma mi sembrava che Perotti avesse costruito una parte della sua carriera accademica sostenendo la tesi che riduzioni della spesa pubblica fanno aumentare la domanda e quindi l’occupazione – il contrario del “geniale” contributo di Keynes.

    Comunque, anche se Keynes era un genio, ci si dice, i suoi “nipotini” sarebbero degli sprovveduti (se non anche disonesti), che appunto ignorano “gli sviluppi della ricerca economica”, “hanno un’interpretazione selettiva della storia” (immagino voglia dire che fanno un uso selettivo della storia), e “non si confrontano con i dati”.

    Per quanto riguarda gli “sviluppi” della ricerca economica, il problema è serio, ma forse non nel senso che sostiene Perotti. Ad esempio una parte non piccola degli “sviluppi” in macroeconomia negli ultimi decenni è consistita nella elaborazione e rielaborazione e sofisticazione di “modelli” basati sull’ipotesi di “agente rappresentativo”, escludendo quindi che mutamenti della distribuzione del reddito potessero essere rilevanti nell’equilibrio macroeconomico. Lo studio e l’uso di modelli di questo genere è stato per molto tempo considerato parte importante del mestiere di un economista “serio”, e con essi si sono vinte fior di cattedre di economia. Ci sono però economisti che non si sono mai dedicati a queste robinsonate, e le hanno ignorate. Finora essi erano a loro volta tranquil*lamente ignorati da una larga fetta della professione, che invece oggi sembra tradire qualche turbamento.

    Sull’uso selettivo della storia da parte dei “keynesiani tradizionali”, Perotti sostiene che essi, nel loro “livore” anti-liberista, colpevolmente dimenticherebbero ad esempio il caso del Cile del ventennio dopo Pinochet, in cui “politiche neoliberiste” avrebbero fatto passare il paese “dal sottosviluppo a un’economia moderna, facendo allo stesso tempo enormi progressi contro la povertà”. E’ curioso però che egli non menzioni che il sottosviluppo, l’enorme povertà, l’enorme aumento delle diseguaglianze, e l’altissimo tasso di disoccupazione del Cile nel periodo precedente dovevano molto alle “politiche neoliberiste” di cui il Cile di Pinochet è stato un laboratorio. Forse l’uso selettivo della storia è più diffuso di quanto Perotti non si sia accorto.

    I “keynesiani tradizionali” quasi mai, ci si dice, si “confrontano con i dati”, quello che saprebbero opporre ad analisi dei dati sarebbero solo “complicate digressioni filosofico-moraleggianti sulle supposte motivazioni ideologiche e mancanze etiche dei presunti oppositori”. Non è chiaro cosa esattamente Perotti intenda. Se per esempio si è appena richiamata l’esperienza del Cile di Pinochet non è per moraleggiare (anche se certo fa orrore il commercio avuto da Friedman e i Chicago Boys con Pinochet), ma appunto per ricordare i dati di quell’esperienza (che in fondo non sono che la rappresentazione economica di quell’orrore). Quanto all’uso (o mancato uso) dei dati: gli economisti keynesiani non hanno aspettato la crisi del 2008 per richiamare l’attenzione sui problemi posti dall’indebitamento privato, e sulla sua insostenibilità, una questione di cui i giovani leoni del*l’economia erano spensieratamente inconsapevoli fino a ieri, nella loro ossessiva insistenza sui pericoli dell’indebitamento pubblico. La differenza tra gli economisti non passa tra quelli che si sporcano le mani sui dati e quelli che li ignorano, ma tra quelli che vedono i dati rilevanti e quelli che guardano allo svolazzare delle farfalle.

    *L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Napoli “Federico II”.
    Muntzer il Sopravvissuto

  2. #2
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    scusate la domanda penso un po' da ingenuo, ma Keynes e il comunismo sono compatibili e se sì, in che misura?

  3. #3
    Banda Müntzer-Epifanio
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Citazione Originariamente Scritto da MARIOK Visualizza Messaggio
    scusate la domanda penso un po' da ingenuo, ma Keynes e il comunismo sono compatibili e se sì, in che misura?
    Io posso risponderti dicendoti che Keynes fu sempre molto critico nei confronti di Marx e del marxismo. In una lettera a Sraffa (che gli aveva consigliato la lettura de Il Capitale) in cui Keynes dice testualmente: "Ho provato sinceramente a leggere i volumi di Marx, ma ti giuro che non sono proprio riuscito a capire cosa tu ci abbia trovato e cosa ti aspetti che ci trovi io! Non ho trovato neanche una sola frase che abbia un qualche interesse per un essere umano dotato di ragione. Per le prossime vacanze dovresti prestarmi una copia del libro sottolineata."
    Diversi storici del pensiero economico ritrovano in Keynes tuttavia alcune influenze di Marx ma visto il giudizio pesantemente critico del primo al secondo credo si tratti più che altro di punti di contatto non direttamente riconducibili ad una influenza marxiana in Keynes.

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Sandinista Visualizza Messaggio
    Io posso risponderti dicendoti che Keynes fu sempre molto critico nei confronti di Marx e del marxismo. In una lettera a Sraffa (che gli aveva consigliato la lettura de Il Capitale) in cui Keynes dice testualmente: "Ho provato sinceramente a leggere i volumi di Marx, ma ti giuro che non sono proprio riuscito a capire cosa tu ci abbia trovato e cosa ti aspetti che ci trovi io! Non ho trovato neanche una sola frase che abbia un qualche interesse per un essere umano dotato di ragione. Per le prossime vacanze dovresti prestarmi una copia del libro sottolineata."
    Diversi storici del pensiero economico ritrovano in Keynes tuttavia alcune influenze di Marx ma visto il giudizio pesantemente critico del primo al secondo credo si tratti più che altro di punti di contatto non direttamente riconducibili ad una influenza marxiana in Keynes.
    quindi si potrebbe dire che solo di recente alcune forze politiche e/o pensatori comunisti si sono avvicinati al pensiero keynesiano? Ma cosa ci hanno trovato, mi chiedo io, in uno che dà un giudizio così negativo, e per me sbagliato, del marxismo?

  5. #5
    Banda Müntzer-Epifanio
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    Citazione Originariamente Scritto da MARIOK Visualizza Messaggio
    quindi si potrebbe dire che solo di recente alcune forze politiche e/o pensatori comunisti si sono avvicinati al pensiero keynesiano? Ma cosa ci hanno trovato, mi chiedo io, in uno che dà un giudizio così negativo, e per me sbagliato, del marxismo?
    Sinceramente non saprei dirti quanto di keynesiano ci sia oggi nel comunismo italiano in tutte le sue accezioni. Per certi aspetti laddove Keynes ha sostituito Marx credo sia un passaggio possibile in un ottica riformista interna al capitalismo liberale.

  6. #6
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Citazione Originariamente Scritto da Sandinista Visualizza Messaggio
    Io posso risponderti dicendoti che Keynes fu sempre molto critico nei confronti di Marx e del marxismo. In una lettera a Sraffa (che gli aveva consigliato la lettura de Il Capitale) in cui Keynes dice testualmente: "Ho provato sinceramente a leggere i volumi di Marx, ma ti giuro che non sono proprio riuscito a capire cosa tu ci abbia trovato e cosa ti aspetti che ci trovi io! Non ho trovato neanche una sola frase che abbia un qualche interesse per un essere umano dotato di ragione. Per le prossime vacanze dovresti prestarmi una copia del libro sottolineata."
    Diversi storici del pensiero economico ritrovano in Keynes tuttavia alcune influenze di Marx ma visto il giudizio pesantemente critico del primo al secondo credo si tratti più che altro di punti di contatto non direttamente riconducibili ad una influenza marxiana in Keynes.
    d'accordo su tutto ed in particolare sull'ultima parte che ho evidenziato

    Citazione Originariamente Scritto da MARIOK Visualizza Messaggio
    quindi si potrebbe dire che solo di recente alcune forze politiche e/o pensatori comunisti si sono avvicinati al pensiero keynesiano? Ma cosa ci hanno trovato, mi chiedo io, in uno che dà un giudizio così negativo, e per me sbagliato, del marxismo?
    C'è una incompatibilità di fondo tra il pensiero di Marx e quello di Keynes... a mio avviso un comunista sostenitore del pensiero keynesiano ha capito veramente poco di entrambi i pensieri.
    Ora non saprei di preciso chi hai in mente quando chiedi dei comunisti che si sono avvicinati al pensiero di Keynes, ma posso dirti che molti ex-comunisti passati poi nelle file della sinistra hanno visto in tale pensiero l'opportunità di mettersi apposto la coscienza con tutto il discorso che Keynes fa' sulla spesa pubblica e la sua funzione. Ovviamente o l'hanno fatto di proposito o di Keynes non hanno capito un cazzo... propendo per un mix.

  7. #7
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Ritornando all'articolo mi ha fatto sorridere questo:
    Quanto all’uso (o mancato uso) dei dati: gli economisti keynesiani non hanno aspettato la crisi del 2008 per richiamare l’attenzione sui problemi posti dall’indebitamento privato, e sulla sua insostenibilità, una questione di cui i giovani leoni dell’economia erano spensieratamente inconsapevoli fino a ieri, nella loro ossessiva insistenza sui pericoli dell’indebitamento pubblico.

    E alla fine tutti e due sono rimasti trombati.
    Prima i "liberal" con la crisi dei subprime, e poi i "keynes" con la crisi greca (e dei PIIGS in generale).
    Insomma il bue che dà del cornuto all'asino.

  8. #8
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Citazione Originariamente Scritto da Sandinista Visualizza Messaggio
    Sinceramente non saprei dirti quanto di keynesiano ci sia oggi nel comunismo italiano in tutte le sue accezioni. Per certi aspetti laddove Keynes ha sostituito Marx credo sia un passaggio possibile in un ottica riformista interna al capitalismo liberale.
    E' quello che sostengo io, Keynes parte dando per scontato il capitalismo e non è compatibile con un'ottica comunista.

  9. #9
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Citazione Originariamente Scritto da Leader Maximo Visualizza Messaggio
    d'accordo su tutto ed in particolare sull'ultima parte che ho evidenziato



    C'è una incompatibilità di fondo tra il pensiero di Marx e quello di Keynes... a mio avviso un comunista sostenitore del pensiero keynesiano ha capito veramente poco di entrambi i pensieri.
    Ora non saprei di preciso chi hai in mente quando chiedi dei comunisti che si sono avvicinati al pensiero di Keynes, ma posso dirti che molti ex-comunisti passati poi nelle file della sinistra hanno visto in tale pensiero l'opportunità di mettersi apposto la coscienza con tutto il discorso che Keynes fa' sulla spesa pubblica e la sua funzione. Ovviamente o l'hanno fatto di proposito o di Keynes non hanno capito un cazzo... propendo per un mix.
    Ok sì straquoto quello che hai scritto.

  10. #10
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    Predefinito Rif: Keynesiani tradizionali e keynesiani avventizi

    Non riducete Keynes a caricatura

    di Sergio Cesaratto


    Roberto Perotti ha presentato (“Keynes attento ai tuoi nipotini”, Il Sole-24 Ore, 28-2-2010) una immagine caricaturale degli economisti “keynesiani tradizionali”, alieni a qualunque procedura scientifica, teorica ed empirica, rigorosa, solo interessati a una inutile esegesi di tesi sacri. Mi preme qui respingere tale accusa soprattutto dal punto di vista della tradizione sraffiana (o neoricardiana come la definisce Perotti).

    Perotti concorderà che rigore e rilevanza della ricerca economica non si possano misurare a chili di matematica. La ricerca teorica sraffiana passerebbe comunque brillantemente l’esame di matematica. Sraffa e la sua tradizione hanno fatto del rigore teorico il proprio tratto distintivo, memori di quel “ricardian vice”, l’amore per il ragionamento terso ed essenziale che Schumpeter attribuì a David Ricardo. Il rigore logico di Piero Sraffa è leggendario, sebbene per scelta consapevole egli lasciò ad altri il compito di tradurre con metodi matematici più avanzati quanto lui dimostrò sul filo di un ragionamento strettamente economico, il quale a suo avviso doveva sempre prevalere. Questo è accaduto da parte di economisti quali Ian Steedman o Bertrand Schefold, e l’impostazione Sraffiana non manca certo di complessi volumi pieni di teoremi, corollari e lemmi matematici. Si può naturalmente ritenere che gli sraffiani studino problemi teorici che consistono di curiosità, paradossi, insomma aspetti effimeri; oppure riconoscere che si occupino di problemi assai centrali nell’analisi economica tali da inficiare in maniera irrimediabile alcune proposizioni centrali riguardanti il lungo periodo (cioè le tendenze di fondo dell’economia) condivise da tutti gli economisti convenzionali (uso questo termine nello stesso modo generico in cui Perotti usa il termine “keynesiani tradizionali”). Fra queste proposizioni: l’assenza di disoccupazione involontaria in assenza di rigidità, il modello neoclassico di crescita, i teoremi neoclassici del commercio internazionale.

    Come è noto, il famoso volumetto di Sraffa della cui pubblicazione ricorre quest’anno il cinquantenario diede esca a quella che è forse stata una delle più furiose controversie nell’analisi economica, la controversia sulla teoria del capitale o fra le “due Cambridge”. La Cambridge americana era capeggiata dalo scomparso Paul Samuelson, quella inglese da Piero Garegnani e Luigi Pasinetti. Ebbene, Samuelson ha continuato fino a l’ultimo a discutere con Garegnani, e suoi contributi sono presenti nelle festschrift per Garegnani e Steedman. Ma alla concezione della scienza economica di Perotti non è proprio il rispetto per i maestri, né Sraffa né Samuelson per par condicio.

    Non v’è dubbio, infatti, che gli economisti “keynesiani tradizionali”, in particolare quelli che si rifanno all’impostazione di Ricardo, assegnino grande importanza allo studio della storia del pensiero. Per contro nella visione di Perotti nella scienza economica – similarmente alla hard science – conta ciò che è “sulla frontiera”. Ora non v’è dubbio che la scienza economica debba procedere e acquisire nuove conoscenze teoriche ed empiriche. E’ però tipico della scienza economica che ciò che i suoi cultori sono portati a sostenere, è influenzato dalle circostanze storico-politiche, e talvolta da beni identificabili interessi materiali che sostengono questo e non quel filone scientifico – persino le hard sciences non ne sono esenti. E più che le hard sciences, le scienze economiche soffrono della difficoltà di trovare criteri unanimemente condivisi per discriminare la bontà dei risultati teorici ed empirici. E’ così difficile credere che l’economia proceda per processo cumulativo. Spesso può valere la pena fare un passo indietro nella storia del pensiero, non per oziosa esegesi dei testi, ma per poterne fare due in avanti.

    Perotti è infine ingiusto nel descrivere i “keynesiani tradizionali” come estranei al confronto coi dati empirici. C’è certamente scetticismo da parte dei keynesiani tradizionali per le tecniche statistico-econometriche in genere utilizzate nella letteratura convenzionale, questo a favore di una lettura del materiale empirico talvolta più semplice, ma arricchita da elementi storico-istituzionali che danno prospettiva ai dati statistici. Perotti converrà che spesso la letteratura intelligente di una tabella racconta più di una messe di dati elaborati con esoterici pacchetti statistici. Condivido le preoccupazioni di Perotti sullo standard della ricerca economica italiana. Proprio la distintiva qualità della tradizione classico-keynesiana nel nostro paese può consentire la convivenza di scuole che, sebbene differenti, convergono nell’idea della difesa del rigore scientifico e della tolleranza.

    Viva la Comune

 

 
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