da "Il corriere della sera" del 23/07/2007
Rubrica delle lettere curata da Sergio Romano

Ho assistito al suo intervento al Forum «Economia e società aperta», presso l'Ispi di Milano. Nonostante ottime argomentazioni, riguardanti le prospettive degli scenari internazionali, non ho gradito il suo pessimismo nei confronti dell'Europa e del ruolo che essa manca di ricoprire. A mio parere il «vecchio continente» si sta muovendo sulla strada della rinascita e, attraverso la cooperazione interstatale, sta progressivamente tornando ad avere un ruolo di prestigio al pari delle grandi potenze mondiali. Il passo ulteriore deve essere un'accelerazione sul piano politico, dove l'Europa stenta ancora a trovare un processo coeso e unitario.
Niccolò Scheva

Risposta di Sergio Romano:
Caro Scheva, spero che lei abbia ragione e che il suo ottimismo sia giustificato. Ma io non posso dimenticare che nella vicenda irachena degli ultimi anni vi è un capitolo europeo da cui l'Unione esce assai male. Quando George W. Bush decise di attaccare l'Iraq e lasciò comprendere che lo avrebbe fatto anche senza l'avallo dell'Onu, nessun governo europeo (neppure quello di Londra) era convinto della necessità del conflitto. Ci dividemmo in due grandi gruppi perché alcuni Paesi (fra cui Gran Bretagna, Italia e Spagna) decisero che il rapporto con gli Stati Uniti e un gesto di amicizia per il suo presidente fossero più importanti della solidarietà europea e dei sentimenti della loro pubblica opinione. Commettemmo in tal modo un doppio errore. In primo luogo dimostrammo di essere indifferenti al principio dell'unità. In secondo luogo abbandonammo la nostra politica medio- orientale nelle mani di un potenza che avrebbe fatto la guerra senza consultarci e che non avrebbe tenuto alcun conto dei nostri interessi. So che il Primo ministro britannico ritenne di potere orientare, all'occorrenza, la posizione del presidente degli Stati Uniti. Ma gli inglesi restarono sempre sostanzialmente estranei alle decisioni strategiche della Casa Bianca e del comando americano. Tutti coloro che hanno accompagnato gli americani in Iraq hanno recitato la parte dello scudiero nei combattimenti antichi. Non è soltanto questione di prestigio. Avremmo dovuto ricordare che il Medio Oriente è alle porte di casa nostra e che le vicende della regione sono destinate coinvolgere, in primo luogo, l'Europa. Se l'Unione desidera avere una politica estera è qui, in questa parte del mondo, che deve coltivare amicizie, esercitare influenza, avanzare proposte. Quale può essere al Cairo, a Damasco, a Riad o ad Amman la percezione di Paesi che rinunciano alla propria unità per assecondare la politica degli Stati Uniti o tutt'al più (come accadde alla Francia e alla Germania) si fanno da parte e si limitano a manifestare il loro dissenso? Non credo che avremmo potuto impedire agli Stati Uniti di fare la guerra. Ma avremmo potuto fare sapere alla comunità internazionale che la guerra non ci piaceva. Una posizione unitaria, manifestata con chiarezza alla vigilia del conflitto, ci avrebbe permesso di conquistare la simpatia della regione e di avere un ruolo importante dopo il fallimento dell'operazione americana. Da allora, vi sono stati in effetti alcuni segnali positivi: la costituzione di una forza prevalentemente europea in Libano, i ripetuti colloqui del rappresentante europeo Javier Solana con il negoziatore iraniano Larijani e qualche contatto con la Siria, fra cui la visita di D'Alema a Damasco. Ma su molte questioni l'Europa continua a muoversi timidamente con iniziative mal coordinate. Sarò ottimista, caro Scheva, soltanto quando avrò l'impressione che l'Europa ha tratto dalla vicenda irachena una lezione per il futuro.

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