E' ovvio però ci voleva lo studio per scoprire l'acqua calda..
E' ovvio però ci voleva lo studio per scoprire l'acqua calda..
La famosa artista idolo delle folle :" si figuri che uno ha addirittura scritto che avrei dovuto investire i MIEI soldi comprando un bar! Io!!!! La barista!!!!"
Ma certo, pero' spiega fino in fondo che vuol dire "integrarsi".
Secondo me rispettare le leggi e' la vera condizione per essere "adottati" da un certo paese.
TUTTAVIA, se con "integrarsi" intendi uniformarsi agli usi e costumi, non posso che darti torto. Se io sono italiano e vado a stare in germania, non devo essere costretto a convertirmi ai crauti e ai grembiuli bavaresi...
Tra l'altro, in quel caso integrarsi con la cultura italiana significa anche diventare evasori e burini come buona parte di noi?
Ben vengano le critiche, esse ci invogliano a trovare soluzioni migliori.
Quanto all'articolo, propongo agli interessati di leggerlo tutto. Di fronte ad aspetti critici come quello sottolineato da Robert, l'articolo mette in evidenza, ad esempio, che diverso é il rapporto fra wellfare sociale-investimenti in u.s. e Europa e che quindi é possibile ci siano possibili diversitá di risultati (come giá "sospettato da Polemico e Are(a)zione). Inoltre si afferma che bacini ad alta componenete mista sono anche bacini con le piú alte punte di creativitá artistica ed economica e che teams multietnici registrano spesso successi maggiori che teams monoculturali.
Evenualmente postare tutto l'articolo!
Postare solo la parte che dá ragione alle nostre idee non basta.
Da:
http://euro-holocaust.splinder.com/p...udi+e+testi+ac
Effetti negativi del multietnicismo: come tartarughe, rinchiusi in sè stessi...
Ha fatto molto discutere la pubblicazione di uno studio sugli effetti della diversità etno-culturale tra gli individui, realizzata dal ricercatore di Harvard Robert Putnam. Il risultato eclatante è anche quanto di più ovvio per chi non voglia nascondere la realtà delle cose odierne: l'aumento di diversi gruppi etnici, in un determinato territorio, ha effetti notevolmente negativi (molto più del previsto) dal punto di vista della responsabilità pubblica. In pratica, più aumentano gli stranieri, più cresce l'indifferenza o la disistima per la "cosa pubblica" o la diffidenza, trasformando gli individui in "tartarughe", rinchiusi in sè stessi, piuttosto che impegnati in modo costante e quotidiano per difendere ciò che maggiormente preme loro.
L'esempio è Los Angeles, una città con una fortissima presenza di numerose etnie e con una altrettanto forte distanza tra gli individui. Tale meccanismo, però, agisce "subito", ossia non è necessario che si sia in presenza di gruppi etno-culturali molto diversi, ma anche rispetto a gruppi più simili (come svedesi con norvegesi).
Alla fine gli individui riescono solo a fare qualche marcia di protesta o guardare la televisione (in pratica, il ritratto degli italiani moderni!)...
Ed è questo, più ancora che il semplice rilevare la negatività del multietnicismo, il dato interessante: perchè se gli effetti della diversità etno-culturale sono questi, è evidente come questo processo trasformi un popolo in una accozzaglia di individui separati e incapaci di darsi un destino, ossia in un "arcipelago" di soggetti facilmente addomesticabili, proprio perchè non più in grado di unirsi per scopi più grandi che non quelli dell'egoismo individuale o di "casta".
Peccato che però Putnam non porti fino in fondo le ovvie conseguenze, accettando il luogo comune della ricchezza prodotta con i fenomeni dell'immigrazione e affermando che... più che dire che gli immigrati debbano essere "come noi", sarebbe il caso di cambiare noi stessi (in funzione degli immigrati)! Bah!
A bleak picture of the corrosive effects of ethnic diversity has been revealed
- Dall'articolo "Study paints bleak picture of ethnic diversity" (John Lloyd, The Financial Times, 8 ottobre 2006):
in research by Harvard University’s Robert Putnam, one of the world’s most
influential political scientists.
His research shows that the more diverse a community is, the less likely its
inhabitants are to trust anyone – from their next-door neighbour to the mayor.
This is a contentious finding in the current climate of concern about the
benefits of immigration. Professor Putnam told the Financial Times he had
delayed publishing his research until he could develop proposals to compensate
for the negative effects of diversity, saying it “would have been irresponsible
to publish without that”.
The core message of the research was that, “in the presence of diversity, we
hunker down”, he said. “We act like turtles. The effect of diversity is worse
than had been imagined. And it’s not just that we don’t trust people who are not
like us. In diverse communities, we don’t trust people who do look like us.”
Prof Putnam found trust was lowest in Los Angeles, “the most diverse human
habitation in human history”, but his findings also held for rural South Dakota,
where “diversity means inviting Swedes to a Norwegians’ picnic”.
When the data were adjusted for class, income and other factors, they showed
that the more people of different races lived in the same community, the greater
the loss of trust. “They don’t trust the local mayor, they don’t trust the local
paper, they don’t trust other people and they don’t trust institutions,” said
Prof Putnam. “The only thing there’s more of is protest marches and TV
watching.”
British Home Office research has pointed in the same direction and Prof Putnam,
now working with social scientists at Manchester University, said other European
countries would be likely to have similar trends.
His 2000 book, Bowling Alone, on the increasing atomisation of contemporary
society, made him an academic celebrity. Though some scholars questioned how
well its findings applied outside the US, policymakers were impressed and he was
invited to speak at Camp David, Downing Street and Buckingham Palace.
Prof Putnam stressed, however, that immigration materially benefited both the
“importing” and “exporting” societies, and that trends “have been socially
constructed, and can be socially reconstructed”.
In an oblique criticism of Jack Straw, leader of the House of Commons, who
revealed last week he prefers Muslim women not to wear a full veil, Prof Putnam
said: “What we shouldn’t do is to say that they [immigrants] should be more like
us. We should construct a new us.”
Da:
http://euro-holocaust.splinder.com/p...udi+e+testi+ac
Problemi comportamentali: i figli del multietnicismo sono più violenti e disturbati rispetto ai "figli della nazione"
La scorsa estate, la studiosa, di origine coreana, Yoonsun Choi, ha pubblicato negli USA un'analisi derivante dall'osservazione di migliaia di studenti di varia origine etnica. Il risultato di tale studio è stato che i giovani con due o più appartenenze etno-culturali tendono ad essere più violenti e a mostrare più problemi comportamentali, quali il fumare in giovane età, l'assunzione di droghe, ecc., rispetto a coloro aventi una ben precisa identità etnica.
La ragione possibile di tutto ciò potrebbe derivare dalle maggiori pressioni che subiscono i "meticci" rispetto a bianchi o neri o altri gruppi meglio caratterizzati. La non appartenenza ad un gruppo preciso li rende soggetti alle pressioni di più gruppi, impedendo un inserimento pieno in una delle varie comunità e, conseguentemente, togliendo loro quella forza derivante dall'identità di gruppo.
Sembrerebbe quindi che il problema nasca da una sorta di mancanza di abitudine nei confronti del "meticciamento" Se nel complesso degli USA (considerati da tutti la società per eccellenza del multietnicismo) i matrimoni "misti" sono circa il 4% del totale (un po' pochi, rispetto alle chiacchiere ideologiche sul multietnicismo statunitense), considerando solo lo Stato delle Hawaii, tali matrimoni rappresentano circa il 50% del totale e i figli di queste unioni sembra tendano a non avere particolare problemi rispetto agli altri giovani. Nonostante una tale indicazione, la Choi riconosce che una identità forte aiuta nell'autostima e nella capacità di dare senso alla propria esistenza.
Che soluzione allora propone la Choi? Abbandonare l'assimilazionismo e permettere una integrazione morbida, che permetta ad immigrati e loro figli di conservare, grazie anche alle tecnologie moderne (mezzi di comunicazione e mezzi di trasporto), un certo legame con l'ambiente d'origine.
A parte che tale soluzione puzza di disgregazione potenziale della nazione (al crescere delle comunità allogene), ma... in base a cosa tale soluzione riguarderebbe i "meticci", ossia coloro che dell'indecisione delle radici sono esempio vivente?
For American children, says Yoonsun Choi, assistant professor at the School of
- Dall'articolo "Problem behavior" (Lydialyle Gibson, The University of Chicago Magazine, ottobre 2006):
Social Service Administration, early adolescence isn’t getting any simpler.
Besides the awkwardness and looming angst, there’s this: more and more youth now
find themselves navigating the uncertain territory of multiracial heritage.
(Even the term is ambiguous; it can refer to having parents of different races
or to generations-old diversity.) The multiracial experience frequently
corresponds, Choi says, with higher rates of violence and substance use.
“Consistently multiracial youth show, in almost all behavior problems—alcohol,
smoking, marijuana, fighting—more problems than other children.”
This past spring Choi, who earned a social-welfare PhD from the University of
Washington, published her analysis of a 1997 survey of 2,082 Seattle
middle-schoolers in the American Journal of Orthopsychiatry. She found a
“sizeable chunk”—20 percent—who, when asked about their ethnicity, checked more
than one box. “This is pretty new,” she says. Until the last decade, children of
mixed parentage routinely were allowed to pick only one category on standardized
forms (and urged to identify only with that category). In the Seattle survey,
part of a federally funded study aimed at improving minority-youth health, 454
students claimed two, or occasionally three, ethnicities. One claimed all five:
Asian American, African American, European American, Latin American, and
American Indian. Perhaps that student was goofing with the question, Choi says,
but “likely not. I have met people with backgrounds like that. ... And studies
on self-report have found that with kids it is pretty valid. They report
honestly.”
Young respondents are particularly candid, she says, about “problem behaviors.”
In the Seattle survey, conducted among 10- to 14-year-olds at four public
schools in lower-income neighborhoods, multiracial respondents were
significantly more likely than their monoracial peers to have ever smoked; the
odds were 38 percent less for white students, 32 percent less for black
students, and 51 percent less for Asian students. The probabilities remained
similar for other substances too—when asked if they’d ever consumed alcohol or
gotten drunk or high, multiracial respondents were much more likely than other
groups to say yes.
The differences in violent behavior were even more striking. Multiracial youths
were 63 percent more likely than white respondents to have been in a fight and
65 percent more likely to have threatened to stab someone. African American
students, who held even with multiracial respondents for some violent behaviors,
were 39 percent less likely to have hurt someone badly and 46 percent less
likely to have carried a gun.
Choi has yet to decipher all the factors that exacerbate multiracial youths’
“bad outcomes,” but racial discrimination is part of the equation. Kids act out
in response to ridicule or ostracism. In junior high and high school, “some
[racial] groups are very exclusive. Other children will push you out if you’re a
racial combination.” In similar surveys in Hawaii, she notes, multiracial youths
did not show more problems than their monoracial classmates. “It’s not even an
issue there—so many people come from multiple backgrounds.” In the U.S. at
large, interracial marriages account for 4 percent of the total; in Hawaii they
account for nearly half.
“However, there is some indication that a strong ethnic identity” with at least
one race—a sense of racial or cultural pride, belonging, and confidence—“helps
protect kids from these behaviors,” Choi says. But youths must strike a
sometimes difficult balance. “This research is just emerging, but it is saying
that ethnic identity for multiracial children is unique. They need to endorse
every part of who they are, and for children of combinations from conflicting
groups”—for instance, black and white or, Choi says, Asian and black—“that will
be hard.”
Choi’s examination of ethnic identity’s protective power echoes her research on
immigrant children. In the U.S. “race and ethnicity are salient issues for
children’s development, and immigrant children have a lot of things going on in
that area,” she says. “You would say they are potentially at higher risk. But
they behave way better than nonimmigrant children” of the same races. In other
words, European-born whites get into less trouble than whites born in the U.S.,
and African-born blacks less than American-born blacks. “That’s true for all
races,” she says. Immigrant children often come from close-knit, highly
motivated families, but ethnic identity also plays a part in their good
behavior. “If you look over the generations, pretty rapidly they regress to the
mean.” The fastest change occurs among the children and grandchildren of African
immigrants (Choi largely blames racial discrimination), “but it goes down pretty
quickly for Asian Americans as well, who have the stereotype of being model
minorities.”
It’s important to halt this regression to the mean, says Choi, who emigrated
from Seoul, South Korea, as a graduate student 15 years ago, “because by 2010
one out of every four children in this country will be an immigrant or the child
of an immigrant.” Part of the solution to retaining an “immigrant ethos,” she
believes, may be a more measured integration into American culture. “Rapid
assimilation, which used to be thought of as the answer, may not be. Nowadays
there’s a shift in people keeping close connections to their country of origin.
And at this point it seems like that’s protection.”
Da:
http://euro-holocaust.splinder.com/p...udi+e+testi+ac
"American Mania": una società nata dall'immigrazione è una società egoista e maniacale
Negli ultimi due anni, un testo ha fatto parlare abbastanza di sè nei dibattiti statunitensi sugli studi di psichiatria, ossia "American Mania: when more is not enough" (Mania americana: quando di più non è abbastanza). A scriverlo è stato Peter C. Whybrow, neuropsichiatra, direttore del relativo dipartimento all'università della California di Los Angeles (la celebre UCLA).
La tesi di fondo è questa: una società fondata per la gran parte di immigrati è una società che finisce per privilegiare maggiormente forme (pseudo-)sociali e (pseudo-)culturali e comportamenti individuali conducenti tutti a forme maniacali. Il risultato è anche una significativa attenuazione delle relazioni sociali stabili, con l'emergere di comportamenti egoistici e maggiormente disposti al rischio, piuttosto che alla stabilizzazione sociale (propriamente detta) e affettiva.
Significativo un appunto dalla recensione che poi riporteremo: negli USA non è vergognoso fallire, ma lo è "non provarci". Può sembrare una condotta di vita sensata e moderata, ma nasconde il cuore scuro del fenomeno immigrazionista e globalista, ossia il suo nichilismo di fondo. Perchè riteniamo nichilista (e sostanzialmente "maligna") l'idea che sia peggio il gusto insistito per l'esperimento, piuttosto che la vergogna per l'errore? Perchè sostanzialmente deresponsabilizza la società, trasformandola in un proscenio buono solo per le avventure individuali, piuttosto che essere utile al formarsi di legami profondi (quindi anche duraturi) tra gli individui.
Non solo: tutto questo fornisce l'elemento utile all'espansione (sostanzialmente liberticida) delle multinazionali e dei grandi gruppi di potere. La deresponsabilizzazione sociale necessita di elementi che permettano quelle "avventure individuali" (e individualistiche) suddette: tali elementi sono proprio i grandi gruppi finanziari e lobbistici, che nel loro puntare a dominare l'esistente, permettono alle manie dei singoli individui di avanzare tranquillamente, impedendo un più sano formarsi e consolidarsi di bisogni reali e rapporti tra persone.
Elemento che, ulteriormente, impedisce rapporti sociali profondi e dà spazio all'american mania è la globalizzazione, dato che essa permette (con il venir meno dei confini e con l'estendersi di questo modo di vivere "drogato") la richiesta di continui e sempre maggiori stimoli per le pulsioni maniacali.
Interessante, inoltre, il rilievo su come tale egoismo ed esuberanza sociale diano stimoli simili a quelli prodotti dall'assunzione di droghe varie, dalla semplice caffeina alle anfetamine: non sfuggirà come l'attuale realtà italiana sia, purtroppo, in piena linea con tale modalità deleteria di vivere. Non è minimamente un caso che proprio negli stessi mesi in cui si mette in opera pienamente il progetto di genocidio contro gli autoctoni della penisola italiana, si approvino leggi in favore dell'assunzione di droghe: distruzione dei legami tradizionali, dei valori condivisi e delle identità etno-culturali e decisioni in favore di tutto ciò che costituisce "progresso", ossia "accumulazione quantitativa" (anche dal punto di vista individualistico-emotivo) e "sperimentazione di sempre nuovi stimoli" (sociali, massmediologici, psicotropi, ecc.), sono i due elementi cardine dell'attuale (dis)ordine regnante anche in Italia.
Se un tempo si prometteva il Walhalla o il Paradiso, adesso ci si accontenta dei mille e mutevoli "paradisi artificiali"... affinchè i nuovi dominatori governino indisturbati!
Il sito di Peter C. Whybrow:
http://www.peterwhybrow.com/books/americanmania/
This is a thought-provoking book, both because and in spite of itself. The
- Dall'articolo "American Mania: When More Is Not Enough" (David V. Forrest, M.D., American Journal of Psychiatry, dicembre 2005):
author seeks to explain "the dramatic shift away from social concern and
toward competitive self-interest that occurred during the closing decades
of the 20th Century" (p. 257). He feels that "the same tools and
technologies that have enabled America to achieve Adam Smith’s ‘universal
opulence’ have also compromised the social anchors" (p. 258). He sees our
challenge as "transforming those pleasures into mass happiness" and
"forging from the affluence of commercial success a balanced and equitable
society" (p. 263).
Whybrow, himself a British immigrant, advances the anthroposocial
hypothesis that we Americans are a nation of "migrants" who are equipped
not just with the selfish genes of all biology but also with the restless,
adventuresome genes of those who have risked all to seek a new land of
opportunity. The book’s argument relies on the work of Chuansheng Chen and
his co-workers (1), who correlated a greater percentage of certain
dopamine-4 alleles, specifically 7-repeats and long alleles (5- to
11-repeats), with exploratory human nature—novelty-seeking personality,
hyperactivity, and risk-taking—in human groups who have "macro-migrated."
The 4-repeats, according to this argument, are more prevalent in sedentary
groups. It is the opinion of Chen (whose name is misspelled) and his
co-workers that the gene variation is the natural selective result rather
than the cause of migratory culture over thousands of years and that
recent U.S. immigrants (Japanese, Chinese, and Europeans) do not show the
effect. The effect is seen, for example, in Colombian Indians who migrated
far across the Bering land bridge 10,000 and 5,000 years ago. Granted,
North American Native Americans, who are rich in 7-repeats, have
contributed to the casino bubble, but this is not necessarily a sign of
risk-taking, because this business has not proved very risky for them and,
in any case, they have had help from other Americans of European ancestry.
The savings and loan and Internet collapses, caused by risk-taking, were
associated with Americans of European ancestry, who have the same number
of repeats and alleles as their forebears.
The book has a booming tone, as though it were written standing at a
lectern with a feather pen. In keeping with the author’s admiration of de
Tocqueville, he seems to view Americans at a remove that is mercifully
relaxed only in discussing his interviewees.
Whybrow argues that highly migrant people are novelty seekers, restless
and optimistic risk-takers, and poor farmers. An overload of social
stimulation engages and "hijacks" the same dopamine "superhighways" as
caffeine, nicotine, cocaine, and amphetamines (p. 93), with the result
that the United States bubbles over with unusual "irrational exuberance"
and "infectious greed" (in Federal Reserve Board Chairman Alan Greenspan’s
words [p. 127]), which Whybrow likens to hypomania and florid mania. This
is aggravated by "globalization and greed," resulting in a "manic society"
in which more is never enough and time pressures increase. As examples he
parses the Internet bubble of 2000 as if the United States were going
through the phases of a manic illness—namely, optimism, hypomania, full
flower, and bubble bursting. In America, failure is no shame, only not to
try is.
"Turbocapitalism" (p. 187) and "a giant casino" (p. 240) have resulted,
with the growth of megacorporations like Wal-Mart, which accounts for 6%
of American retail sales, undermining the cohesive and supportive personal
social microcosms of the rural villages with their butchers and bankers in
a Faustian exchange that substitutes the impersonality of "multinational
companies with little accountability" (p. 255). Whybrow amply illustrates
the loneliness and isolation that result and bemoans Thomas Jefferson’s
substituting "the pursuit of happiness" for "property" in the Declaration
of Independence. As one of Whybrow’s interviewees puts it, "Happiness
cannot be pursued. Happiness is something that wells up inside" (pp. 46,
240). This book has rich chapters on the evolutionary psychobiology of
American malnutritive obesity and our sleep-indebtedness to our
suprachiasmatic nuclei. Whybrow notes that coffee is second only to oil as
a traded commodity (p. 162).
Fearing that as a New Yorker I am unqualified to critique this book
because manic time pressures seem normal here, I refer the reader to
Jacobs and Gerson (2), who showed that the temporal pressure of staying
long at work is confined to us professionals and that the national uptick
in annual work hours is the result of more women working. Thomas Friedman
(3), the New York Times correspondent, argues that with globalization, the
"flattening" of the world economy has allowed India, China, and many other
countries to join in the global supply chain of manufacturing and
services, which will require us to run even faster to stay in place than
Dr. Whybrow notes we are already running. In my opinion, the best evidence
for Whybrow’s case is the multiplication of slot machines, the growth of
Las Vegas, and the meretricious, pseudoreligious sanctimony of the new
sanitized, family-friendly casinos.
Whybrow’s book is provocative in spite of itself because it not only
revisits the possibility of psychodiagnosis in the axis of culture,
venturing beyond the pieties of anthropology and identity politics that
all cultures are equally beneficial, but also challenges us to reconsider
the inadequacy of our psychiatric descriptors for that task. Identifying a
culture as manic or paranoid or obsessive or dyssocial is somewhat
informative, but we could seek better concepts and terms for a culture’s
role in psychogenesis. Kardiner (4), attempting to avoid the idea of
national character, proposed a basic personality as the repository of a
society’s values, from which individual character differentiates.
Specifying the concepts and nomenclature awaits our ingenuity.
References
1) Chen C, Burton M, Greenburger E, Dmitrieva J: Population migration and
the variation of dopamine D4 receptor (DRD4) allele frequencies around
the globe. Evol Hum Behav 1999; 2009–324[CrossRef]
2) Jacobs JA, Gerson K: The Time Divide: Work, Family, and Gender
Inequality. New York, Harvard University Press, 2004
3) Friedman TC: The World Is Flat: A Brief History of the Twentieth
Century. New York, Farrar, Straus & Giroux, 2005
4) Kardiner A: The Psychological Frontiers of Society. New York, Columbia
University Press, 1950
Da:
http://euro-holocaust.splinder.com/p...geni+in+Italia
I giovani stranieri in Italia: maggiormente inclini a comportamenti dannosi e al consumismo, rispetto agli italiani
Dati alcuni interventi su studi accademici riguardanti gli aspetti negativi dell'artificiale società multietnica (vedere: 1, 2, 3), possiamo dare un'occhiata a come sia il quadro della gioventù allogena presente in Italia.
Secondo una ricerca della Società italiana di Pediatria (Sip), gli adolescenti stranieri in Italia tendono ad essere molto più inclini a sentimenti di solitudine, ma anche a forme disordinate di alimentazione, a comportamenti negativi come il fumare tabacco o usare droghe "leggere", alla video-dipendenza e al consumismo derivante da essa.
La lettura immancabile per simili affreschi sociali è quella dell'integrazione mancata o non ancora avvenuta. La lettura, invece, onesta è quella di chi altro non è se non il frutto proprio di quell'esperimento di ingegneria sociale voluto dall'attuale regime multietnicista. L'idea di integrazione nasconde solo un aumento dei diritti individuali, ossia un più evidente interesse nel blandire certi gruppi sociali ed etnici per determinati scopi.
Integrazione non significa affatto "integrare nella società italiana", quanto produrre (sempre) ex-novo una società artificiale, di modo da permettere il persistere di un certo dominio e di certi interessi.
Non sfuggirà, a chi è onesto, come quegli aspetti messi in luce dalla ricerca della Sip siano quanto di più indicativo dell'attuale orizzonte sociale italiano: dittatura televisiva, tolleranza per i "paradisi artificiali", consumismo come prassi quotidiana di vita.
Detto altrimenti, i problemi dei giovani allogeni indicano, semmai, una già piena integrazione nella società multietnicista, voluta da settori ben precisi (ma, allo stesso tempo, vasti e trasversali) della politica e dell'economia e sostenuta da ambienti sindacali e del cattolicesimo "progressista".
La solitudine è un problema?
E' solo il risultato più intimo della sempre maggiore frammentazione sociale derivante dal vissuto consumistico e lontano dagli affetti e rapporti tradizionali.
La video-dipendenza è un problema?
E' solo il desiderio segreto di quel sistema di comunicazione di massa che, nella televisione (generalista o a pagamento), vede il suo mezzo più glorioso.
Alimentazione sbagliata o droghe varie sono un problema?
Sono solo il risultato di quel consumismo (quindi nulla di così negativo!) e, perciò, da combattere, nei casi più gravi, senza drammi sociali, ma solo individuali o, al massimo, famigliari.
Il consumismo è un problema?
E' solo il modo di vivere più seguito oggi, propagandato con "amore" anche agli stranieri!
Stiamo esagerando, evitando di considerare il confronto fatto dalla Sip con i giovani autoctoni? A voi la sentenza, ma per noi, i problemi segnalati tra gli adolescenti stranieri sono solo quanto di più ovvio in una società fondamentalmente in via di disfacimento quale quella attuale italiana, ossia una società che piuttosto che puntare sul proprio futuro, ossia sul futuro dei propri figli, ha optato, ideologicamente e per interessi economici, di costruire un artificio, fondato su parole d'ordine e sul coccolamento di gruppi limitati, puntando sull'accoglienza massificata di estranei, incrinando la possibilità della costruzione di veri sentire e vivere condivisi nella e dalla Nazione.
Sono più soli e fragili. Soffrono di noia e nostalgia per la famiglia spesso
- Dall'articolo "Adolescenti stranieri più a rischio tv e fumo" (Metropoli, 24 novembre 2006):
assente o distante. E così si 'rifugiano' in un mondo fatto di televisione e
pubblicità, e ancora più dei coetanei italiani sono a rischio di comportamenti
dannosi come fumo, alcool e dieta sbagliata.
E' il ritratto degli adolescenti stranieri che vivono in Italia, emerso da
un'indagine presentata dalla Sip (Società italiana di pediatria) al convegno "La
societa' degli adolescenti: modelli comportamentali e integrazione multietnica"
che si è appena tenuto a Pavia.
La ricerca, realizzata da Sip e Fondazione L'Aliante Onlus di Milano, è stata
svolta su un campione di 100 ragazzi e ragazze immigrati residenti nel capoluogo
lombardo e di età compresa tra 12 e 18 anni. Il campione ha risposto allo stesso
questionario usato per i 12-14enni protagonisti del X Rapporto annuale
dell'Osservatorio adolescenti della Sip illustrato nei giorni scorsi.
"L'obiettivo era confrontare le abitudini dei ragazzi italiani con quelle dei
giovani stranieri che vivono in Italia", spiega in una nota Giorgio Rondini,
past president della Sip, ideatore dell'Osservatorio adolescenti e direttore del
Dipartimento di Scienze pediatriche dell'università di Pavia. E pur tenendo
conto delle differenze anagrafiche degli intervistati e del diverso luogo di
residenza (solo Milano invece che tutta Italia), "dal confronto dei dati emerge
una maggiore vulnerabilità dei ragazzi stranieri rispetto a quelli italiani",
riferisce Alessandra Piacentini, che ha presentato l'indagine.
Dato chiave la maggiore solitudine: solo l'84,1% dei teenager stranieri vive con
la mamma (contro il 97,2% degli italiani), e appena il 68,3 % vive con il papà
(contro l'88,7%). La prima conseguenza è un'allarmante 'schiavitu dal piccolo
schermo: il 46,9% dei maschi stranieri guarda la tv per più di tre ore al
giorno, contro il 28,6% dei ragazzini italiani.
Gli effetti della 'video-dipendenza' sono quindi prevedibili. Rispetto ai
ragazzi italiani, quelli stranieri apprezzano di più la pubblicità (la considera
troppa solo il 60,3%, contro l'87,4% degli italiani), e sono più attratti dai
prodotti proposti. Non soltanto da telefonini e nuovi 'gioielli' elettronici, ma
anche da oggetti che tradiscono una voglia di infanzia: il 48,4% delle ragazze
straniere è conquistata dai giocattoli (contro l'11,2% delle italiane).
Purtroppo, poi, le bevande alcoliche attirano il 28,1% dei maschi stranieri
contro il 17,5% degli italiani, e i prodotti alimentari il 34,9% degli
adolescenti stranieri contro il 22% degli italiani. E se si considera che
l'84,4% dei maschi stranieri confessa di 'mangiucchiare' davanti alla tv (contro
il 59,4% degli italiani), emerge evidente il rischio di 'mali' sempre più
nazionali come sovrappeso e obesità. Il 18,8% dei maschi stranieri ha perciò
fatto una dieta dimagrante (contro il 13,9% degli italiani), e di questi solo il
14,3% si è rivolto a un medico per avere indicazioni corrette.
Ai teenager stranieri importa meno apparire più grande (36,5% contro il 55,5%
degli italiani) o esserlo davvero (23,8% contro il 46,3%). Ne deriva come la
percentuale di stranieri che dichiara comportamenti a rischio sia inferiore che
nei giovanissimi autoctoni (6,3% vs 17,2%). Ma ciò nonostante la consapevolezza
di quello che può far male è inferiore, tanto che il 58,7% degli stranieri
maschi e femmine ha provato a fumare una sigaretta (contro il 28,8% degli
italiani), e i ragazzini immigrati sembrano avere più spesso amici che fumano
canne (47,6% contro 44,3%) o ubriachi (14,3% contro 8,4%).
Quanto all'emergenza bullismo, di fronte alle violenze subite dai coetanei solo
il 6,3% dei ragazzi stranieri si confronta con un amico, mentre più degli
italiani gli stranieri tendono a confidarsi con l'insegnante (17,5% contro
2,7%). I giovani trasferitisi in Italia amano Internet perchè li fa sentire più
vicini agli affetti lasciati a casa. E tra i sogni nel cassetto mettono la pace
nel mondo, la salute e la felicità di familiari e amici, rivedere il genitore
lontano o tornare nel Paese d'origine.