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  1. #1
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    Post Il Libro Bianco di Biagi

    Come anticipato, volevo postare qui brani del Libro Bianco sul Mercato del Lavoro. Essendo un documento lunghetto, lo posterò per spezzoni su cui poi discutere tutti assieme un pò per volta, onde evitare di rendere la cosa una litigata su un unico ciclopico post che, per forza di cose è impossibile leggere per bene .

  2. #2
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    Predefinito

    Ma questa discussioen serve a qualcosa? Io credo che possiamo impegnare meglio il nostro tempo. Quel libro oggi non ha più senso, fu un parto dell'epoca Berlusconi. Andiamo avanti, che è meglio.
    Myrddin

  3. #3
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    Predefinito

    PARTE SECONDA. LE PROPOSTE
    PROMUOVERE UNA SOCIETÀ ATTIVA ED UN LAVORO DI QUALITÀ


    I. REGOLE E STRUMENTI


    I.1. Europa e Federalismo



    I.1.1. “Coordinamento aperto” per l’occupazione

    Primario obiettivo del Governo è la promozione di azioni funzionali al
    rapido innalzamento del tasso di occupazione, in modo tale da conseguire
    gli obiettivi - quantitativi ma anche qualitativi – indicati dal Consiglio
    Europeo di Lisbona del 2000 e da quello di Stoccolma di quest’anno.
    Il Governo italiano intende far proprio l’obiettivo dell’Unione Europea di
    realizzare una condizione di piena occupazione (e di piena occupabilità,
    quindi mettendo tutti in condizione di trovare un lavoro) con una
    particolare attenzione alla qualità del lavoro. Per questo motivo nel
    documento integrativo del Piano nazionale per l’occupazione 2001 inviato
    alle autorità comunitarie dopo l’insediamento di questo Governo sono stati
    esplicitamente indicati target quantitativi, coerenti con le azioni di politica
    economia finora previste.

    Occorre, infatti, ricordare che le politiche del lavoro devono essere condotte
    coerentemente con la Strategia Europea sull’Occupazione, prevista dal Trattato
    di Amsterdam e varata dal Consiglio Europeo straordinario sull’occupazione di
    Lussemburgo (novembre 1997). In considerazione dell’eccezionale rilevanza del
    tema occupazione, il Consiglio deliberò un’applicazione anticipata di questa
    parte del Trattato, ancor prima della ratifica dei Parlamenti (ovvero in sede
    referendaria) degli Stati membri. Dopo alcuni anni di sperimentazione il
    “processo di Lussemburgo” si è affermato come il primo convincente esempio di
    applicazione della metodologia del “coordinamento aperto”, esteso
    successivamente dalla politica per l’occupazione a quella per la protezione
    sociale e, ancor più recentemente, al tema dell’immigrazione extracomunitaria.
    L’attendibilità di questo processo si è consolidata nel corso di questi anni ed
    occorre pertanto assumere con grande attenzione le ‘Raccomandazioni’ che
    nell’annuale Rapporto congiunto del Consiglio e della Commissione vengono
    indirizzate dall’Unione Europea.

    Occorre prestare maggiore attenzione a questo processo di “coordinamento
    aperto”,
    poiché esso non riguarda soltanto i Governi, pur responsabili in
    rappresentanza degli Stati membri. I diversi soggetti istituzionali territoriali
    (Regioni ed enti locali) e le stesse parti sociali devono contribuire in modo più
    efficace alla realizzazione delle “linee guida” sull’occupazione che ogni anno
    vengono concordate in sede comunitaria e quindi diventano vincolanti. Il
    Governo italiano condivide pienamente a tale proposito le proposte della
    Commissione europea inserite nel Libro Bianco European Governance: A White Paper (25 luglio 2001, COM(2001) 428) favorevole ad un ulteriore estensione di
    questa innovativa metodologia regolatoria.

    Il Governo richiama le Regioni e gli enti locali a dare seguito alle indicazioni
    comunitarie che a loro volta prevedono - oltre al Piano Nazionale di Azione per
    l’ Occupazione (National Action Plan for Employment, NAP) che coinvolge la
    responsabilità del Governo - la predisposizione di Piani regionali di Azione
    per l’ Occupazione (Regional Action Plan for Employment, RAP),
    davvero
    essenziali anche per la programmazione dell’ uso dei fondi strutturali, ed anche
    di Piani locali (Local Action Plan for Employment, LAP), sempre in attuazione
    delle “linee guida” comunitarie. Se ed in quanto Regioni ed enti locali
    matureranno tale orientamento, sarà possibile il loro concorso non
    episodico ma organico alla predisposizione del NAP.

    Anche le parti sociali sono invitate a concorrere all’attuazione di questo
    esercizio di coordinamento comunitario, tenuto conto del fatto che sono
    numerose le “linee guida” (ad esempio in tema di adattabilità) che assegnano
    loro precise responsabilità nel predisporre un assetto regolatorio su base
    negoziale. Ed in ogni caso ad esse si chiede di operare in funzione
    maggiormente propositiva, unitariamente o singolarmente, ben oltre la semplice
    informazione con richiesta di osservazioni che ha caratterizzato la preparazione
    dei Piani Nazionali per l’occupazione negli anni passati. E’ opportuno invece
    che questo esercizio annuale – di progettazione di misure future ma anche di
    verifica e monitoraggio dell’attuazione di quelle già in essere – divenga un
    momento di confronto fra parti sociali ed il Governo (e, al rispettivo livello, le
    Regioni e gli enti locali) per realizzare un più maturo sistema di partenariato
    istituzionale e sociale.


    I.1.2. Buone pratiche in Europa

    Non sembra possibile mantenere inalterato un assetto regolatorio dei rapporti e
    dei mercati del lavoro che, sotto più profili, non appare in linea con le
    indicazioni comunitarie e le migliori prassi derivanti dall’esperienza comparata.
    Gli interventi comunitari regolano il nuovo mercato domestico ed il sistema
    italiano deve adeguarsi, dotandosi di un assetto istituzionale in qualche modo
    comparabile con quelli esistenti in altri Stati membri, in quanto altrimenti si
    registrerebbero effetti distorsivi sul piano della concorrenza. L’equivalenza degli
    assetti regolatori in materia di rapporti e mercati del lavoro assume una funzione
    strategica per governare la tendenza alla delocalizzazione, effetto certo non
    trascurabile della globalizzazione dell’economia.

    Non si tratta di realizzare un’uniformità regolatoria su scala trasnazionale che,
    soprattutto dopo il Trattato di Nizza, non è più negli obiettivi dell’ordinamento
    comunitario che esclude ormai interventi di armonizzazione nell’area della
    politica sociale. Occorre piuttosto ragionare in una logica di benchmarking, cioè
    valutando di volta in volta il contesto di altri Stati membri dell’Unione Europea,
    ma anche esperienze extracomunitarie di Paesi che con noi competono su scala
    globale come gli Stati Uniti e il Giappone. Si tratta di individuare le buone
    pratiche affermatesi nei diversi contesti nazionali od anche regionali,

    approfondendone le potenzialità ed i fattori di successo, per riflettere in termini
    di possibile trasposizione in altri contesti. E’ questa una metodologia che
    costituisce parte integrante del ‘metodo aperto di coordinamento’, utilizzato in
    sede comunitaria nell’ambito del ‘processo di Lussemburgo’.

    L’ordinamento italiano del lavoro si è sviluppato per regolare un mercato
    nazionale, un sistema economico non globalizzato. E’ quindi evidentemente
    inadeguato a svolgere una funzione in un contesto in cui il mercato è ormai
    divenuto trasnazionale, comunitario ed internazionale. L’adeguamento del
    quadro normativo nazionale rispetto alle indicazioni comunitarie e all’esperienza
    comparata diventa, dunque, un fattore essenziale nel gioco competitivo dei
    soggetti economici che al rispetto di questo sistema di regole sono tenuti.

    I.1.3. Lavoro e federalismo
    Il dialogo fra diritto comunitario ed ordinamento interno può agire da
    catalizzatore nel senso di una riforma dell’assetto istituzionale interno preposto
    alla regolazione del mercato e dei rapporti di lavoro, con particolare attenzione
    ad una re-distribuzione delle competenze attraverso i vari livelli istituzionali.
    Una conseguenza che del resto potrà derivare anche dall’applicazione del nuovo
    art. 117 della Costituzione, così come emendato dalla recente riforma
    costituzionale, che assegna alle Regioni potestà legislativa concorrente in
    materia di “tutela e sicurezza del lavoro”, “professioni”, nonché “previdenza
    complementare e integrativa”.

    L’intera disciplina del lavoro dipendente ed autonomo, unitamente ai profili
    previdenziali che non ricadono nell’ambito del sistema pubblicistico, in questa
    ipotesi verrebbe dunque attribuita alle Regioni alle quali, come ancora recita lo
    stesso art. 117, spetta “la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
    principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
    Si tratta di un
    progetto assai innovativo che impegna lo Stato a definire tali “principi
    fondamentali”, tenendo conto, sempre a mente del medesimo disposto
    costituzionale, che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni
    nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
    comunitario e dagli obblighi internazionali”.

    Non sembrano del resto esservi dubbi di sorta circa la portata di queste
    disposizioni. La potestà legislativa concorrente delle Regioni riguarda non
    soltanto il mercato del lavoro, in una logica di ulteriore rafforzamento del
    decentramento amministrativo in atto, bensì anche la regolazione dei rapporti di
    lavoro, quindi l’ intero ordinamento del lavor
    o.

    Il nuovo art. 120 della Costituzione, chiarisce ancora che non solo “la Regione
    non può … limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del
    territorio nazionale” ma aggiunge anche che “il Governo può sostituirsi a organi
    delle Regioni … nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o
    della normativa comunitaria … ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità
    giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali
    delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Spetterà quindi alla
    legislazione ordinaria precisare “le procedure atte a garantire che i poteri
    sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio
    di leale collaborazione”.


    Dunque il nuovo assetto costituzionale attribuisce nuove funzioni alle Regioni,
    senza tuttavia delineare compiutamente un modello federalista, ciò che anzitutto
    presupporrebbe una rappresentanza a livello nazionale delle stesse Regioni.
    Resta il fatto che il riconoscimento della potestà legislativa concorrente alle
    Regioni in materia di mercato e rapporti di lavoro costituisce un elemento che
    occorre pienamente valorizzare, respingendo interpretazioni riduttive che la
    limiterebbero ad una funzione meramente implementativa delle politiche
    nazionali. Sarà il principio di sussidiarietà (nel superamento del criterio di
    competenza, transitando dalla logica di garanzia a quella di funzionalità) a
    guidare un processo di riassetto istituzionale dell’impianto regolatorio, così
    come è avvenuto e sta tuttora avvenendo nel dialogo fra diritto comunitario e
    diritto nazionale.

    Sarà così possibile realizzare differenziazioni regionali che colgano le diversità
    dei mercati del lavoro locali, superando una stratificazione dell’ordinamento
    giuridico inadeguata rispetto ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione del
    lavoro. Un’occasione di modernizzazione che non può essere persa, pure
    perseguendo, nel contempo, la realizzazione di un più compiuto disegno
    federalista di carattere generale.

    I.1.4. Coesione sociale
    La valorizzazione della potestà legislativa regionale non deve essere
    compromessa drammatizzando il rischio di un’autonomia intesa come
    disgregazione sociale.
    E’, infatti, l’ordinamento comunitario che in materia
    economica e sociale provvede a fissare i principi fondamentali che devono
    ispirare il legislatore regionale. Pur essendo auspicabile una larga intesa con
    riferimento alla normativa cornice di carattere nazionale, così da salvaguardare il
    principio di uguaglianza senza peraltro cedere alla logica centralistica di una
    uniformità assoluta di trattamento, conviene indicare nella “Carta dei diritti
    fondamentali dell’Unione Europea”, proclamata solennemente in occasione del
    Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000, il punto di riferimento, certo non
    esclusivo ma altamente significativo, per esercitare la potestà legislativa interna
    .
    E’ utile richiamare in proposito alcuni disposti che più direttamente si
    riferiscono alla tutela e sicurezza del lavoro:

    a. proibizione della schiavitù e del lavoro forzato (art. 5);
    b. protezione dei dati di carattere personale (art. 8);
    c. libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 10);
    d. libertà di espressione e di informazione (art. 11);
    e. libertà di riunione e di associazione (art. 12);
    f. libertà professionale e diritto di lavorare (art. 15);
    g. non discriminazione (art. 21);
    h. parità tra uomini e donne (art. 23);
    i. diritti degli anziani (art. 25);
    j. inserimento dei disabili (art. 26);
    i. diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione
    nell’ambito dell’ impresa (art. 27);
    k. diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 28);
    l. diritto di accesso ai servizi di collocamento (art. 29);

    m. tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30);
    n. condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31);
    o. divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di
    lavoro (art. 32);
    p. vita familiare e vita professionale (art. 33); sicurezza sociale e
    assistenza sociale (art. 34);
    q. protezione della salute (art. 35).


    Su queste materie, individuate nella “Carta” di Nizza, e, più in generale, sulle
    tematiche oggetto di intervento comunitario, per mezzo di direttive anche di
    recepimento di intese fra gli attori sociali, appare opportuno che il legislatore
    nazionale intervenga con una normativa-cornice che assicuri un sufficiente
    grado di tutela minima. Si tratta di adempimenti di obblighi traspositivi che
    coinvolgono la responsabilità diretta dello Stato ed in ogni caso vengono toccati
    diritti fondamentali che reclamano una regolazione nazionale. Sarebbe
    oltremodo auspicabile che sul punto si esprimessero le stesse parti sociali,
    oltre che le Regioni, in modo che si apra un fruttuoso confronto sulle
    caratteristiche e quindi sulla portata della legislazione quadro in materia di
    lavoro.

    L’imperativo di salvaguardare sempre e comunque i “livelli essenziali delle
    prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
    tutto il territorio nazionale” (art. 117 Cost.) implica uno sforzo progettuale che
    comporterà necessariamente la rivisitazione di tutti gli istituti che compongono
    attualmente la legislazione nazionale in materia di mercati e rapporti di lavoro.

    Il Governo auspica che su questo argomento, - così innovativo dal punto di
    vista istituzionale ed altrettanto complesso sul piano dei valori coinvolti e
    delle tecniche regolatorie utilizzabili – si possano acquisire importanti e
    significativi contributi di tutti gli interlocutori istituzionali e sociali
    destinatari del presente Libro Bianco.


    http://www.kore.it/CAFFE/critica/librobianco.htm

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Myrddin-Merlino Visualizza Messaggio
    Ma questa discussioen serve a qualcosa? Io credo che possiamo impegnare meglio il nostro tempo. Quel libro oggi non ha più senso, fu un parto dell'epoca Berlusconi. Andiamo avanti, che è meglio.
    A dire la verità ha molto senso. Dal Libro Bianco partono sia gli orrori (legge Maroni) che le migliorie (legge sulla sicurezza, giro di vite sui call center, parziale emersione del sommerso) che il mercato del lavoro ha subìto negli ultimi anni.

  5. #5
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    I.2. Dialogo sociale

    Gli anni novanta sono stati gli anni della concertazione sociale. Le necessità di
    conseguire importanti obiettivi a livello comunitario favorì l’opzione
    concertativa. Imperativa era l’esigenza di rafforzare il coordinamento nel
    governo delle dinamiche nominali dei redditi per evitare derive inflazionistiche.
    Inoltre, l’intervento sui saldi netti del bilancio pubblico andava fatto rapidamente
    ed in un clima di consenso sociale, onde evitare tensioni e ricadute
    inflazionistiche. Va del resto sottolineato come molti dei paesi, anche al di fuori
    del tradizionale novero di paesi cosiddetti corporativismi, che all’inizio del
    decennio riscontravano problemi di convergenza rispetto ai criteri di Maastricht,
    hanno optato per l’uso della concertazione sociale.

    Tuttavia, nei fatti, la concertazione ha svolto compiti di governo ben di là degli
    obiettivi di sviluppare un corretto rapporto tra le parti. Il processo avviato nel
    1992 dal I° Governo Amato è stato progressivamente snaturato e portato a
    ribaltare la logica culturale che l’aveva innestato. Quando, da parte dei diversi
    governi che si sono succeduti, vi è stato un uso eccessivo della concertazione,

    intesa come sede consultiva e di legittimazione politica in merito ad iniziative
    che, in linea di principio, erano spesso di esclusiva competenza del Governo si è
    determinato un uso distorto e viziato della concertazione stessa. Rispetto ad
    alcune esperienze generalmente ritenute positive, in particolare il caso olandese,
    è peraltro da rilevare come il potere d’iniziativa - di fissazione dell’agenda e
    delle principali linee di azione- da parte dei governi sia stato, in Italia, piuttosto
    limitato, in buona parte a causa dell’accentuata debolezza politica di quei
    governi.


    E’ del tutto evidente l’impossibilità del modello concertativo degli anni novanta
    di affrontare la nuova dimensione dei problemi economici e sociali. La
    concertazione ha, infatti, mantenuto fermi nella politica economica due obiettivi
    fondamentali: il risanamento dei conti pubblici e l’ingresso dell’Italia nell’Euro.
    Intorno al ruolo della contrattazione nazionale centralizzata e dell’inflazione
    programmata si è sviluppato lo scambio fondamentale tra governo e parti sociali.
    La moderazione salariale e l’abbassamento dell’inflazione hanno consentito il
    risanamento dei conti pubblici sul versante degli interessi; la produttività del
    sistema è stata assorbita in gran parte dall’aumento della pressione fiscale,
    mentre è sostanzialmente rimasta inalterata la quota della spesa sociale sul PIL
    (con un aumento della spesa pensionistica ed un calo di quella sanitaria). Difesa
    del salario reale e delle prestazioni sociali (con una compressione della
    dinamica) sono stati i vantaggi per i sindacati e per i lavoratori. La
    contrattazione salariale è stata negli anni novanta il riflesso delle esigenze
    macroeconomiche, rivelandosi irrilevante ai fini di una corretta allocazione dei
    fattori produttivi. La forbice tra salari contrattuali e quelli di fatto (in alto e in
    basso) si è aperta ulteriormente.


    Tuttavia, raggiunti gli obiettivi dell’abbassamento dell’inflazione e dell’ingresso
    nell’Euro, i suoi limiti sono subito apparsi evidenti. Emerge con evidenza
    l’inadeguatezza di un sistema contrattuale centralizzato
    , il cui perno centrale è
    rappresentato da un indicatore economico (l’inflazione programmata) che svolge
    una funzione sociale (difesa del salario reale) ma è indifferente rispetto alle
    esigenze reali delle singole imprese. La moneta unica, ed il patto di stabilità,
    richiedono, invece, nel contempo una capacità di rendere strutturali le riforme
    (mercato del lavoro, previdenza e welfare, fiscali e contributive) e di
    flessibilizzare l’utilizzo dei fattori produttivi e della loro remunerazione. Inoltre,
    la competitività del sistema Italia non è più mediata dalla politica monetaria.
    Nel nuovo quadro macro-economico, l’espansione della base produttiva e
    dell’occupazione non può prescindere da una riduzione della pressione fiscale e
    contributiva nonché da corretta remunerazione dei fattori produttivi
    . Un eccesso
    di rigidità delle remunerazioni penalizza l’espansione occupazionale nelle aree a
    bassa produttività (ovvero favorisce la crescita del sommerso) e contribuisce alle
    distorsioni territoriali dello sviluppo. La concertazione ha in realtà
    sistematicamente rinviato la definizione di un nodo centrale delle relazioni
    industriali, quello della struttura della contrattazione. Nell’Unione Monetaria
    Europea, l’esigenza di riforma degli equilibri interni della contrattazione
    salariale fa premio su quella della moderazione salariale aggregata. Al tempo
    stesso un completamento organico delle riforme in tema di mercato del lavoro e
    del welfare non può prescindere dall’iniziativa e dalla capacità decisionale del
    Governo.


    I.2.1. Il modello comunitario

    In questa situazione le esigenze attuali dell’economia italiana inducono a
    sperimentare una pratica di “partnership per la competitività e l’occupazione”,
    dove il confronto fra istituzioni e parti sociali assuma la valenza non di un
    obiettivo in sé, ma di uno strumento utile al conseguimento di obiettivi di volta
    in volta condivisi. Il passaggio dalla politica dei redditi ad una politica per la
    competitività impone l’adozione di una nuova metodologia di confronto, basata
    su accordi specifici, rigorosamente monitorati nella loro fase implementativa,
    restando meglio precisata la distinzione delle reciproche responsabilità tra
    Governo e parti sociali.


    Il Governo ritiene che il modello del dialogo sociale, così come
    regolamentato e sperimentato a livello comunitario, costituisca il punto di
    riferimento più convincente per una rinnovata metodologia nei rapporti fra
    istituzioni e parti sociali anche a livello interno. In tal senso, appare del tutto
    condivisibile la “posizione comune” assunta il 16 luglio 2001 in Francia dalle
    parti sociali ed indirizzata a quel Governo. Il dialogo sociale non può soltanto
    rappresentare la soluzione del tutto prioritaria per la trasposizione di direttive
    comunitarie nell’ordinamento interno, bensì deve costituire anche il metodo per
    regolare la produzione di regole in tema di affari sociali, con particolare riguardo
    alla modernizzazione del mercato del lavoro.

    Non soltanto a livello statale, ma anche delle Regioni, prima di assumere
    interventi legislativi o comunque di natura regolatoria in campo sociale e
    dell’occupazione, è necessario che le istituzioni consultino le parti sociali circa
    l’intenzione di intervenire su una certa materia che non comporti impegni di
    spesa pubblica, sollecitandone una reazione in termini di opportunità e modalità
    di realizzazione. Al termine di questa prima fase di consultazione, da contenere
    in tempi ragionevolmente brevi, qualora il Governo o la Regione intenda
    proseguire con l’iniziativa regolatoria dichiarata nella fase precedente, alle parti
    sociali dovrebbe essere offerta l’opportunità di negoziare sul tema che forma
    oggetto della iniziativa in questione, assegnando anche in questa occasione un
    termine ben determinato.

    Solo in caso di rifiuto delle parti sociali di impegnarsi in un negoziato, ovvero
    nell’ipotesi di un esito infruttuoso del medesimo, l’iniziativa legislativa
    promanante dal Governo o dalla Regione potrà riprendere il suo corso. Nel caso
    in cui invece il negoziato si sarà concluso positivamente, dovrà prevedersi un
    impegno politico del Governo o della Regione alla traduzione legislativa
    dell’intesa stessa.


    La stessa funzione del presente Libro Bianco si ispira alla metodologia
    comunitaria. Riconoscere il primato del dialogo sociale in funzione regolatoria
    nell’area sociale e dell’occupazione significa riconoscere alle parti sociali un
    ruolo assai impegnativo che comporta responsabilità quasi legislative. Del resto
    il Governo ritiene che se questa importante responsabilità è stata riconosciuta
    dall’ordinamento comunitario nei confronti di attori sociali caratterizzati da
    un’attività di pochi lustri, a maggior ragione essa possa essere richiesta ad
    organizzazioni che invece affondano le proprie radici in una storia talvolta
    secolare, caratterizzandosi per alti livelli di rappresentatività. Naturalmente
    l’adozione di tale metodologia, assai rispettosa delle reciproche competenze ed
    attribuzioni, senza alcuna confusione di ruoli, non può compromettere la rapidità
    del procedimento decisionale. In caso di disaccordo tra gli stessi attori sociali
    sarà necessario, uniformandosi anche in questo senso all’ esperienza francese,
    ricorrere alla regola della maggioranza,
    senza pretendere unanimismi che
    pregiudicherebbero il buon funzionamento dello stesso dialogo sociale.

    Il Governo auspica di poter raccogliere su questa proposta commenti e
    valutazioni degli interlocutori istituzionali e sociali.

    Quanto fin qui affermato non significa a giudizio del Governo escludere il
    raggiungimento di nuove intese di tipo triangolare, sia a livello nazionale, sia a
    quello regionale e territoriale. Del resto non solo in Italia ma in molti Paesi
    europei intese trilaterali sfociano con crescente intensità in patti sociali.
    Associazioni imprenditoriali ed organizzazioni sindacali in diversi contesti
    nazionali hanno stipulato accordi con le autorità governative in materia
    occupazionale, con ciò svolgendo una funzione in passato di esclusiva spettanza
    dei poteri pubblici.

    Le “linee guida per l’occupazione” -varate nell’ambito del processo di
    Lussemburgo- attribuiscono alle parti sociali l’assunzione di crescenti
    responsabilità a riguardo. In proposito appare necessario indirizzare questa
    attività sul piano locale – anche tenendo conto dei nuovi poteri riconosciuti alle
    Regioni dalla recente riforma sul federalismo - al fine di cogliere le peculiarità
    del mercato del lavoro all’interno di ciascun contesto territoriale. Occorre quindi
    sottoporre a valutazione critica la stagione dei “patti nazionali”, accogliendo una
    visione regionalista delle politiche del lavoro che coinvolga a questo livello le
    parti sociali. Tali intese definite su scala territoriale dovranno muoversi in un
    contesto dinamico, fatto di utili deroghe concordate nei confronti della
    legislazione e contrattazione a livello nazionale.

  6. #6
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    I.3. Tecniche regolatorie


    I.3.1. Ordinamento comunitario e tecniche di trasposizione
    Riflettendo sull’esperienza comunitaria e nella prospettiva di transitare verso un
    ordinamento federale, si evince la necessità di ripensare radicalmente lo stesso
    sistema delle fonti dell’ordinamento giuridico del lavoro. Il ruolo della
    legislazione nazionale dovrebbe essere limitato alla definizione dei diritti
    fondamentali della persona nel contesto lavorativo
    . Allorché si tratti di
    legislazione traspositiva di obblighi comunitari, il legislatore nazionale dovrà in
    futuro introdurre norme che soddisfino di per se stesse l’obbligo traspositivo, nel
    rispetto delle prerogative regionali di intervenire con atti di legislazione
    concorrente per rendere il dato normativo comunitario e nazionale più aderente
    alle caratteristiche dei mercati del lavoro locali. Del resto il nuovo ruolo
    legislativo affidato alle Regioni non potrà certo sollevare lo Stato dalla
    responsabilità primaria di fronte alle autorità comunitarie con riferimento alo
    stesso processo traspositivo.

    Anche la legislazione nazionale di trasposizione diverrà sempre più una
    legislazione di principi, implementando la direttiva per quanto concerne le scelte
    fondamentali di adattamento all’ordinamento interno, lasciando tuttavia al
    legislatore regionale la possibilità di dispiegare pienamente l’esercizio della
    potestà legislativa concorrente mediante interventi di specificazione dei principi
    definiti nazionalmente.

    Resta fermo, a giudizio del Governo, il primato del dialogo sociale nella
    trasposizione delle direttive comunitarie,
    in ossequio a quanto disposto dal
    Trattato dell’Unione Europea e soprattutto allorché le direttive stesse siano
    il risultato di questo esercizio condotto su scala comunitaria. Le parti sociali
    potranno in tale circostanza valutare forme appropriate per assicurare che
    il processo traspositivo tenga conto delle caratteristiche dei mercati del
    lavoro locali, nel quadro del nuovo ordinamento federalista.

    Il Governo si riconosce pienamente nel principio per cui l'attuazione delle
    direttive comunitarie non costituisce in nessun caso un valido motivo per
    giustificare una riduzione del livello generale di protezione dei lavoratori nei
    settori da esse trattati. Resta tuttavia impregiudicato il diritto degli Stati membri
    e/o delle parti sociali di stabilire, alla luce dell'evolversi della situazione,
    disposizioni legislative, regolamentari o contrattuali diverse rispetto a quelle
    vigenti al momento dell'adozione della presente direttiva, purché le prescrizioni
    minime previste da quest'ultima siano rispettate. Il significato di questa “clausola
    di non regressione” è da intendersi nel senso che non deve verificarsi una
    regressione del livello generale di protezione dei lavoratori in seguito
    all'adozione della direttiva comunitaria
    , pur lasciando agli Stati membri la
    possibilità di adottare misure diverse dettate dalla loro politica socioeconomica,
    e questo nel rispetto dei requisiti minimi previsti dal legislatore comunitario. La
    pretesa che l’ordinamento giuridico debba restare in sostanza immodificabile
    contrasterebbe con la natura stessa del processo traspositivo che rappresenta esso
    stesso un momento di aggiornamento del quadro regolatorio rispetto all’ insieme
    di disposizioni entrate in vigore a livello comunitario, nonché in relazione all’
    evolversi della sottostante realtà economica e sociale.

    Il Governo italiano ritiene che occorra prestare molta attenzione alla
    qualità del processo traspositivo, evitando che si ricostituiscano gli elementi
    distorsivi della concorrenza che la direttiva stessa aveva inteso rimuovere.
    In questo senso la “clausola di non regressione” mantiene un suo valore del tutto
    indiscutibile, soprattutto nella prospettiva dell’allargamento dell’Unione Europa
    e l’integrazione con sistemi economici e sociali assai differenti da quelli degli
    attuali Stati membri. La stessa Commissione europea dovrebbe prestare
    maggiore attenzione alla qualità del processo traspositivo, non limitandosi a
    rilevare soltanto gli estremi per le procedure di infrazione. Il Governo invita le
    parti sociali ad approfondire nel dialogo fra di loro questi profili
    dell’esercizio traspositivo, anche al fine di esaltarne le potenzialità di
    modernizzazione per assicurare tutele qualitativamente efficaci ai
    lavoratori italiani.


    I.3.2. Leggi e contratti

    Il principio di sussidiarietà – già fondamentale nel rapporto fra ordinamento
    comunitario e nazionale, nonché a proposito del dialogo fra Stato e Regioni nel
    costituendo ordinamento federalista - deve secondo il Governo applicarsi
    anche nel rapporto fra intervento pubblico e attività delle parti sociali. Il
    legislatore (nazionale o regionale) dovrebbe intervenire solo dove le parti non
    abbiano sufficientemente svolto un ruolo regolatorio. In questo senso verrebbe
    esaltata appieno la funzione del contratto collettivo (nella sua prospettiva
    interaziendale) come strumento regolatore di una corretta competizione fra
    imprese sul piano sociale.


    Nel contempo, occorre, però, riconoscere i profondi mutamenti intervenuti
    nell’organizzazione del lavoro, la crescente spinta verso una soggettività nel
    vissuto della propria condizione lavorativa e quindi rivalutare convenientemente
    il ruolo del contratto individuale. Tale valorizzazione potrebbe avvenire
    quantomeno con riferimento a singoli istituti o laddove (per ragioni di mercato
    del lavoro connesse anche all’alta professionalità del lavoratore in questione)
    esistano condizioni di sostanziale parità contrattuale tra le parti ovvero anche in
    caso di specifici rinvii da parte della fonte collettiva
    . Il Governo chiede alle parti
    sociali se e a quali condizioni sia possibile modificare l’attuale contesto
    normativo che inibisce al datore e prestatore di lavoro di concordare condizioni
    in deroga non solo alla legge ma anche al contratto collettivo, se non entro il
    limite, sempre più ambiguo, delle condizioni di miglior favore. In un contesto
    crescentemente individualizzato di rapporti e contratti di lavoro sono
    individualizzate anche le scelte dei prestatori: ciò che può essere migliorativo
    per l’uno, può risolversi in una condizione di peggior favore per l’ altro.

    E’ utile a tal proposito rifarsi all’esperienza comparata, anche al fine di
    dimostrare che la prospettiva delineata in alcun modo comporta un
    appannamento del ruolo della contrattazione collettiva, quanto semmai una sua
    diversa concezione. Nei Paesi Bassi si sta sperimentando in proposito un sistema
    di raccordo fra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro definito "a
    scelta multipla", dove cioè il lavoratore può optare, d’intesa con il datore di
    lavoro, fra diversi istituti negoziati in sede collettiva. Ad esempio un livello
    salariale inferiore in cambio di maggior sicurezza del posto di lavoro, scambio
    fra miglior trattamento retributivo ed allungamento del nastro orario, rinuncia
    all’indennità natalizia a fronte di azioni della società e così via.


    Il Governo pertanto invita le parti sociali a valutare la possibile
    ridefinizione del rapporto fra momento collettivo ed individuale nella
    regolazione del rapporto di lavoro, rendendo possibile la definizione di
    assetti regolatori effettivamente conformi agli interessi del singolo
    lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro,
    nel contesto d’un adeguato controllo sociale. In aggiunta si potrebbero
    studiare percorsi a garanzia della effettiva volontà del lavoratore (per
    realizzare una sorta di “derogabilità assistita”, secondo meccanismi di
    certificazione e/o validazione della volontà individuale), ad opera di
    istituzioni pubbliche o anche delle stesse parti sociali, al fine di
    corrispondere alle attese di flessibilità delle imprese ma anche alle nuove
    soggettività dei prestatori di lavoro.

    Sempre in sede comunitaria, è stata sperimentata con successo una nuova tecnica
    nel rapporto fra legge e contrattazione collettiva che a giudizio del Governo
    merita senz’altro di essere ripresa anche all’interno dell'ordinamento italiano. Il
    riferimento è all’esperienza applicativa della direttiva comunitaria sui "comitati
    aziendali europei" (CAE). Questa direttiva europea del 1994 affida, infatti, alle
    parti (direzione centrale della società multinazionale e la rappresentanza dei
    lavoratori) l’individuazione della composizione e delle funzioni del "comitato
    aziendale europeo". Solo ed esclusivamente in mancanza di un accordo tra tali
    soggetti scattano le previsioni di legge; altrimenti l’intesa negoziale è in grado di
    sostituire interamente il testo normativo che in sostanza non si applica poiché si
    ritiene già raggiunto il fine che il legislatore si era prefisso di conseguir
    e. Nel
    caso della direttiva CAE il risultato è stato di oltre 600 accordi stipulati fino ad
    oggi: in pratica oltre un terzo delle multinazionali hanno preferito la strada
    negoziale all’applicazione della legge.

    Il Governo considera estremamente interessante questo tipo di intervento
    legislativo che riconosce un ruolo non tanto promozionale quanto premiale
    alla contrattazione collettiva e ritiene che la direttiva CAE dovrebbe
    dunque essere assunta come modello anche in Italia ai fini dell’intervento
    normativo nella materia del diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Del
    resto il compromesso adottato al Consiglio europeo di Nizza (dicembre 2000)
    sugli aspetti partecipativi riguardanti la Società Europea è largamente ispirato a
    questo modello. Il Governo auspica di ricevere su questa proposta adeguati
    approfondimenti delle parti sociali, allo scopo di progettare nuove misure che
    riprendano questa metodologia adottata in sede comunitaria, e conferire alle parti
    sociali un ruolo sostanzialmente para-legislativo in modo di stimolare il
    raggiungimento di intese per realizzare assetti regolatori più confacenti alle
    singole realtà aziendali.


    I.3.3. “Norme leggere” (soft laws)

    L’ordinamento giuridico del lavoro in Italia è stato costruito sul presupposto che
    i rapporti tra datori e prestatori di lavoro siano presidiati da regole vincolant
    dettate dal legislatore o convenute in sede di contrattazione collettiva.
    Un’impostazione precettiva e prescrittiva che, nella normalità dei casi, produce
    norme inderogabili, cioè tali da escludere la libera pattuizione individuale e
    comunque tali da non lasciare alcuna flessibilità alle parti, se non in senso
    migliorativo per il lavoratore. Spesso si tratta di precetti eccessivamente rigidi,
    sovente inattuabili, tali da favorire l’evasione e gli aggiramenti, fomentando
    comunque il contenzioso. i,


    Ancora una volta l’esperienza comparata dimostra che è possibile modernizzare
    l’ordinamento del lavoro anche sul piano delle tecniche di regolazione. Nei Paesi
    di tradizione di common law esistono strumenti diversi, come per esempio i
    codes of practice e, più in generale, le soft laws (“norme leggere”), che mirano
    ad orientare l’attività dei soggetti destinatari, senza peraltro costringerli ad uno
    specifico comportamento, vincolandoli tuttavia al conseguimento di un
    determinato obiettivo. Tali tecniche sono entrate ormai a far parte
    dell’ordinamento giuridico comunitario. Nell’ambito della Strategia europea per
    l’occupazione vengono annualmente definiti dal Consiglio gli “orientamenti” in
    materia di occupazione che costituiscono senz’altro forme di soft laws. Il
    Consiglio europeo di Stoccolma (aprile 2001) ha preannunciato l’elaborazione, a
    cura del Consiglio di concerto con la Commissione, di indicatori (anche
    quantitativi) sulla qualità del lavoro, da adottarsi al Consiglio europeo di Laeken
    (dicembre 2001). Ancora una volta si tratterà di “norme leggere”, focalizzate
    sull’obiettivo finale da conseguire assai più che non sulla coercizione ad
    osservare un comportamento predeterminato minuziosamente in sede legislativa.

    Il Governo intende contribuire alla riflessione in corso circa
    l’identificazione di indicatori di qualità a livello europeo, nella
    consapevolezza che, in ogni caso, essi non dovranno tradursi in ulteriori
    vincoli, bensì in strumenti per incentivare opportuni investimenti, anche di
    carattere formativo, nelle risorse umane.

    Tutto lascia quindi prevedere che questa tecnica regolatoria si diffonderà sempre
    più. I primi esempi di “norme leggere” potrebbero essere sperimentalmente
    inseriti all’interno dei contratti collettivi nazionali di lavoro, sotto forma di
    clausole che rinviino alla contrattazione di secondo livello, pur prefigurando il
    conseguimento di obiettivi predeterminati e preconcordati. Le stesse parti sociali
    a livello comunitario hanno peraltro già cominciato a sperimentare la
    stipulazione di accordi sotto forma di “linee guida”,
    com’è accaduto nel dialogo
    sociale settoriale che ha prodotto recentemente intese sulla regolamentazione del
    telelavoro.

    Il Governo esprime grande interesse nei confronti della recente intesa
    intercategoriale sul telelavoro a livello comunitario sulla base di linee-guida
    od orientamenti. Essa riveste, infatti, un grande significato paradigmatico,
    costituendo un utile modello per la possibile utilizzazione di questo strumento
    anche su scala nazionale, soprattutto nell’ottica di una transizione verso un
    assetto federalista anche in materia di lavoro. Poiché non si tratta di un accordo
    quadro non sarà necessario un intervento del Consiglio al fine di rendere l’intesa
    vincolante tramite l’adozione di una direttiva che a sua volta dovrebbe essere
    trasposta. L’accordo resterà in un ambito strettamente privatistico e la sua
    attuazione su scala nazionale rimarrà del tutto nelle mani delle parti sociali. Una
    prospettiva di notevole interesse, compatibile con il diritto comunitario che non
    esclude questo genere di accordi, al tempo stesso utilmente sperimentabile in
    Italia anche per realizzare eventualmente un coordinamento “soft” di un modello
    contrattuale ad impianto federalista.

    In ogni caso il Governo ritiene che già sul piano dell’intervento regolatorio
    pubblico sarà necessario sperimentare queste tecniche innovative. Ad
    esempio una rivisitazione della normativa sulla salute e sicurezza del lavoratore
    dovrà comportare il passaggio dal management by regulation al management by
    objectives. Superare l’inderogabilità della norma giuridica dunque non basta:
    occorre dotare l’ordinamento del lavoro di una nuova gamma di strumenti
    regolatori che già sono in uso in Paesi con cui l’Italia si confronta nella
    competizione globale. Il Governo considererà l’opportunità di ricorrere a questi
    strumenti regolatori di tipo innovativo ed auspica in quest’ambito di ricevere
    commenti e proposte dagli attori istituzionali e sociali


    I.3.4 . Norme semplici e certe

    Il Governo ritiene che l’ordinamento giuridico del lavoro italiano sia, al pari di
    altre branche del diritto dell’economia, estremamente complesso, frutto di
    interventi normativi stratificatisi nel tempo con un andamento alluvionale che lo
    rendono, per molti versi, inadeguato a disciplinare fenomeni sociali nuovi e in
    continuo mutamento. I rapporti fra datori e prestatori di lavoro dovrebbero
    essere governati da un corpus normativo assai più semplificato, effettivamente
    utilizzabile dai diretti interessati senza ulteriore aggravio di costi per gli
    operatori economici di minori dimensioni.


    Modernizzare il sistema regolatorio dei rapporti di lavoro significa anche darsi
    l’obiettivo di una riorganizzazione e di un riordino delle norme vigenti,
    ricorrendo anche allo strumento dei testi unici. Tale metodologia potrebbe
    risultare di grande utilità per le imprese ed a tal fine il Governo ha
    immediatamente disposto affinché venga opportunamente ordinata e
    semplificata la normativa in materia di sicurezza e salute sul lavoro. Regole più
    semplici e chiare contribuirebbero ad agevolare l’opera di regolarizzazione delle
    condizioni di lavoro con un effetto assai benefico sul piano della correttezza
    della concorrenza fra imprese.

    Il Governo ritiene che, una volta realizzata l’opera riformatrice delineata
    nel presente Libro Bianco, così come risulterà arricchita ed integrata dai
    soggetti istituzionali e sociali cui è rivolto, sarà comunque necessario
    coordinare le nuove disposizioni con la normativa preesistente all’interno di
    un Testo unico sul lavoro. Tale intervento potrà anche essere anticipato nel
    corso della presente legislatura non appena saranno operative alcune
    significative riforme, secondo uno schema di codificazione aperto e flessibile,
    che consenta un continuo aggiornamento del Testo unico stesso. Sarà questa
    l’occasione per un opportuno raccordo con le legislazioni regionali che nel
    frattempo si saranno formate. Il Governo auspica che sul punto si possano
    registrare utili commenti e proposte dai soggetti istituzionali e dalle parti sociali.


    I.3.5. “Statuto dei Lavori”

    Il Governo considera necessario alla luce di quanto sopra esposto procedere
    ad un’opera di complessiva modernizzazione dell’impianto
    dell’ordinamento del lavoro in Italia nell’ ambito di uno ‘Statuto dei lavori’
    che riprende alcune idee progettuali già circolati nel corso della precedente
    legislatura, spunti che il Governo intende valorizzare pienamente pervenendo ad
    un organico progetto riformatore sul quale si chiede il concorso dei soggetti
    istituzionali e sociali.

    Nell’accingersi a progettare un disegno riformatore di ampio respiro, occorre
    tener conto dei vincoli di appartenenza dell’Italia a organismi sopranazionali,
    unitamente alle logiche della globalizzazione e dell’internazionalizzazione dei
    mercati, ciò che impone di prendere le mosse da due documenti di particolare
    rilievo a livello internazionale: la Dichiarazione dell’Organizzazione
    Internazionale del lavoro sui principi e diritti fondamentali sul lavoro approvata
    dalla Conferenza Internazionale del Lavoro nel giugno del 1998, nonché la
    Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea proclamata a Nizza lo
    scorso 7 dicembre. La Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del
    Lavoro sancisce quattro diritti fondamentali (la libertà di associazione e il diritto
    alla contrattazione collettiva; l’eliminazione di ogni forma di lavoro forzato od
    obbligatorio; l’effettiva abolizione del lavoro minorile; l’eliminazione di ogni
    discriminazione sul lavoro e nell’accesso all’impiego. La “Carta” dell’Unione
    Europea, accanto a questi diritti fondamentali, ne indica in modo dettagliato una
    serie ulteriore, tra cui il diritto di lavorare e di esercitare una professione
    liberamente scelta o accettata; alla informazione e alla consultazione nell’ambito
    dell’impresa; di accedere a un servizio di collocamento gratuito; alla tutela
    contro ogni licenziamento ingiustificato; a un equo compenso; a condizioni di
    lavoro sane, sicure e dignitose; di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e
    ai servizi sociali, alla protezione dei dati personali. A prescindere dal valore
    giuridico di questi documenti, in essi sono indubbiamente contenuti alcuni
    principi profondamente radicati nella tradizione culturale europea e,
    segnatamente, italiana. A ben vedere, si tratta di principi e diritti formalmente
    sanciti dalla Carta Costituzionale del 1948.

    A seguito dei profondi mutamenti intercorsi nell’organizzazione dei rapporti e
    dei mercati del lavoro, il Governo ritiene che sia ormai superato il tradizionale
    approccio regolatorio, che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo,
    il lavoro nella grande impresa al lavoro in quella minore, il lavoro tutelato al
    lavoro non tutelato. E’ vero piuttosto che alcuni diritti fondamentali devono
    trovare applicazione, al di là della loro qualificazione giuridica, a tutte le forme
    di lavoro rese a favore di terzi: si pensi al diritto alla tutela delle condizioni di
    salute e sicurezza sul lavoro, alla tutela della libertà e della dignità del prestatore
    di lavoro, all’abolizione del lavoro minorile, all’eliminazione di ogni forma di
    discriminazione nell’accesso al lavoro, al diritto a un compenso equo, al diritto
    alla protezione dei dati sensibili, al diritto di libertà sindacale. E’ questo zoccolo
    duro e inderogabile di diritti fondamentali che deve costituire la base di un
    moderno “Statuto dei lavori”.


    Occorre precisare che il riconoscimento di questi diritti fondamentali a tutti i
    lavoratori che svolgano prestazioni a favore di terzi (datori di lavoro,
    imprenditori, enti pubblici, committenti, etc.) non risponde solo ed
    esclusivamente a istanze di tutela della posizione contrattuale e della persona del
    lavoratore. E’ vero anzi che il riconoscimento di standard minimali di tutela a
    beneficio di tutti i lavoratori rappresenta — oggi più che nel passato — anche
    una garanzia dei regimi di concorrenza tra i soggetti economici, arginando forme
    di competizione basate su fenomeni di dumping social
    e (dal lavoro nero tout
    court a forme di sfruttamento del lavoro minorile, etc.).

    Partendo dunque dalle regole fondamentali, applicabili a tutti i rapporti di lavoro
    a favore di terzi, quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto, è poi
    possibile immaginare, per ulteriori istituti del diritto del lavoro, campi di
    applicazione sempre più circoscritti e delimitati, operando un’opportuna
    graduazione e diversificazione delle tutele in ragione delle materie di volta in
    volta considerate e non (come nel vecchio ordinamento) a seconda delle
    tipologie contrattuali di volta in volta considerate. Dunque non si tratta di
    sommare al nucleo esistente delle tutele previste per il lavoro dipendente un
    nuovo corpo normativo a tutela dei nuovi lavori (ivi comprese le collaborazioni
    coordinate e continuative). Non può certo essere condiviso l’approccio –
    proposto senza successo nel corso della precedente legislatura – di estendere
    rigidamente l’area delle tutele senza prevedere alcuna forma di rimodulazione
    all’interno del lavoro dipendente.


    Individuato, dunque, un nucleo essenziale di norme e di principi inderogabili
    (soprattutto di specificazione del dettato costituzionale), comuni a tutti i rapporti
    negoziali aventi ad oggetto esecuzione di attività lavorativa in qualunque forma
    prestata, occorrerà procedere a una rimodulazione delle tutele caratteristiche del
    lavoro dipendente. Al di sopra di questo nucleo minimo di norme inderogabili,
    sembra opportuno lasciare ampio spazio all’autonomia collettiva e individuale,
    ipotizzando una gamma di diritti inderogabili relativi, disponibili a livello
    collettivo o anche individuale (a seconda del tipo di diritto in questione).

    A ciò dovrà aggiungersi un corrispondente riassetto delle prestazioni
    previdenziali. L’avvicinamento dei regimi previdenziali contribuirebbe peraltro
    a sdrammatizzare il problema qualificatorio delle singole fattispecie
    . Del resto il
    processo di riallineamento o rimodulazione delle tutele caratteristiche del lavoro
    subordinato riguarderà anche il profilo della stabilità dell’occupazione. A tal
    proposito si potrebbero ipotizzare per alcune categorie di lavoratori e/o per
    determinate tipologie contrattuali, meccanismi di tipo risarcitorio ovvero
    garanzie crescenti a seconda dell’anzianità di servizio continuativo del
    lavoratore. Si realizzerà in altri termini un sistema di tutela a geometria
    variabile,
    raffigurabile in una serie di centri concentrici di diversa ampiezza
    secondo le materie trattate, tali da comprendere tipologie più o meno ampie di
    rapporti.

    Sul piano della ridefinizione dei criteri di imputazione delle tutele del lavoro si
    potrebbe peraltro andare anche oltre la semplice predisposizione di un nucleo di
    disciplina comune a tutti i tipi di lavoro, rinunciando definitivamente ad una
    definizione generale e astratta di lavoro subordinato, indicando invece, di volta
    in volta, il campo di applicazione di ogni intervento normativo. Una soluzione,
    in questa prospettiva, potrebbe essere quella della creazione di Testi Unici, che,
    oltre a ridefinire il campo di applicazione — soggettivo e oggettivo — di ogni
    tutela (equo compenso, licenziamenti, sospensione del rapporto di lavoro, diritto
    di sciopero, sanzioni disciplinari, etc.), potrebbero anche concorrere alla
    semplificazione e razionalizzazione della normativa esistente.


    In sintesi, il Governo ritiene che sia indispensabile una complessiva
    rivisitazione del nostro ordinamento giuridico del lavoro, innanzitutto
    estendendo livelli minimi di tutela a tutte le forme in cui si estrinseca
    l’attività lavorativa. Dunque partendo dalle regole fondamentali, applicabili a
    tutte le forme di attività lavorativa rese a favore di terzi, quale che sia la
    qualificazione giuridica del rapporto, sarà poi possibile ammettere, per ulteriori
    istituti del diritto del lavoro, campi di applicazione via via più circoscritti, un
    sistema di cerchi concentrici, con una tutela che si intensificherà a favore di un
    novero sempre più ristretto di soggetti. Per consegnare alle imprese un nuovo
    sistema di gestione dei rapporti di lavoro, semplice ed agile, sarebbe utile infine
    sperimentare una procedura di certificazione, cioè di validazione anticipata della
    volontà delle parti interessate all’utilizzazione di una certa tipologia contrattuale.
    La funzione certificatoria, utile a prevenire controversie giudiziali sul piano
    qualificatorio, potrebbe essere esercitata da strutture pubbliche (in sede
    amministrativa) od anche sindacali (gli enti bilaterali, ad esempio)
    .

    Il Governo auspica che su questa proposta possano essere raccolte
    osservazioni ed integrazioni, nella convinzione che una riforma di tal genere
    necessiti del concorso progettuale di tutti gli attori, non esclusa la comunità
    scientifica nell’ambito della quale esse sono state a lungo dibattute.


    I.3.6. Responsabilità sociale delle imprese

    Il Governo condivide il recente Libro Verde della Commissione europea
    Promoting a European Framework for Corporate Social Responsibility (18
    luglio 2001, COM(2001) 366 final), auspicando che gli operatori economici
    italiani possano sviluppare una cultura orientata verso la “responsabilità
    sociale”. Con questo concetto si allude, come noto, non soltanto al semplice
    adempimento degli obblighi di carattere legale imposti da precetti legislativi od
    anche di origine convenzionale, quanto anche all’impegno di andare oltre il
    semplice adempimento investendo sempre più nelle risorse umane
    . Andare oltre
    le prescrizioni legali minime in campo sociale può, del resto, avere un impatto
    rilevante sulla produttività delle imprese, anche se non può certo considerarsi
    una metodologia in alcun modo sostitutiva della regolazione dei diritti sociali
    fondamentali.

    La “responsabilità sociale”, intesa come investimento in capitale umano, può
    rappresentare una scelta strategica vincente per l’impresa, nel senso di
    migliorare il rendimento dei dipendenti, generando maggiori profitti, ed allo
    stesso tempo destando una crescente attenzione nei consumatori e negli
    investitor
    i. Del resto in alcune regioni italiane la situazione del mercato del
    lavoro impone all’operatore economico un comportamento assai attento ai profili
    sociali, finalizzato ad attrarre e trattenere il capitale umano di migliore qualità. A
    questo fine non è certamente sufficiente attenersi agli obblighi di legge od a
    quanto previsto dal contratto collettivo: è necessario andare ben oltre. A ragione
    dunque la Commissione europea raccomanda lo sviluppo di una cultura della
    “responsabilità sociale” che valorizzi l’empowerment dei collaboratori,
    realizzando condizioni di formazione permanente, sviluppo di carriera,
    meccanismi di partecipazione ai profitti, puntando in definitiva alla realizzazione
    di risorse umane di qualità.

    Il Governo sollecita tutti gli attori a prestare attenzione al tema della
    “responsabilità sociale” delle imprese, sperimentandolo anche a mezzo di
    “codici di condotta” di tipo volontario che consentano ai lavoratori ed ai loro
    rappresentanti di valutare la politica delle risorse umane delle organizzazioni,
    instaurando un fruttoso dialogo con il management. Occorre in definitiva
    sperimentare nuove tecniche, comprensive anche di un diverso funzionamento
    dei meccanismi delle assicurazioni sociali, che sia ispirato alla logica del
    management by objectives. Ciò pur nella consapevolezza della difficoltà di
    definire standard di comportamento validi universalmente, compresa quella del
    social auditing, del ‘marchio sociale’ ed altre analoghe. La prospettiva suggerita
    dalla Commissione, autorevolmente confermata dal Consiglio europeo di
    Goteborg (giugno 2001), appare in questo senso condivisibile: transitare da una
    prospettiva meramente regolatoria ad un developmental approach costituisce la
    garanzia per una visione non solo giuridico-istituzionale, ma anche dinamica del
    funzionamento dei rapporti di lavoro e dei mercati in cui sono inseriti. Le tutele
    dell’ambiente, dell’igiene e sicurezza nel lavoro, dei diritti fondamentali nella
    filiera produttiva globale possono rappresentare gli ambiti in cui promuovere lo
    sviluppo di queste iniziative volontarie.


    I.3.7. Giustizia del lavoro
    In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro anche la prevenzione e
    la composizione delle controversie individuali di lavoro deve ispirarsi a criteri di
    equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale.
    La crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale, sia per i tempi con cui vengono
    celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le
    pronunce, da risolversi in un diniego della medesima, con un danno complessivo
    per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro.
    E’ necessario anche in
    proposito guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali
    industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di riflessione e di
    approfondimento.

    La situazione, specialmente in alcune sedi giudiziarie, è davvero grave e deve
    essere affrontata con assoluta urgenza. A tal proposito il Governo considera
    assai interessante la proposta, da più parti avanzata, di sperimentare
    interventi di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia
    in tempi sufficientemente rapidi.

    Tutte le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate con maggiore
    equità ed efficienza per mezzo di collegi arbitrali. Con particolare riferimento al
    regime estintivo del rapporto di lavoro indeterminato, si potrebbe anche
    considerare a riguardo la possibilità di conferire allo stesso collegio arbitrale di
    optare per la reintegrazione o per il risarcimento, avuto riguardo alle ragioni
    stesse del licenziamento ingiustificato, al comportamento delle parti in causa,
    alle caratteristiche del mercato del lavoro locale.


    Fra l’altro alcune recenti intese fra le parti sociali hanno certamente rafforzato la
    soluzione arbitrale in alternativa a quella giudiziale, pur nei limiti e nel rispetto
    dei principi costituzionali che vietano l’obbligatorietà di tale mezzo di soluzione
    delle controversie (v. recentemente Cass. SU 527/2000). Il Governo a riguardo
    considera con perplessità le conclusioni, non unanimi, cui è approdata sul punto
    la “Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del
    lavoro” che ha operato nel corso della passata legislatura per incarico del
    Ministero della Giustizia e del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale.
    Si legge, infatti, nella Relazione che non si è raggiunto consenso
    sull’abrogazione –pure sostenuta da numerosi commissari- del divieto di
    compromettibilità in arbitri delle controversie ex art. 409 cod.proc.civ. e su
    clausole compromissorie, trasfuse nel contratto collettivo e richiamate nel
    contratto individuale, che consentano la devoluzione in arbitri anche quando
    abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di
    legge o da contratti collettivi, nonché sull’impugnabilità, in un unico grado
    davanti alla Corte d’Appello, e solo per vizi procedimentali. Insufficiente a
    rilanciare l’istituto arbitrale nelle controversie di lavoro sarebbe poi la soluzione
    che vincola l’arbitro al rispetto della legge e dei contratti collettivi –impedendo
    così giudizi basati sull’equità- e considera impugnabile il lodo, per qualunque
    vizio, innanzi alla Corte di Appello
    . Occorre approfondire comunque il
    confronto su questa prospettiva, nella convinzione che in ogni caso l’ immediata
    esecutività del lodo nonostante l’impugnazione proposta (principio accolto
    anche nelle stesse intese fra le parti sociali) potrebbe incentivare
    considerevolmente questo istituto processuale.

    Pure nel rispetto dei limiti di natura costituzionale che impediscono di dichiarare
    il lodo non impugnabile, l’istituto arbitrale sarebbe assai incentivato nel ricorso
    volontario delle parti se la decisione venisse resa su base equitativa –unica
    garanzia per tempi certi- e l’impugnabilità potesse essere proposta solo per vizi
    di procedura
    . Il Governo auspica che su questo punto si apra un confronto
    capace di produrre una proposta capace di modernizzare la gestione della
    giustizia del lavoro.

  7. #7
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    Fuoco alle polveri!

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Fuoco alle polveri!

    non ho letto il documento e non sono in grado,
    quanto imputare allo stesso, circa i livelli di precarietà
    e di riduzione dei diritti che vive oggi la
    classe lavoratrice;
    vero è che le leggi alla fine le fa il parlamento..........

    In sintesi, possiamo toccare con mano,
    la scomparsa della proposta politica,
    su temi fondamentali come lavoro,
    previdenza e sicurezza...........

    la deriva turbocapitalista e i suoi frutti avvelenati,
    sono comunque ben visibili...........


  9. #9
    are(a)zione
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    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Fuoco alle polveri!

    Ci devi dare almeno due eoni per leggerci sta roba.

    Ma da dove l'hai copiato/incollato?

  10. #10
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    Citazione Originariamente Scritto da Maxadhego Visualizza Messaggio
    non ho letto il documento e non sono in grado,
    quanto imputare allo stesso, circa i livelli di precarietà
    e di riduzione dei diritti che vive oggi la
    classe lavoratrice;
    vero è che le leggi alla fine le fa il parlamento..........

    In sintesi, possiamo toccare con mano,
    la scomparsa della proposta politica,
    su temi fondamentali come lavoro,
    previdenza e sicurezza...........

    la deriva turbocapitalista e i suoi frutti avvelenati,
    sono comunque ben visibili...........

    Questa è solo la prima parte del documento, il prosieguo contiene proposte di natura più "pratica" anche se vi sono già qui alcune indicazioni paralegislative. E' vero, comunque, che c'è un deficit sempre maggiore di proposta politica, da una parte come dall'altra: se una parte ha preso ciò che del libro di Biagi faceva comodo a Confindustria e l'ha confezionata in maniera elegante (onde poter dire che era "nello spirito di", un pò come le avvertenze "liberamente ispirato a" su certi orridi catrami cinematografici tratti da libri), l'altra si è limitata a fare un paio di ritocchi, senza nè correggere nè completare nè tantomeno invertire la tendenza... C'è da sperare che quanto detto dal Ministro Damiano oggi, ovvero che il Protocollo è solo un primo passo, non venga allegramente disatteso...

 

 
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