Chi ha paura di Hugo Chavez
Maurizio Matteuzzi
Quel che più colpisce, al di là dei legittimi giudizi politici, è l'ignoranza. Poi l'ipocrisia. E terzo, il brandire l'ignoranza e l'ipocrisia come clave per dirimere questioni della parrocchietta italiana. Che Hugo Chavez, il presidente del Venezuela, sia un uomo conflittuale e conflittivo, è sicuro. Che non piaccia a molti è ovvio e plausibile. Sul finire degli anni '90 del secolo scorso, quando fece irruzione come un urgano - «el huracán Hugo» - sulla scena politica (ed elettorale) venezuelana, in molti sorrisero sulla sua «rivoluzione bolivariana». Anche di più risero quando, con la sua faccia da indio e il basco rosso da parà, prese ad atteggiarsi al nuovo Bolivar, el Libertador dell'America latina. Adesso, quasi dieci anni dopo, sorridono e ridono meno. Non è più il buon muchacho che vince le elezioni a man bassa; che resiste a un golpe e a uno sciopero padronal-sindacale appoggiato da Washington; che usa la manna petrolifera come un'arma esattamente uguale all'arma petrolifera da sempre usata dagli americani; che ruba la scena a Lula sul palco di Porto Alegre; che pensa di essere il successore di Fidel; che spinge come un matto per l'integrazione dell'America latina; che insulta il «terrorista» Bush; che trasuda «anti-americanismo» (ma in America latina sanno cosa ha voluto dire la vicinanza del grande fratello del nord); che tenta di forgiare una cooperazione con i paesi dell'ex-Terzo mondo - spesso problematici o «cattivi», per carità, ma non veniteci a raccontare che è per questioni di democrazia e diritti umani - messi al bando dalla «comunità internazionale».Chavez è diventato una brutta bestia da maneggiare. Non solo per l'impresentabile opposizione venezuelana che tanto piace ai Vargas Llosa e anche, nelle sue rare e discutibili versioni democratiche - Teodoro Petkoff, tanto per non far nomi - alla sinistra italiana (indimenticabile l'appoggio dato dai Ds allo sciopero golpista di fine 2002-inizi 2003).
I suoi giochi, le sue mosse, le sue iniziative, la sua spregiudicatezza (petrolifera ma non solo), il suo egocentrismo, le sue tendenze «autoritarie» (innegabili), la sua «megalomania» sconcertano e spiazzano. La sua sfida, sempre più inevitabile ed esplicita, con il brasiliano Lula e gli altri «socialisti buoni» dell'America latina - la cilena Michelle Bachelet, l'uruguayano Tabaré Vazquez - rende facile la scelta di campo. Almeno in occidente e sopratutto qui da noi, nella parrocchietta italiana. Anche l'ultima giocata di Chavez, la riforma della «sua» costituzione del '99, «perfetta e la più bella del mondo», sconcerta e spiazza. Chavez è sempre «border line», su una linea sottile, di confine. A noi, l'Occidente, suona male la modifica di quel certo articolo che toglie limiti di tempo alla rielezione. Noi, l'Occidente, crediamo - al contrario di quel che diceva Andreotti - che il potere logori chi ce l'ha e chi lo eserciti troppo a lungo. Però, per favore, non fingiamo di scandalizzarci per questo e chiamarlo «un golpe costituzionale». Perché se il Venezuela di Chavez è «anti-democratico» allora, come ricordava l'analista politico americano Mark Weisbrot, co-direttore del Center for Economic and Polici Research di Washington, bisognerebbe dire che anti-democratica è l'Inghilterra, la patria del liberalismo, dove la signora Thatcher e il compagno Tony Blair sono restati al potere a lunghissimo, o gli Usa, la patria della democrazia, dove il presidente Franklin D. Roosevelt è restato al potere per quattro mandati consecutivi. Oppure sarà che da noi, l'Occidente, è buono qualcosa che non è buono negli altri punti cardinali? Noi non stravediamo per Chavez, non abbiamo «scelto Caracas come una nuova Avana» (miserabile polemica parrocchiana dei democristiani di Europa contro Liberazione e en passant anche contro il manifesto, troppo «simpatizzante»), non mettiamo la mano sul fuoco per il suo «socialismo del XXI secolo». Ma sappiamo, al contrario di altri evidentemente, un po' di storia e di geografia. La revoca dei limiti di tempo alla rielezione non ci piace - è chiaro? -, ma è un imbroglio grossolano dire che questo equivale a una «rielezione a vita». Bisogna che i pasdaran della democrazia liberal-liberista - il Corriere della sera, la Stampa e via a scalare fino a Europa - abbiano pazienza: se e quando gli elettori venezuelani, che in questi dieci anni hanno scelto almeno 12 volte Chavez, gli voteranno contro e lui non se ne andrà dal palazzo di Miraflores, potranno dire di aver visto giusto. Di qui ad allora, zitti. Perché, fino a prova contraria, fra i 33 dei 350 articoli che Chavez «propone» al parlamento (tutto chavista ma per scelta dell'opposizione,non per colpa sua) e al popolo (via referendum) di modificare non c'è quello che consente - forse unica costituzione al mondo - la revoca popolare del presidente della repubblica. Tre anni fa, l'opposizione l'aveva usato convinta di cacciare «il tiranno» e Teodoro Petkoff garantiva (e la sinistra italiana ci credeva) che Chavez «avrebbe perso qualsiasi prova elettorale». Una provocazione: P.G. Battista lo lasciamo bollire nel suo brodo (infarcito di strafalcioni, come quando scrive che «il caudillo di Caracas abroga de iure la proprietà privata»), ma perché il vice-direttore del Corriere della sera non propone fra i suoi redattori un referendum abrogativo della direzione (vincolante, come in Venezuela)? Ma il Corriere in fin dei conti è libero di fare la politica che i suoi padroni impongono. Il governo italiano dovrebbe essere un po' più serio. Come si fa a presentare un sottosegretario agli esteri, tal Gianni Vernetti, che dichiara, senza che nessuno lo costringa al silenzio, che «non si possono difendere i diritti umani a corrente alternata» - ci dica se ci sono detenuti politici nelle carceri chaviste, o forse si riferisce ai diritti umani violati da Israele in Palestina o ai più di 10 mila palestinesi detenuti senza processo nelle carceri israeliane? - e che «il regime populista di Caracas ha sciolto il sindacato» - ci dica, quale sindacato? -. Ci dovrebbe essere un limite di decenza all'ignoranza, all'ipocrisia e alle beghe di parrocchia.