La Banca Centrale Europea lascia le cose come stanno
Oggi, 6 settembre, si è svolta la riunione mensile in cui il Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea decide il tasso d’interesse dell’euro – o “tasso minimo di offerta applicato alle operazioni di rifinanziamento principali”. Il 2 agosto scorso, pur lasciandolo invariato al 4%, la Banca aveva dato a intendere, nel suo solito linguaggio criptico ma non troppo, che a causa di persistenti segnali inflazionistici un aumento era imminente: oggi invece si è deciso per il mantenimento del tasso di riferimento al 4%.
Cosa è successo nel frattempo, per far cambiare idea agli egregi membri del Consiglio Direttivo? Una spiegazione va ricercata nella crisi di liquidità, innescata da un settore del credito: i mutui cosiddetti sub-prime in America. In seguito a un repentino aumento delle insolvenze nel settore più a rischio dei mutui immobiliari americani (tanto era la facilità del credito concesso e tale la mancanza di controlli che tali mutui erano chiamati, anche prima della crisi, liars loans) una crisi di fiducia si è rapidamente propagata a tutto il mercato del credito. Una quota non secondaria di responsabilità va imputata alle agenzie di rating – le note Moody’s, Standard & Poor’s ecc. – che, in cambio di lauti compensi, hanno certificato come altamente affidabili complessi titoli strutturati composti da ulteriori titoli o derivati che alla prova del tempo si sono rivelati la spazzatura che sin dall’inizio rappresentavano.
Qualunque sia stata la scintilla che ha fatto scoppiare la crisi, resta il fatto che negli ultimi 3-4 anni la propensione al rischio, la ricerca spasmodica di rendimenti, la fiducia nelle capacità del sistema finanziario di assorbire qualunque crisi, nonché la speranza non tanto velata che in caso di necessità la Federal Reserve e le altre banche centrali fossero pronte ad azionare le presse del denaro, avevano portato alla proliferazione dei più fantasiosi titoli strutturati dai nomi come CDO, CLO, ABS, ABCP, MBS, CDS e via innovando. Il risultato è stato che l’accesso al credito si è reso disponibile, in quantità inauditeanche ai progetti più improbabili, nonché a una miriade di speculatori a leva come hedge funds, fondi di private equity, desk di proprietary trading. E la remunerazione del rischio di credito – quale rischio di credito? – è scesa ai minimi di tutti i tempi.
Come da copione, ora invece non solo non vi è più denaro per simili investimenti (investimenti?), ma persino tra le maggiori banche globali c’è riluttanza a prestarsi il denaro tra loro oltre il termine della settimana o del mese, come evidenziato dagli spread record tra tasso giornaliero - normalmente controllato indirettamente dalla banca centrale - e i tassi a 3 mesi. Tali differenziali sono di 0,50% sul dollaro, 0,75% sull’euro e persino 1% sulla sterlina.
Secondo la maggioranza dei commentatori il fenomeno sarebbe circoscritto quantitativamente, e anche geograficamente (agli Stati Uniti), se non fosse per qualche limitato caso di esposizione bancaria europea e asiatica ai prodotti derivati costruiti su quei mutui. L’intervento tempestivo e coordinato delle maggiori banche centrali – oltre alla BCE, la Fed e la Banca del Giappone, mentre quella d’Inghilterra si è comportata in maniera più ortodossa – starebbe riuscendo a risolvere il problema evitando danni all’economia reale, cioè ripercussioni negative sulla crescita. Un esempio di questa interpretazione benigna è l’intervento del 28 agosto di Tommaso Monacelli su la Lavoce.info.
Un’interpretazione di segno opposto è invece quella sostenuta proprio all’esplodere della crisi, il 9 agosto, da Nouriel Roubini, in un post del suo blog dal titolo “Worse than LTCM: Not Just a Liquidity Crisis; Rather a Credit Crisis and Crunch” (RGE - Nouriel Roubini's Blog Archive 2007-08).
Secondo Roubini, in primo luogo a essere insolventi sui mutui contratti sarebbero molti più di quanti si pensa, forse più di un milione di famiglie americane. Non soltanto quindi i debitori definiti sub-prime, ma anche quelli delle categorie near-prime e prime cui sono stati venduti gli stessi pericolosi prodotti (rimborso dei soli interessi, ammortamento negativo etc.). Di conseguenza sarebbero insolventi, o vicini all’insolvenza, un gran numero di creditori/fornitori di mutui: non soltanto quelli esposti sui mutui sub-prime, ma anche molti di quelli esposti sui near-prime e prime. In America più di cento piccole istituzioni creditizie hanno chiuso i battenti e la maggiore nel settore dei mutui, Countrywide, è stata salvata dalla Bank of America dopo che la quotazione di borsa si era dimezzata in poche settimane.
Poi ci sono parecchi costruttori edili che stanno fallendo o sono vicini al fallimento. Poi ci sono le banche esposte ai prodotti derivati (Collateralised Debt Obligations ecc.) contenenti mutui e altri titoli di credito a rischio. Per non parlare della mina vagante degli hedge funds che, per far fronte ai prevedibili riscatti, non avendo accesso ad ulteriore credito, saranno costretti a smobilizzare i portafogli a prezzi da svendita. È noto che due fondi di investimento a leva gestiti da Bear Stearns sono stati da questa chiusi e gli investitori hanno perso praticamente l’intero capitale. Inoltre, due banche tedesche hanno avuto bisogno di urgenti inezioni di liquidità e capitale: IKB e Sachsen LB. Banque Paribas ha congelato per tre settimane, tre suoi fondi – e questa sua decisione, che risale all’otto agosto, ha probabilmente precipitato il lato europeo della crisi. Sia Goldman Sachs che Barclays Bank hanno dovuto immettere liquidità – a colpi da miliardi di dollari – su propri prodotti, rispettivamente hedge funds e SVP (veicoli societari di prodotti strutturati). Scrive Roubini: “le agenzie di rating possono usare la magia voodoo per trasformare questi mutui spazzatura BBB in tranche AAA di CDO; ma sempre di voodoo si tratta se le attività sottostanti sono sull’orlo del fallimento”.
Poi ci sono un gran numero di aziende che negli ultimi due/tre anni hanno goduto di termini favorevoli (ed alcune evitato il fallimento) grazie alla generale abbondanza di liquidità, che permetteva loro di rifinanziare senza problemi i debiti arrivati a scadenza nonché i progetti più speculativi. Questa interpretazione sarebbe corroborata dal fatto che il tasso di fallimento delle imprese statunitense sarebbe stato lo scorso anno un quinto (0,6%) della media storica (3%). Insomma, in giro c’è un sacco di insolvenza pronta a venire a galla, nascosta nei prodotti derivati che, con la benedizione delle agenzie di rating gli intermediari finanziari hanno diffuso e distribuito a livello globale.
In conclusione la tesi di Roubini è che “Questa non è solo una crisi di liquidità come fu nel 1998 la vicenda Long Term Capital Management. Questa è…una più fondamentale crisi di debito, di credito e di insolvenza che interessa parecchi agenti economici negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Iniezioni di liquidità da parte del prestatore di ultima istanza possono risolvere le crisi di liquidità …ma nel caso di crisi di insolvenza…rimandano soltanto l’inevitabile fallimento, rendono la crisi finale più brutta e profonda e causano rischio morale, poiché creano aspettative di salvataggio degli investitori”.
A questo punto la decisione della BCE diventa quasi irrilevante. I mercati danno già per scontato che il tasso di riferimento verrà probabilmente rialzato in seguito e comunque rimane l’indisponibilità da parte delle banche a prestare a termine, tenendo molto elevato lo spread tra tasso a 1 giorno e tasso a 3/6/12 mesi, come sopra osservato, realizzando, di fatto, una stretta creditizia. Inoltre, se la crisi non è di liquidità ma di credito, il problema immediato non è più tanto il costo del credito ma la sua disponibilità. In questo senso c’è chi, come Willem Buiter e Anne Sibert, in Subprime 'crisis': What Central Bankers should do and why pensa che le banche centrali dovrebbero prestare anche a operatori che danno come garanzia titoli di credito illiquidi, fissando loro un prezzo per questi titoli e assumendosi così un sostanziale rischio finanziario e di reputazione. Per contro, tali idee, che sono una variazione sul tema dell’helicopter money dei libri di economia, se messe in pratica sono il classico esempio di moral hazard, ossia di incoraggiamento alla speculazione.
Ci vorranno ancora mesi prima che tutti i rifiuti tossici prodotti dal denaro abbondante di questo inizio secolo vengano a galla. I costi della bonifica dipenderanno dall’estensione dell’inquinamento, ma a noi sembra illusorio sperare che siano contenuti. Se la grande crescita recente dell’economia mondiale è in parte dovuta alla droga monetaria, si è allora trattato di una parziale anticipazione. Nel qual caso toccherà cominciare a restituirla.
Alessandro Ceccaroni, Marco De Andreis
tratto dal sito della Fondazione Ugo La Malfa http://www.fulm.org/
scheda al link http://www.fulm.org/SchedaPubblicazi...blicazione=133