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    per il centro-sinistra
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    Predefinito Saggio sulla questione meridionale - materiale didattico - formativo

    pongo alla vostra attenzione un mio saggio breve sulla "Questione meridionale" come problema storico e politico; un campo di studi sempre utile, ai comunisti ed agli studiosi marxisti, per capire le complessità della società italiana

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    1) La definizione del problema e le sue origini

    L’Unità consegna alle nuove classi dirigenti un Paese complesso e socialmente disastrato. Nel 1861 l’Italia è un Paese agricolo: il 65% della popolazione attiva nel lavoro è impegnata in questo settore. Dentro questo quadro emerge il problema dell’agricoltura meridionale, estranea al processo di trasformazione delle strutture agrarie già avviato in altre regioni della penisola: una trasformazione in senso capitalistico, attraverso processi di privatizzazione delle terre e di mercantilizzazione (la proprietà fondiaria diventa bene mercantile), con l’introduzione di nuove tecniche, la soppressione dei pascoli permanenti e della rotazione triennale[1].

    Nelle regioni centrali e settentrionali del Paese si avvia dunque un fondamentale processo di transizione da un’agricoltura ancora profondamente segnata da rapporti sociali e di lavoro di tipo semifeudale a forme moderne di organizzazione del lavoro rurale. Si costituiscono progressivamente numerose imprese agricole, caratterizzate da colture a più alto valore commerciale e si formano, nel contempo, nuove figure sociali (salariati agricoli, imprenditori affittuari, borghesia agraria) che determineranno una trasformazione dello stesso paesaggio agrario[2].

    Il Mezzogiorno è investito solo marginalmente da queste dinamiche (che nelle altre regioni italiane si erano già sviluppate dalla metà del XIX secolo). La trasformazione dell’agricoltura incontrava notevoli difficoltà a causa dell’assenza di investimenti ed innovazione (lascito del regime borbonico) e nel quadro di una carenza drammatica d’infrastrutture. I grandi latifondisti conservavano in larga parte i vecchi rapporti sociali e di produzione (con il peso schiacciante della rendita fondiaria); non vi fu, in sostanza, l’affermazione di nuove aziende agricole ed i proprietari dei latifondi rimasero completamente assestati sulla rendita parassitaria, incapaci di produrre un processo d’innovazione e di modernizzazione dell’agricoltura.

    L’unificazione politica del Regno d’Italia, non determina una unificazione del “Paese reale”. Nel Mezzogiorno il tasso di analfabetismo tocca il 90% e quello di scolarizzazione il 18%; dati che sommati all’arretratezza dell’agricoltura ed all’assenza di infrastrutture, danno l’idea della enorme portata dei problemi “strutturali” che segneranno la storia del meridione fin dai primi anni dello Stato unitario. Alcune grandi città del Sud, inoltre, saranno investite da forme anomale d’urbanizzazione: un processo di costante concentrazione urbana pur in assenza delle tradizionali dinamiche di sviluppo industriale, legate nel XIX secolo a questo fenomeno, che segnerà lo sviluppo dei grandi insediamenti del Mezzogiorno e che, indagato oggi, evidenzia le origini del problema, purtroppo ancora attuale, della conformazione irrazionale di vaste zone delle grandi città del Mezzogiorno.

    Vi sono ipotesi diversificate rispetto alla questione delle linee dello sviluppo seguite dall’unificazione italiana, ipotesi che evidenziano diversi aspetti della contorta fase dentro la quale si determina la questione meridionale. E’ stato evidenziato il peso decisivo, nel processo unitario nazionale, dell’iniziativa dei gruppi dirigenti, delle loro scelte economiche e politiche; altri hanno rilevato il carattere inevitabile delle scelte compiute dalle nuove classi dirigenti post-unitarie[3], ma vi è stato anche chi ha sottolineato l’impossibilità di slegare dalle esigenze e dalla spinta alla modernizzazione e allo sviluppo di una moderna borghesia ormai in crescente ascesa e concentrata nel Nord del paese, le dinamiche innescate dall’orientamento generale della politica economica cavouriana.

    Si sono affermati dunque orientamenti che hanno sottolineato le “condizioni di partenza” più vantaggiose delle zone del Centro e del Nord del Paese, che avrebbero reso del tutto naturale il ruolo predominante dell’economia settentrionale e nel campo della modernizzazione dell’agricoltura e sul versante della nascente industrializzazione. Altri orientamenti hanno messo in luce il profondo rapporto causale tra la condizione socialmente drammatica della grande maggioranza della popolazione del Mezzogiorno e lo sviluppo della politica economica dello Stato unitario.

    La prevalenza della rendita fondiaria, l’assenza di contratti agrari più equilibrati (mezzadria), l’arretratezza del tessuto sociale, eredità dello stato borbonico, furono alcune delle più importanti motivazioni di fondo che condannarono il Mezzogiorno, nella totale assenza di un intervento dello Stato (se non attraverso inchieste e studi, pur importanti ma nella sostanza scarsamente incisivi[4]), ad una condizione di inaccettabile isolamento[5].
    Nel mentre, in altre zone del Paese, si affermava progressivamente un più vivo rapporto tra società e Stato ed emergevano nuove forze da un tessuto sociale più dinamico; si formavano originali sensibilità politiche e si determinava una crescente iniziativa delle prime forme di organizzazione sociale di massa, con la formazione di nuovi orientamenti democratici[6].

    Questi processi interrogano la contraddittorietà dello sviluppo economico della fase preunitaria, sulla quale le interpretazioni sono state diverse e tutte importanti per comprendere la complessità della formazione degli squilibri della società italiana. Dalla posizione tesa ad evidenziare un dualismo di fondo tra Nord e Sud, che avrebbe orientato obbligatoriamente le scelte delle classi dirigenti nella direzione di uno sviluppo prioritario delle zone più avanzate, alla tesi della subordinazione coloniale, alle posizioni che hanno spinto sulla necessità dell’industrializzazione del Mezzogiorno. Sono temi notevolmente rilevanti per il dibattito sulla questione meridionale, problematiche che segneranno, attraverso critiche e revisioni storiche del processo unitario e del Risorgimento, anche la discussione politica e storiografica sul Mezzogiorno nel corso del XX secolo.

    Entreremo successivamente nel merito delle linee di politica economica riguardanti il Mezzogiorno ed i rapporti di interdipendenza tra sviluppo del Nord e del Sud del Paese nella prima fase dello Stato unitario. Basti qui fare menzione degli inutili tentativi di riforma fondiaria che toccarono marginalmente la rendita dei proprietari meridionali. Non pochi furono i casi in cui le terre espropriate vennero nuovamente riacquistate a prezzi più bassi, con i grandi proprietari ulteriormente rafforzati. Questo quadro di immobilismo risultava evidentemente in contrasto con lo sviluppo crescente delle aree del Paese dove iniziavano a formarsi i primi insediamenti industriali.

    In Lombardia la formazione di uno strato di piccoli proprietari agricoli entra in felice rapporto con l’industria in formazione. Avviene un graduale ed equilibrato trapasso da forme di produzione agricole a forme industriali. Il tessuto agricolo si sviluppa grazie ad investimenti e modernizzazione, dalla grande impresa alla piccola proprietà, sullo sfondo di un più equilibrato tessuto sociale e di un più vivo rapporto tra città e campagna a fronte della disgregazione sociale del Sud.[7] Neppure il successivo sviluppo dell’industrializzazione metterà fine al “dualismo”, che non sarà un fattore transitorio e temporaneo[8] degli squilibri economici e sociali del Paese, bensì una costante; né l’industrializzazione del Nord, con i suoi incessanti ritmi di fine secolo, sarà condizione per la modernizzazione del Mezzogiorno.

    L’arretratezza di un settore agricolo scarsamente toccato dai processi di trasformazione capitalistica e la presenza di “condizioni naturali” non favorevoli (come la precarietà della conformazione idrogeologica) contribuirono all’assenza di quei fattori capaci di rifornimento crescente di risorse e capitali, decisivi in ogni processo di sviluppo economico in senso industriale e moderno. Vi erano, per la verità,, delle zone nella quali sarebbe stato possibile intensificare le colture, ma per l’agricoltura del meridione le possibilità di creare un tessuto economico maggiormente avanzato, erano infinitamente più scarse se rapportate alle regioni del Nord[9].

    La situazione complessiva della Valle Padana, ad esempio, largamente irrigua e fecondamene associata all’allevamento, ordinata in aziende agrarie con buona intensità di capitale, rendeva chiaramente l’idea della distanza tra le diverse aree de Paese. Vi erano poi zone non pienamente sfruttate, nello stesso settentrione, che avrebbero potuto costituire la base di una possibile intensificazione ed espansione per i capitalismo agrario.

    Le grandi possibilità di questa sezione dell’economia del paese rendeva del tutto secondaria l’opzione di un collegamento delle diverse regioni sul terreno di un sistema e di un mercato unitari. Esisteva, nel Nord, una situazione di prevalente autosufficienza ed andava affermandosi un tendenza, da parte di alcuni ristretti settori dell’economia meridionale, alle esportazioni delle eccedenze agrarie verso il mercato internazionale.

    Erano dunque molteplici i versanti sui quali si alimentava la profonda spaccatura del Paese. Ai fattori di carattere territoriale ed ai diversi processi storico-economici si univano cause strutturali di grande impatto.

    Il divario netto e progressivo di quelle che Giustino Fortunato ha chiamato “le due Italie” fu infatti acuito da un ulteriore aspetto, indagato a fondo dalla successiva riflessione meridionalista sullo sviluppo “dualistico”. La crescita demografica del Mezzogiorno, a partire dalla metà dell’800, sommata alle arretrate strutture agricole, non corrispose, come è evidente, ad un aumento complessivo del reddito. Nelle regioni settentrionali, al contrario, il contenuto aumento demografico ed il conseguente miglioramento della distribuzione del reddito stesso, permisero l’accumulazione progressiva di capitali e forze in grado di trasformare l’economia agricola, attraverso una costante innovazione, in senso moderno ed intensivo[10].

    Sovrappopolazione e mancato sviluppo agricolo saranno una costante dei problemi sociali del meridione (un ritardo che sarà accentuato nei primi decenni del XX secolo e nel corso del ventennio fascista). La borghesia agraria del Mezzogiorno manterrà così tutte le caratteristiche, sul piano sociale e civile, delle vecchie classi proprietarie feudali.

    Altre differenze si collegavano alla dinamica dello squilibrio Nord – Sud: l’economia agricola del Mezzogiorno fu caratterizzata fin dai decenni anteriori all’Unità, da una scarsa differenziazione e da una quasi inesistente commercializzazione. Il grosso della produzione restava irretito nelle maglie dell’auto-consumo e dei modesti scambi nei mercati dei piccoli centri.

    Nelle regioni del Nord la mentalità mercantile[11] investiva tutta l’agricoltura e dal commercio dei prodotti, oltre che tra gli stessi ceti proprietari, emergevano numerosi imprenditori, pronti a spostarsi verso altri rami d’attività. Nel meridione la propensione alla trasformazione mercantile dell’economia rurale costituiva un fattore del tutto marginale. Fin dalla metà del XIX secolo si rilevava così la totale assenza di forze sociali in grado di trainare l’economia agricola del sud. In questo vuoto si inseriranno presto intermediari e referenti delle reti mafiose e camorristiche: una caratteristica di ulteriore disgregazione e ritardo.





    2) La politica economica dello Stato unitario

    Il ritardo delle strutture economiche e sociali del Mezzogiorno determinava così le premesse della mancata unificazione reale del paese. Mentre si assisteva ad una costante relazione tra le prime spinte all’industrializzazione nelle zone nord-occidentali del Paese e lo sviluppo di un capitalismo agrario di mercato (in particolar modo in alcuni settori della Valle Padana), la rendita fondiaria, l’agricoltura estensiva e largamente improduttiva e le condizioni di vita sempre più difficili delle masse, inchiodavano le regioni meridionali alla loro situazione di estrema povertà[12].

    Questi fattori economici e strutturali costituiranno sia il portato di uno squilibrio di fondo risalente, come abbiamo evidenziato, alle profonde diversità del tessuto sociale dei diversi Stati italiani preunitari, sia una delle più rilevanti cause delle difficoltà che le classi dirigenti uscite dal processo risorgimentale dovranno affrontare nella costruzione dei diversi indirizzi di politica economica, nella definizione delle alleanze politiche e sociali, nel più generale tentativo di modernizzare un Paese frammentato ed in profondo ritardo rispetto al quadro europeo.
    Vi è un fattore di fondo che permea tutta l’azione delle classi dirigenti uscite dal Risorgimento (in tutti i passaggi politici della seconda metà del XIX secolo, da Cavour e i governi della Destra storica, al trasformismo, ai governi della Sinistra): un conflitto, costante e profondo con la dimensione, esclusa ed emarginata, delle grandi masse di popolo. Questa distanza è ancora più evidente se l’attenzione si concentra sulla storia del Mezzogiorno, dove lo scollamento tra una società arretratissima e le classi dirigenti è complessivamente generalizzato.

    Per enucleare i problemi di fondo del rapporto tra questione meridionale e politica unitaria, è necessario evidenziare la complessità degli attori sociali che segneranno le linee dello sviluppo economico con il loro peso specifico e che determineranno pure, nel quadro di rapporti di forza non ancora ben delineati tra borghesia agraria del Centro – Nord, classi proprietarie del Mezzogiorno, borghesia industriale in formazione, cambiamenti di rotta ed indirizzo tanto importanti quanto contraddittori. Il quadro del Paese, in una fase di profondi mutamenti, sarebbe stato scosso infatti dal tentativo politico di accumulare forze e capitali in vista di una modernizzazione industriale che, in rapporto al contesto europeo, appariva non più rinviabile ai gruppi dirigenti liberali.

    Il dibattito nel merito, sia coevo che storiografico, ha fornito una lettura variegata ed articolata della politica economica dello Stato unitario. La prima fase della politica cavouriana, sullo sfondo del divario già evidente tra Nord e Sud, fu in parte tesa alla creazione di alcune condizioni essenziali per il futuro sviluppo industriale: l’apertura ai mercati europei ed internazionali del capitalismo agrario e l’accumulazione per questa via di risorse decisive per l’apertura del processo d’industrializzazione (che proseguirà fondamentalmente nella fase protezionistica della politica economica italiana)[13].
    Queste scelte, incentrate su di un indirizzo liberistico e fondate sull’idea di uno sfruttamento più intenso delle potenzialità del capitalismo agrario costituirono, secondo diverse interpretazioni, il necessario tentativo di sviluppare risorse per il Mezzogiorno, per la costruzione di un nuovo tessuto d’imprese agricole in grado di cucire il divario tra le diverse regioni del paese, sul terreno decisivo delle strutture economiche.

    Tuttavia appare arduo porre in secondo piano gli elementi di interdipendenza tra sviluppo del Nord e ritardo del meridione, tanto più se si guardano i risultati di quel processo di quotizzazione (privatizzazione) delle terre avviato nella prima fase unitaria e risolto nella totale assenza di un reale mutamento dei rapporti sociali. I ceti proprietari del Mezzogiorno avevano preso semplicemente il posto della vecchia feudalità[14]. La divisione delle terre demaniali aveva favorito ancora una volta un ceto proprietario parassitario e le rendite fondiarie, mentre nelle regioni centro-settentrionali il mercato agricolo e la modernizzazione dei sistemi produttivi vivevano una fase di progresso.

    Le diversità dei gradi di sviluppo e la differenziazione delle strutture agrarie e delle stratificazioni sociali, non furono affrontati con il necessario equilibrio dalle classi dirigenti. Lo Stato unitario condurrà una politica di annosa sperequazione fiscale che sfavorirà le debolissime energie economiche dell’agricoltura meridionale[15].

    Questo modo di drenare risorse (così come la totale subordinazione politico-economica del Sud nel periodo del protezionismo e dell’industrializzazione, negli anni ’80 del XIX secolo) metterà in luce un problema sociale enorme (il primo periodo della riflessione dei meridionalisti parlerà proprio di “questione sociale”, a sottolineare il carattere nazionale di un problema non circoscritto solo al Mezzogiorno), frutto non solo di un “dualismo” strutturale di fondo, ma anche e soprattutto dipendente da scelte politiche tese a favorire alcuni settori economici e regionali a scapito delle zone più deboli del Paese (e gli intellettuali meridionalisti saranno i primi a mettere sotto accusa la politica di sperequazione fiscale).

    La politica economica della prima fase, favorì per questa via la crescita di quella borghesia agraria del nord di cui buona parte dei gruppi dirigenti del nuovo Stato era diretta espressione. Di qui l’indirizzo economico liberista, che tagliava fuori dai mercati europei la debolissima agricoltura del Mezzogiorno, già fortemente in ritardo e caratterizzata dalla totale assenza di competitività e d’innovazione. Tutto questo favorì il consolidarsi del potere della rendita e l’acuirsi di una situazione di immobilismo economico e di disgregazione sociale.

    D’altra pare il ceto dei grandi agrari meridionali era una parte essenziale del blocco di forze che aveva costruito il nuovo Stato unitario: il dominio sociale e politico che esso continuava ad esercitare nel Mezzogiorno e la sua influenza nella vita generale dello Stato dovevano creare un limite decisivo all’opera di rinnovamento della società meridionale. In questo quadro istituzionale, le stesse iniziative di riforma finirono con il conseguire, come abbiamo visto, risultati opposti a quelli desiderati.

    Più tardi il disegno della politica d’industrializzazione, che ebbe il suo momento culminante nella svolta protezionistica del 1887, fu elaborato con il presupposto della difesa ad oltranza delle strutture agrarie delle regioni meridionali e si svolse quindi su di una linea che non comprendeva la prospettiva dello sviluppo del Mezzogiorno[16]. L’indirizzo dato alla costruzione dello Stato e le direttive della politica economica miravano di fatto alla conferma di un blocco sociale ben definito, mentre lo sviluppo economico italiano aveva proprio nell’inferiorità del Mezzogiorno uno dei suoi grandi ostacoli: in questo quadro si manifestava una delle più profonde contraddizioni della storia della società italiana.

    L’alleanza con i ceti proprietari meridionali, con i latifondisti, non fu una tappa transitoria di una progressiva affermazione delle nuove forze dell’industria e di un capitalismo agrario moderno. Questo blocco di forze, stabilmente consolidato, frenò infatti strutturalmente il progresso di vasti settori del territorio nazionale, segnando profondamente la vita e lo sviluppo di grande parte della società italiana.

    Le condizioni dello sviluppo dell’industria, come abbiamo visto, furono determinate in larga parte da un crescente sfruttamento finanziario del Sud. Se questo processo, secondo alcune letture, fu di fatto obbligato dallo storico dualismo italiano (che determinava politiche dolorose ma necessarie e tese allo sviluppo prioritario dei settori più dinamici dell’economia in funzione della futura crescita del resto del Paese), questo riversò però i suoi costi interamente sui contadini poveri del Mezzogiorno.
    La crescita del settore industriale fu preceduta ed accompagnata da una crisi agraria (1880-95) notevole, che determinò una rilevante caduta dei prezzi dei prodotti. A questa situazione, mentre altri Paesi ed aree europee rispondevano a seconda dello sviluppo raggiunto e delle politiche adottate, l’Italia seppe porre scarso rimedio. Nelle regioni italiane del Centro-Nord i gruppi più dinamici della giovane economia capitalistica si attivarono per superare lentamente le difficoltà, mentre nel Mezzogiorno la già difficile situazione socioeconomica fu ulteriormente acuita dalla crisi.

    La crisi mostrò nuovamente lo stretto rapporto tra gruppi dirigenti e proprietari fondiari meridionali. Con la caduta del prezzo del grano infatti, i ceti proprietari del Sud ottennero l’introduzione di un dazio d’importazione che costituiva in tentativo di stabilizzare il prezzo interno del prodotto, assolutamente basilare per le rendite del latifondo del Mezzogiorno.

    Tuttavia fu l’introduzione del protezionismo industriale (1887) a determinare i fattori di maggiore incidenza sul ritardo dell’economia del meridione. La nuova politica economica, frutto delle crescenti spinte delle nuove forze dell’industria del Nord sui governi della sinistra (che dal 1876 si erano sostituiti alla vecchia Destra storica) e sulle classi dirigenti trasformistiche, prodotto di varie alleanze tra diversi settori dei gruppi sociali dominanti e più influenti, aveva favorito in modo particolare la nascente siderurgia, la cantieristica, la chimica: rami industriali concentrati esclusivamente in quelle regioni settentrionali dotate delle condizioni infrastrutturali necessarie.

    Il Mezzogiorno fu tagliato fuori da ogni iniziativa industriale e colpito nei suoi già marginali settori agricoli con un minimo peso di mercato, obbligato a limitare le esportazioni dei prodotti non sostenuti da alcun potere contrattuale e trovandosi, nel contempo, a dover affrontare l’aumento dei prezzi dei manufatti.

    Il ritardo economico e sociale del Mezzogiorno assumeva progressivamente le caratteristiche di un fattore strutturale e strategico per il tipo di sviluppo scelto dalle classi dirigenti dello Stato unitario. Il carattere “dualistico” della crescita del Paese diveniva così conseguenza di chiare scelte politiche e di un sistema di alleanze sociali dove la rendita fondiaria manteneva un ruolo egemonico nella società meridionale, consolidando il proprio sostegno ai gruppi dirigenti del nord e garantendosi, come abbiamo visto, appoggio politico e tutela dei propri privilegi.
    Anche il processo d’industrializzazione, che condurrà l’economia del Paese nelle crescenti difficoltà dei primi decenni del XX secolo, sarà così non tanto una condizione obbligatoria per il successivo ammodernamento del Mezzogiorno[17], quanto un passaggio atto a consolidare quelle alleanze sociali e politiche che non erano solo la conseguenza degli squilibri del Mezzogiorno stesso, ma una delle cause del suo immobilismo e della sua miseria.

    Le regioni meridionali si trovarono così schiacciate da entrambi gli indirizzi di politica economica messi in campo nella seconda metà del XIX secolo dal nuovo Stato. Se la scelta liberista della Destra, aveva favorito i settori più moderni dell’agricoltura, accrescendo la domanda dei mercati europei e stimolando una più profonda relazione, al Nord, dei nascenti insediamenti industriali con l’economia rurale, il protezionismo e la politica industriale perseguita dai governi della sinistra e dai gruppi dirigenti che successivamente si affermeranno nella pratica del trasformismo (accompagnata dalla crisi agraria), aveva bloccato ogni possibilità di sviluppo dell’agricoltura meridionale, limitando la concorrenza dei mercati in funzione della crescita della domanda interna e dello sviluppo, per questa via, dell’industria nazionale[18].

    L’aumento della spesa pubblica (20% del Pil) d’altra parte, testimoniava (sul finire degli anni ‘80 dell’800) un intervento rilevante dello Stato nei processi di sviluppo industriale, finalizzato alla crescita della domanda ed alla costruzione di infrastrutture e servizi funzionali al miglioramento del tessuto sociale; uno scenario dal quale resterà escluso il Mezzogiorno, dove, in futuro, ogni tentativo d’industrializzazione si arenerà in un contesto di “deserto sociale”, privo delle condizioni di base necessarie ad una generale modernizzazione economica e civile.

    Il tentativo di sviluppare una moderna economia capitalistica muoveva così da presupposti di profondo squilibrio. Contribuiva a tutto ciò l’assenza di un vero mercato nazionale, la prevalenza nel Mezzogiorno del latifondo parassitario, uno sviluppo industriale contorto e concentrato esclusivamente nelle regioni del Nord[19]. Saranno elementi di profondo ritardo che si protrarranno fino alla crisi dello Stato liberale ed all’avvento del fascismo.





















    3) Il dibattito storico e politico

    La “Questione meridionale” si impone nel dibattito politico e culturale dell’ultimo trentennio del XIX secolo, come problema dello sviluppo nazionale e più in generale come complessa “questione sociale”: non solo dunque materia di studio per gli economisti ma soprattutto fotografia degli immensi squilibri della società italiana. L’apertura della discussione su questa problematica fu ampiamente favorita da una serie di inchieste sul Mezzogiorno e sulla situazione dell’agricoltura italiana, che contribuirono a fare luce sulle reali condizioni di una parte del paese, rendendo pubblica una realtà di miseria tanto sconcertante quanto abbandonata a se stessa.

    I lavori di inchiesta[20] di studiosi come Pasquale Villari o Sidney Sonnino ebbero infatti il merito di tracciare il quadro di un Mezzogiorno devastato e drammaticamente arretrato, dando vita non solo ad un campo di studi che sarà decisivo per la formazione degli intellettuali più impegnati sul problema, ma soprattutto ad una vasta discussione politica di carattere nazionale che, in assenza di questi determinanti contributi, non sarebbe certamente emersa così rapidamente.

    Le posizioni che si delinearono, dall’apertura della discussione sul Mezzogiorno fino all’incalzante critica rivolta alle classi dirigenti dello Stato unitario, ebbero una comune ispirazione: la profonda convinzione, cioè, dell’assenza di una risposta politica ai gravi ritardi delle strutture economiche semifeudali del Sud ed alla conseguente emergenza civile e sociale determinata. Quella dei “meridionalisti” divenne forzatamente una battaglia politica che, ad uno sguardo attento, capace di coglierne l’assoluto disinteresse e la pluralità delle sensibilità in campo, assume ancora più valore.

    Dalla riflessione sulla centralità del latifondo, all’analisi delle condizioni idrogeologiche del territorio, dalla critica alla politica economica e di sperequazione fiscale, all’opposizione ad una industrializzazione “forzata” da un protezionismo assolutamente poco vantaggioso per il meridione e la sua debole economia rurale, dalla richiesta di un profondo intervento nel tessuto sociale e civile alla necessità di una equilibrata crescita industriale. Il ventaglio delle problematiche e delle proposte andava definendosi in tutta la sua complessità e non escludeva, da una critica mirata ed argomentata, nessuna scelta compiuta dai governi del Regno d’Italia che si erano alternati negli anni.

    L’incisività ed il realismo che contraddistinsero il pensiero dei meridionalisti fecero comprendere da subito agli stessi protagonisti, la difficoltà della battaglia da affrontare in uno scenario caratterizzato dalle crescenti spinte delle forze sociali (prevalentemente rendita fondiaria ed industria) più influenti sull’operato delle classi dirigenti. Una delle caratteristiche del meridionalismo sarà così la costante propensione ad un approccio da “profeti disarmati”, esclusi dai processi decisionali reali, ma, per questo, ancora più determinati. La riflessione meridionalista non si tradurrà mai in programma politico, ma costruirà negli anni un bagaglio di studi e di proposte non eludibili, che finiranno per imporsi all’attenzione delle istituzioni fino al fascismo e, con la sua sconfitta, ben oltre questo

    L’unificazione politica del Paese comportò fin da subito una serie di scelte contraddittorie in materia di politica economica e fiscale. I governi liberali, i governi della Destra storica, affrontarono con scarso equilibrio, fin dal loro esordio alla guida dello Stato, il problema della costruzione di un sistema fiscale e creditizio in grado di rispondere alle diversità profonde che dividevano le varie zone della penisola e le relative strutture economico-produttive.

    Unificate le leggi ed il sistema tributario sul modello del vecchio Stato sabaudo, il Mezzogiorno iniziò a pagare, per i difetti di questo tipo di assetto, più imposte di quante avrebbe dovuto pagarne in proporzione al Nord, ricevendo benefici (opere pubbliche e servizi) non solo non proporzionali ai suoi maggiori bisogni, ma inferiori a quelli assicurati ad altre regioni. I risparmi ed il suo potenziale sviluppo furono così ridotti anziché accresciuti ed i suoi già scarsi capitali furono distrutti dalla politica monetaria dello Stato.

    Uno dei campi della critica meridionalista degli esordi fu dunque costituito dalla profonda opposizione alla politica fiscale del nuovo Stato[21]. Una posizione ispirata dall’importanza data alla necessità dello sviluppo dell’agricoltura meridionale nella direzione di una minore oppressione fiscale, tesa a favorire la formazione di un ceto di piccoli proprietari, che, con il supporto dello Stato, avrebbero potuto far emergere quelle forze imprenditoriali capaci di modernizzare le strutture rurali, legando le regioni del Sud al restante contesto nazionale (politico ed economico).

    All’assenza di capitali investiti e di un supporto della politica, si andò a sommare così una tendenza alla sperequazione fiscale che colpiva le scarse risorse rimanenti. La conseguenza principale, di fatto, di un’economia “dualistica” come quella italiana, nella quale convivevano una zona avviata allo sviluppo industriale ed alla modernizzazione ed una zona rurale ed arretratissima, fu quella di accrescere gli squilibri invece di correggerli.

    Studiosi come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti[22] evidenziarono con rigore le contraddizioni della politica fiscale dei primi governi unitari, aprendo il campo ai successivi interventi nella discussione sul Mezzogiorno e lo sviluppo nazionale: fu la politica protezionistica (1887), infatti, ad essere maggiormente sottoposta ad una durissima gamma di obiezioni e critiche, che ne avrebbero messo in luce mancanze e difficoltà. Tuttavia i giudizi sulle diverse impostazioni della politica unitaria, ebbero una caratteristica comune di fondo: l’idea di una costante interdipendenza tra lo sviluppo di determinate aree del Paese e le condizioni strutturali di arretratezza di una vasta porzione della penisola.

    L’accordo generale su questa posizione non ha impedito una varietà di interpretazioni del rapporto tra Nord e Sud e tanto meno ha impedito profondi contrasti sul piano dell’azione politica ed economica. Nella “prima fase” del meridionalismo, successiva ad alcuni lavori d’inchiesta (molto importanti per la loro capacità di far emergere la questione nel dibattito politico ed economico nazionale[23]) e sviluppatasi nei primi anni dopo l’unificazione, fu posta l’attenzione sulla politica di accumulazione di capitali e di condizioni favorevoli, da parte dello Stato, nelle zone che costituiranno successivamente le aree maggiormente industrializzate del Centro – Nord.

    In questa congiuntura una parte dei mezzi necessari all’operazione vengono sottratti alle regioni meridionali: lo squilibrio del rapporto contributivo (conseguente all’estensione di un sistema fiscale modellato sulle strutture del vecchio stato piemontese e sabaudo) tra le regioni è, infatti, uno dei punti centrali della critica dei primi studiosi “meridionalisti”, così come l’unificazione del debito pubblico, che fece gravare sul Mezzogiorno il peso di una passività che apparteneva in gran parte all’ex Regno di Sardegna.

    Le posizioni che si consolidarono intorno alla rivista “Rassegna Settimanale” (Sonnino, Franchetti, Fortunato) tra gli anni ’70 ed ’80 del XIX secolo, si concentrarono decisamente sulle difficoltà dell’agricoltura meridionale a seguito della politica fiscale. L’ampliamento del mercato, l’incremento del credito, l’ammodernamento della legislazione sul commercio, la vendita dei beni ecclesiastici e demaniali, furono fattori che pesarono solo marginalmente sulle strutture agrarie del meridione; la pressione sulle campagne ed il drenaggio costante di risorse posero il Mezzogiorno in una condizione di subalternità e di isolamento. Anche se la spesa pubblica fosse stata distribuita in modo equilibrato, sarebbero prevalsi comunque i criteri generali di costruzione dello Stato unitario, totalmente squilibrati, sia per l’indirizzo politico, sia per le scelte complessive delle classi dirigenti.

    Gli studiosi che abbiamo collocato in questa “prima fase” (di tendenze liberali e su posizioni liberiste in economia) non escludevano l’esistenza di una differenza “preunitaria” tra Nord e Sud, ma sottolineavano, non a torto, che quel divario aveva assunto proporzioni enormi in conseguenza di un preciso indirizzo politico dello sviluppo economico italiano, impresso dalle scelte dello Stato. Nella “seconda fase” della politica economica del Regno d’Italia, l’adozione di un rigido sistema protezionistico contribuiva ad aggravare un rapporto Nord – Sud che si faceva, progressivamente, di “sfruttamento”, nella misura in cui il mercato interno (e segnatamente quello dei prodotti industriali) si strutturava (come hanno evidenziato gli studi e gli scritti di alcuni esponenti della “critica meridionalista” all’industrializzazione[24]) su basi che accentuavano una subalternità quasi “coloniale” del Mezzogiorno.

    Secondo questa prospettiva d’analisi (che sarà posta in evidenza da uomini politici e studiosi come Nitti e lo stesso Gaetano Salvemini), l’industria settentrionale in formazione, protetta da dazi elevati e sostenuta dallo Stato, avrebbe avuto un mercato esclusivo e privilegiato nel Mezzogiorno agricolo, che le nuove condizioni create dal protezionismo gettavano in una terribile fase critica, con la conseguente rottura dei rapporti commerciali con i Paesi importatori di prodotti meridionali (crisi agraria della metà degli anni ’80 del XIX secolo).

    Il mercato internazionale si chiuse ai prodotti dell’agricoltura e il Mezzogiorno fu progressivamente costretto ad acquistare a prezzi elevati i prodotti dell’industria nazionale (e contemporaneamente a vendere a prezzi molto bassi i suoi prodotti già scarsamente competitivi sul mercato). L’industria italiana, dunque, (secondo un’analisi che verrà poi ripresa da alcune tendenze del pensiero democratico, da Dorso ed, in parte, anche da Gramsci) sorta su basi parassitarie, non aveva reali ed autonome capacità di espansione ed aveva come condizione permanente di vita la subalternità delle aree del Mezzogiorno.

    Ad una critica concentrata, nei primi anni dell’unificazione, sulla sperequazione fiscale e lo sviluppo della modernizzazione dell’agricoltura capitalistica del Centro – Nord, si aggiungeva dunque, da parte dei meridionalisti della “seconda fase”, un’opposizione ancor più netta alla politica del protezionismo industriale (sviluppata nell’ultimo decennio del XIX secolo).

    Alla più generale critica degli squilibri dell’industrializzazione (Nitti, Salvemini) si andò progressivamente sommando una “scuola” meridionalista di carattere democratico e radicale, che, nei primi decenni del XX secolo, contribuirà (oltre ad una revisione di carattere storico delle origini del processo unitario e risorgimentale) a rinnovare gli studi sul Mezzogiorno, spostando l’attenzione sulle condizioni generali del “tessuto civile” del meridione, sui rapporti sociali, sui ritardi amministrativi.

    Secondo questa prospettiva, lo sviluppo economico, che aveva come presupposto la formazione e l’investimento di capitali, la definizione di iniziative imprenditoriali, la crescita delle infrastrutture adeguate (tutti fattori, come abbiamo visto, rimasti marginali nel Mezzogiorno ed oggetto delle critiche del primo meridionalismo), necessitava altresì di un tessuto sociale e civile “sano”. L’accusa alla politica dello Stato unitario sarà quella di aver costantemente favorito la concentrazione dei gruppi sociali più conservatori, settori del malaffare, ceti parassitari, grandi proprietari, con grave danno per i gruppi progressisti, le forze sane dell’impresa, i lavoratori ed i contadini, dalla cui crescita civile e dal cui sviluppo sarebbe potuto scaturire un processo di crescita complessiva ed equilibrata del Sud.

    Dall’affermazione dei governi “trasfrormisti” della Sinistra fino alla “crisi di fine secolo” infatti, la classe dirigente meridionale sarà progressivamente inserita nei gangli dello Stato, attuando una politica totalmente opposta alle urgenze ed alle domande della grande maggioranza della popolazione meridionale. Il blocco conservatore fu consolidato così, nonostante l’opposizione meridionalista, da uomini politici espressione della grande proprietà del Sud, spesso referenti di clientele, malaffare, reti criminali, che, attraversando la politica giolittiana, favoriranno non poco lo sgretolamento dello Stato liberale, già debole e precario nelle sue strutture, fino all’avvento del fascismo.






























    4) I protagonisti del dibattito sul Mezzogiorno

    La crisi della Destra storica, la fase “trasformistica” della riorganizzazione delle classi dirigenti, il più generale logoramento delle strutture sociali e politiche formate negli anni conclusivi del Risorgimento, definivano il quadro dentro il quale andava affermandosi l’esigenza di nuove analisi e nuove risposte rispetto alla formazione della “questione sociale” del Mezzogiorno. La stessa cultura politica liberale si interrogava sulle difficoltà della costruzione dello Stato unitario e proprio dall’articolata intellettualità d’estrazione liberale veniva un significativo contributo alla discussione del problema, attraverso la rivista “Rassegna Settimanale”.

    Questa esperienza infatti, più che affermare una nuova corrente politica o nuove posizioni e prospettive, definiva un metodo di indagine strutturato su di una propensione all’inchiesta ed alla scoperta di importanti aspetti della realtà nazionale.

    Il lavoro del gruppo formatosi intorno alla rivista fu caratterizzato da una critica trasversale ai gruppi dirigenti e da una proposta d’ispirazione liberista che investirà sia la politica protezionistica (1887), frutto del compromesso tra la borghesia del Nord e i grandi proprietari del meridione, sia la debolezza della politica della Destra, apparsa fin da subito squilibrata ed incapace di risolvere le profonde contraddizioni delle strutture rurali del paese.

    Il lavoro di Pasquale Villari, già nel corso degli anni ’60 del XIX secolo, contribuiva a spostare notevolmente l’attenzione su quella che diverrà una delle grandi questioni della politica italiana della “crisi di fine secolo”. Il Risorgimento aveva lasciato aperti numerosi problemi che spingevano ad una più attenta analisi delle modalità di costruzione dello Stato unitario perseguite nella prima fase del Regno d’Italia; vi era infatti in alcuni settori liberali più attenti agli squilibri crescenti del Paese, la sensazione di un profondo ritardo e di una crescente incapacità delle classi dirigenti di aprire una fase di rinnovamento ponendo lo Stato italiano al passo con il resto del campo europeo. Villari scriverà: “L’Italia nuova si trovò formata dagli stessi elementi di cui era composta l’Italia vecchia, solo disposti in ordine e proporzione diversa”[25].

    La “Rassegna settimanale” ebbe la straordinaria importanza di chiarire il nodo centrale degli squilibri e dei ritardi che il Risorgimento e l’Unità non avevano saputo affrontare: la questione delle condizioni di miseria e di oppressione in cui versano le classi povere del Paese ed in modo particolare la popolazione contadina del Mezzogiorno. A conferma del problema posto con forza dagli scritti di Villari andavano sommandosi i lavori di Franchetti, di Sonnino, di Giustino Fortunato. Attraverso la denuncia della “questione sociale” il gruppo tendeva ad acquistare una sua originale fisionomia che si distingueva dal resto del campo moderato e liberale né si univa a quei settori dei ceti agrari che protestavano contro “l’oppressione fiscale” (nonostante la centralità della critica di “Rassegna” al sistema di sperequazione perseguito dalle classi dirigenti).

    La condizione di profondo disagio e di miseria, l’arretratezza complessiva delle strutture del Mezzogiorno, erano infatti strettamente legate ad una più vasta analisi delle dinamiche dell’economia agricola italiana, alle sue strutture ed all’ordinamento della proprietà. La questione fondiaria sarà messa in grande evidenza dai lavori di Giustino Fortunato (a lui si deva la definizione delle “Due Italie” che ricorrerà spesso negli scritti, anche i più recenti, dei meridionalisti e più in generale degli studiosi della questione del Mezzogiorno) a testimonianza di una profonda attenzione per quello che veniva considerato un nodo centrale dei ritardi dell’economia: il problema della rendita fondiaria concentrata nel Mezzogiorno a seguito di una sciagurata politica di vendita dei beni demaniali[26] (un processo che al Nord aveva favorito la modernizzazione delle strutture agricole in senso capitalistico ed imprenditoriale).

    Per i meridionalisti di “Rassegna”, di formazione liberista, l’economia italiana doveva urgentemente rimuovere i potenti residui feudali delle strutture rurali, attraverso un’oculata politica di alleggerimento fiscale e d’investimenti, funzionali alla rimozione dei limiti posti allo sviluppo di un moderno ceto di proprietari più attenti alle esigenze dei contadini, nel quadro di un’organizzazione dell’agricoltura regolata da contratti più equi e da una legislazione sociale che garantisse maggior sicurezza sul lavoro e condizioni di vita, igieniche e sanitarie dignitose.

    Al profondo rinnovamento della prospettiva meridionalista contribuirono grandemente anche alcuni esponenti politici che coniugarono la loro iniziativa di studiosi con la costante iniziativa sul terreno della concreta battaglia nelle istituzioni. Francesco Saverio Nitti fu uno di questi. Nitti aggiornò profondamente le posizioni di “Rassegna Settimanale” e dei suoi intellettuali, adattandole alla mutata situazione politica ed economica (fine della Destra storica, protezionismo economico) e, soprattutto, concentrando la propria attenzione sul nascente processo d’industrializzazione e sulle sue ripercussioni sullo stato del Mezzogiorno.

    Nitti si faceva portatore di una tesi che acquisterà, in futuro, notevole popolarità tra i meridionalisti: quella dell’esistenza di un meridione ricco prima del 1860 (ove esistevano cioè le premesse della sua possibile crescita e trasformazione), una convinzione che sarà alla base della visione ottimistica dell’esponente politico lucano, della sua fiducia nella possibile risoluzione dei problemi del Mezzogiorno che erano, secondo la sua posizione, essenzialmente dovuti alle scelte della politica e che avrebbero potuto essere superati da un più attento indirizzo dello sviluppo industriale.

    Nitti (come anche Napoleone Colajanni, uno studioso siciliano che scriverà importanti pagine sul movimento dei fasci siciliani e contro le tesi razzistiche antimeridionali che andavano affermandosi in alcuni settori della sociologia lombrosiana[27]) pensava che il processo d’industrializzazione avesse una tendenza spontaneamente espansiva e che si trattasse di agevolare, con opportune misure, l’attuazione di iniziative industriali. L’industrializzazione doveva dunque investire anche il Mezzogiorno, supportato dall’iniziativa politica e dall’intervento dello Stato.

    La sua fu un’impostazione “produttivistica” molto diversa dal tradizionale riformismo meridionalista della prima fase, concentrata sul sostegno alle forze imprenditoriali nascenti nel campo dell’industrializzazione, in base alla convinzione che nel Mezzogiorno vi fossero le condizioni di partenza, mai sfruttate, per una complessiva crescita del tessuto economico, sociale e civile, conseguente ad una politica di investimenti e d’iniziativa pubblica (si muoverà in questa direzione anche come parlamentare: nel 1904 firmerà una legge che dava inizio alla costruzione del più grande stabilimento siderurgico del Mezzogiorno, a Bagnoli).

    Egli guardò sempre alla questione meridionale come problema dell’economia nazionale, dello sviluppo complessivo del Paese. Questa visione farà da sfondo a numerosi studi, d’ispirazione democratica, che arricchiranno il campo meridionalista a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.

    Gaetano Salvemini analizzerà il problema del Mezzogiorno su di un versante nuovo e legherà la questione meridionale ad una durissima battaglia politica per il rinnovamento democratico del Paese. Centrale, nella visione dell’esponente socialista, è la rottura del compromesso risorgimentale tra istanze democratiche e classi dirigenti conservatrici. Questa situazione aveva portato alla formazione di profondi squilibri economici e politici, al progressivo accentramento del potere dello Stato unitario, all’emarginazione di sterminati settori di popolazione, alla drammatica condizione di miseria dei contadini meridionali.

    Salvemini sarà forse uno dei critici più radicali del sistema giolittiano, che nella sua prospettiva, sintetizzava le tendenze e le pulsioni peggiori della società italiana, le più reazionarie, la fusione dei gruppi dirigenti tradizionali del nord con un nuovo ceto di proprietari e di politici meridionali dediti al malaffare ed al clientelismo.

    La sua idea di riorganizzazione dello Stato su basi federaliste nasceva proprio dall’esigenza di scardinare questo blocco di potere accentrato (con la sua politica antimeridionale e conservatrice) ed avrebbe dovuto essere accompagnata dalla mobilitazione delle forze democratiche e dei ceti popolari sulla base di un programma di riforme sociali (dal suffragio universale al superamento del regime del latifondo, problema centrale, nel Mezzogiorno) in grado di unificare le rivendicazioni del movimento operaio del Nord con i contadini del Sud (ed entrò in contrasto, su questo punto, con il suo stesso partito, accusato di essere poco attento alla questione contadina e troppo centrato sui problemi della classe operaia essenzialmente settentrionale).

    Salvemini porrà dunque con forza il problema fondamentale dell’esclusione di gran parte della popolazione (contadina) del Mezzogiorno dalla vita civile del Paese e del peso di questo assetto della società e dello Stato, sui ritardi e sulle profonde disuguaglianze che segnavano la realtà nazionale[28]; conseguentemente si batterà strenuamente per l’affermazione di una nuova fase di partecipazione democratica e di massa, alla vita politica, di quelle forze popolari che pure avevano dato un contributo importante al processo risorgimentale.

    Il dibattito e la battaglia dei meridionalisti andava spostandosi, con il nuovo secolo e il progressivo logoramento di uno stato liberale ormai lacerato dai suoi limiti (corporativi e clientelari), e dalle sue contraddizioni (la profonda disuguaglianza, l’estesa condizione di miseria di enormi settori del Paese, i ritardi dello sviluppo economico e sociale), verso una progressiva revisione storica e politica del processo risorgimentale. Questi studi e questi contributi si collocavano (non senza grande merito della lezione di Salvemini) nell’alveo delle nuove correnti e culture politiche democratiche, protagoniste dei primi decenni del XX secolo.

    In questa prospettiva Guido Dorso, esponente, come Gobetti, di quella tendenza progressista e democratica del liberalismo italiano, avanzerà una dura critica alle classi dirigenti trasformistiche, declassando il Risorgimento a “conquista regia” della penisola e formulando un duro attacco al modello di Stato costruito dai gruppi conservatori. Il trasformismo, per Dorso, aveva costituito una precisa strategia delle vecchie classi dirigenti, atta ad inglobare nei gangli dello Stato il “blocco agrario” meridionale, in un’alleanza disastrosa per il Mezzogiorno, sotto tutti i punti di vista, economici, politici, civili.

    All’indagine, innovativa ed essenziale per il meridionalismo del nuovo secolo, sulle caratteristiche del “blocco agrario”, Dorso dedicherà vasti studi[29], dai quali scaturirà l’idea di una profonda rivoluzione dei rapporti sociali, nonché la profonda convinzione dell’importanza del ruolo degli intellettuali nell’opera di denuncia del nuovo blocco di potere, che aveva tradito tutte le aspettative di rinnovamento riposte nel Risorgimento.

    Il “processo al Risorgimento” dunque, costituì un punto centrale della rinnovata riflessione democratica sul Mezzogiorno e si accompagnò alla crescente attenzione politica per quel blocco di forze nazionali che avrebbe potuto avviare, finalmente, un processo di rinnovamento democratico del Paese. Collocato nell’alveo di queste nuove tendenze politiche e culturali, Antonio Gramsci indagò in profondità le cause degli squilibri della società italiana e del problema del Mezzogiorno, avviando una ricerca che, iniziata nei primi decenni del secolo, influenzerà profondamente la discussione sulla questione meridionale fino alla costituzione dell’Italia repubblicana.

    Gramsci attaccò duramente la composizione del blocco di forze che avevano diretto lo Stato e la società italiana dopo l’unificazione: l’alleanza tra la borghesia settentrionale ed il blocco dei grandi proprietari fondiari del Sud che aveva determinato nel meridione la conservazione di strutture agrarie e sociali di carattere semifeudali.

    Lo stesso processo d’industrializzazione, per Gramsci, non poteva, per questa via, non nascere su basi profondamente contraddittorie, limitate ad un preciso settore del Paese e fondate proprio sull’immobilismo del Mezzogiorno. Era questo, per l’intellettuale sardo, il fallimento più grande dei gruppi dirigenti risorgimentali: la mancata rivoluzione “agraria”, l’assenza di un processo democratico che avrebbe dovuto progressivamente includere i contadini meridionali ed i ceti popolari nella vita civile, migliorandone le condizioni di vita e determinando un reale “completamento” del Risorgimento. Il problema del latifondo e delle strutture agrarie del sud segnerà in maniera negativa lo sviluppo italiano, condannando il Mezzogiorno alla marginalità e per Gramsci, questo corrispondeva all’impossibilità di una normale evoluzione economica e politica dell’intero il Paese[30]. Occorreranno molti anni, la fine di oltre un ventennio di fascismo e l’emersione di nuove forze politiche e sociali, per dare un timido inizio, nel secondo dopoguerra, a lenti segnali di rinnovamento del Mezzogiorno e ad un mutamento delle sue strutture agrarie.


    [1] A. De Bernardi – L. Ganapini, Storia d’Italia (1860 – 1995), Milano, 1996, pp. 59 – 62

    [2] Ibidem, p.63

    [3] Ci riferiamo allo storico Rosario Romeo, che ritroveremo più avanti

    [4] L’inchiesta più importante svolta sul finire del XIX secolo è senza alcun dubbio quella di S. Jacini, pubblicata in S. Jacini, I risultati dell’inchiesta agraria (1884), Torino, 1976

    [5] P. Villani, Dal feudalesimo al capitalismo, in Storia d’Italia, Annali, vol. 1, Torino, 1978, p. 881

    [6] F. Barbagallo, in G. Sabbatucci – V. Vidotto, Storia d’Italia, vol. 3, Roma, 1995, p. 5

    [7] L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, 1989, pp. 144 – 145

    [8] Si veda R.Romeo, L’Italia liberale, sviluppo e contraddizioni, Milano, 1987, pp. 55 – 56

    [9] L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, 1989, p. 201

    [10] M. Rossi – Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Torino, 1982, p. 130

    [11] Ibidem, p. 131

    [12] Per un quadro degli squilibri dell’economia agricola precedenti l’Unità italiana si veda P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari, 1967

    [13] R. Romeo, op. cit., pp. 55 – 56

    [14] Si veda a questo proposito G. Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino, 1972

    [15] AA.VV., Storia della società italiana, vol. 17, Milano, 1987, p. 287

    [16] R. Villari, Mezzogiorno e democrazia, Bari, 1979, pp. 48 – 49

    [17] Si veda a questo proposito la critica alle tesi di Rosario Romeo contenuta nel lavoro di L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, 1989, pp. 148 – 156

    [18] A. De Bernardi – L. Ganapini, Storia d’Italia (1860 – 1995), Milano, 1996, pp. 74 – 77

    [19] Si veda E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, 1947

    [20] Si vedano tra questi P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti, Napoli, 1979; S. Sonnino – L. Franchetti, L’inchiesta sulla Sicilia, Firenze, 1974

    [21] Si veda G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Firenze, 1973

    [22] Tratteremo più avanti, in maniera più articolata, le posizioni dei protagonisti

    [23] S. Sonnino – L. Franchetti, L’inchiesta sulla Sicilia, Firenze, 1974; P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti, Napoli, 1979

    [24] F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Bari, 1958; G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, 1963

    [25] Si veda P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti, Napoli, 1979

    [26] Si veda G. Fortunato, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, 1973

    [27] Si veda N. Colajanni, Per la razza maledetta, Palermo, 1898

    [28] Si veda G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, Torino, 1955

    [29] Si veda G. Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino, 1972

    [30] Si veda A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, Roma, 1945



    BIBLIOGRAFIA

    Manuali scolastici e stato dell’arte: Dopo aver consultato diversi manuali, riportiamo nella presente bibliografia tre volumi che collocano la “Questione meridionale” nell’alveo di una più ampia analisi delle contraddizioni del processo risorgimentale ed unitario. Se Villari pone l’accento sulla problematica delle condizioni strutturali dell’agricoltura del Mezzogiorno all’indomani dell’Unità, Giardina, Sabbatucci e Vidotto (come Brancati) indagano la complessa problematica delle classi dirigenti, i limiti della politica dello Stato Unitario rispetto alle difficoltà del Sud, la formazione del clientelismo. Questi testi hanno il merito di richiamare costantemente il tema del Mezzogiorno nel corso di tutta la trattazione sui diversi periodi della storia politica ed economica italiana (non limitandosi ad un cenno nel quadro della storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia)
    Antonio Brancati, Popoli e civiltà 3,Firenze, 1995; A. Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, Manuale di storia 3, l’età contemporanea, Bari, 1996; R. Villari, Storia contemporanea, Bari, 1994

    Per una visione d’insieme del problema nel quadro della storia della politica e della società italiana:G. Sabbatucci – V. Vidotto, Storia d’Italia, Roma 1995; A. De Bernardi – L. Ganapini, Storia d’Italia (1860 – 1995), Milano, 1996; R. Romeo, L’Italia liberale, sviluppo e contraddizioni, Milano, 1987; L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, 1989; AA.VV., Storia d’Italia, Annali, Torino, 1978; AA. VV., Storia della società italiana, Milano, 1987; G. Procacci, Storia degli Italiani, Bari, 1998; F. Della Peruta, Società e classi popolari nell’Italia dell’800, Milano, 2005

    La questione del Mezzogiorno, problemi sociali ed economici:
    F. Barbagallo, Mezzogiorno e questione meridionale (1860 – 1880), Napoli, 1980; C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea, Firenze, 1952; R. Villari, Mezzogiorno e democrazia, Bari, 1979; R. Villari (a cura di), Il Sud nella Storia d’Italia, Bari, 1978; R. Villari, Mezzogiorno e contadini nell’Italia moderna, Bari, 1974; P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari, 1967; P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962; G. Galasso, Mezzogiorno medioevale e moderno, Torino, 1963; G. De Rosa (a cura di), La battaglia meridionalista, Bari, 1979; R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1958

    La prima fase del meridionalismo, inchieste e studi
    (problemi originari; questione del latifondo come problema strutturale del Mezzogiorno):
    P. Villari, Lettere meridionali ed altri scritti, Napoli, 1979; S. Sonnino – L. Franchetti, L’inchiesta sulla Sicilia, Firenze, 1974; G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Firenze, 1973; S. Jacini, I risultati dell’inchiesta agraria (1884), Torino, 1976

    La riflessione meridionalista a cavallo tra i due secoli
    (il dibattito sull’indirizzo politico ed economico dello stato, sull’industrializzazione, sui rapporti sociali e le condizioni di vita e di lavoro):
    N. Colajanni, Per la razza maledetta, Palermo, 1898; F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Bari, 1958;
    G. Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale, Milano, 1963; G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, Torino, 1955; E. Ciccotti, Sulla questione meridionale, Milano, 1904

    Il meridionalismo democratico
    (la revisione del Risorgimento come “rivoluzione incompiuta”, la critica alle classi dirigenti ed allo sviluppo industriale, il problema del blocco agrario meridionale):
    A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, Roma, 1945; G. Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino, 1972; E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, 1947

    La discussione meridionalista dell’Italia repubblicana, alcuni problemi
    (l’intervento dello Stato, la Cassa per il Mezzogiorno, l’industrializzazione):
    M. Rossi – Doria, Scritti sul Mezzogiorno, Torino, 1982; M. Rossi – Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari, 1958; P. Saraceno, Il meridionalismo dopo la ricostruzione (1947 – 1957), Milano, 1974; P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Bari, 1972

    Alcuni studi più recenti
    (alla luce della politica d’intervento dello Stato):
    L. Ferrari Bravo – A. Serafini, Stato e sottosviluppo, Milano, 1972; C. Daneo, Agricoltura e sviluppo capitalistico, Torino, 1969; E. Capecelatro – A. Carlo, Contro la questione meridionale, Roma, 1972; G. Mottura – E. Pugliese, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, 1975

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