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    Banda Müntzer-Epifanio
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    Predefinito Nigeria - Guerra di religione?

    Le vere cause dei massacri in atto
    La Nigeria è considerato il “gigante africano”: è il paese più popoloso, più ricco di petrolio. Al contempo è il vulcano più grande del continente, il paese dove più si addensano plurimi motivi di conflitto: sociali, etnici, tribali, religiosi, per il controllo delle risorse, per il potere. Un autentico melting pot che a cadenze regolari sfocia in rivolte popolari, guerriglie, massacri interetnici, carneficine tra le diverse comunità religiose. Chi cercasse una chiave di lettura univoca di queste esplosioni di violenza sarebbe fuori strada. Ogni catastrofe, tra cui quella recente che affligge la regione dell’Altipiano e del capoluogo Jos, è determinata, o meglio, surdeterminata, dall’intreccio di multipli fattori di cui, quello di ultima istanza, è il differenziale di ricchezza tra chi ha più e chi ha meno, tra chi ha tutto e chi niente.
    La Chiesa cattolica, in un fronte unito con le chiese evangeliche (soprattutto nord-americane che da decenni stanno cercando di espandersi in Nigeria e con discreto successo) da qualche giorno lancia le sue esecrazioni contro i massacri di cristiani in corso attorno alla città di Jos. Dov’erano i “crociati”, il 17-18 gennaio, quando i cristiani trucidarono più di trecento musulmani, facendo a pezzi i loro corpi e gettandoli nei pozzi? Dov’erano quando i cristiani bruciavano villaggi e si portarono via il bestiame come bottino?
    E’ così che sono infatti iniziati i tumulti in corso, e da cui è partita la ritorsione dei musulmani che hanno fatto centinaia e centinaia di morti.
    La carneficina in corso è solo l’ultima in ordine di tempo. Sin dalla “guerra di indipendenza del Biafra” di cinquant’anni fa. Quella guerra, la cui posta in palio era il controllo delle risorse petrolifere nella zona del delta del Niger, mise in luce tutta la fragilità della Nigeria come stato-nazione, uno stato artificiale messo su dai colonialisti inglesi negli anni ‘20 del secolo scorso e che fuse i protettorati del sud a maggioranza Igbo e Yoruba e gli emirati musulmani del nord. Oltre a questa linea di frattura principale, causata anche dal fatto che gli inglesi trasferirono il potere alle élite e ai notabili Yoruba cristianizzati loro lacché a spese degli Hausa e dei Fulani del nord musulmani, ne esistono molte altre (ci sono in Nigeria 250 etnie e quasi altrettante lingue). Sta di fatto che a partire dall’eccidio di Kano nel 1980, praticamente ogni anno si sono susseguite ondate di inaudita violenza tra le comunità musulmane e cristiane, a loro volta basate su appartenenze etniche e tribali.
    E' noto in Nigeria che la città di Jos è una autentica polveriera. A causa delle miniere di stagno, ora in disuso, la città conobbe una forte immigrazione da varie zone, diventando così la città più multi-etnica del paese. La chiusura delle miniere, causando l’impoverimento generale, ha letteralmente terremotato la già difficile convivenza tra le diverse comunità, tra nativi e migranti. Certo i motivi religiosi sono importanti per capire i conflitti. Ma non sono la causa decisiva. Una di queste è proprio lo squilibrio esistente tra nativi o indigeni ed immigrati. I primi godono di sostanziali privilegi, mentre i secondi sono considerati cittadini di serie B. E’ la stessa Costituzione nigeriana a sancire questa divisione, quando stabilisce che è da considerarsi indigeno o nativo solo colui che può dimostrare di avere i propri antenati in uno dei 36 stati della federazione. Il nativo di uno stato potrà vivere anche 50 anni in uno stato diverso, ma sarà sempre considerato un intruso, uno straniero. Di qui una delle cause degli scontri: la xenofobia contro gli immigrati. Questa discriminazione la subiscono anzitutto i musulmani del Nord (Hausa e Fulani), che emigrano dalle loro miserrime zone d’origine per cercare fortuna nel ricco (e cristiano) sud petrolifero. E qui vengono sfruttati e trattati come reietti.
    Tornando ai recentissimi scontri attorno alla città di Jos, occorre tenere in considerazione che il conflitto è solo in ultima istanza religioso, che esso è anzitutto tra tribù contadine sedentarie (cristiane) e tribù nomadi dedite all’allevamento e alla pastorizia (del tipo di quello che abbiamo nel Darfur e in certe zone sud-occidentali del Sudan). La povertà crescente, aggiunta alla siccità ormai endemica, spingono le tribù nomadi (musulmane) a spostarsi sempre più a sud, dove incontrano la resistenza delle tribù sedentarie (cristiane). Ogni scintilla, ogni incidente rischia di trasformarsi in vere e proprie mini-guerre civili, e se i musulmani assolvono spesso il ruolo di aggressori, è solo perché essi si sentono discriminati, oppressi, dai cristiani che accusano di essere privilegiati e di avere il monopolio delle varie cariche pubbliche e di essere avvantaggiati in ogni campo.
    La stampa occidentale non nasconde la sua partigianeria cristiana. Sbraita che negli stati settentrionali a maggioranza musulmana è stata introdotta la sharia appunto per colpire e penalizzare le minoranze cristiane. Questo può essere vero, ma solo a condizione di ammettere che nel resto del paese vige una sharia al contrario, una sharia cristiana invisibile ma non per questo meno potente, quella mascherata da “democrazia” e in base alla quale se sei musulmano sei un cittadino di serie B mentre se sei cristiano di serie A. Se sei cristiano potrai accedere alle cariche pubbliche e più facilmente fare carriera (con la raccomandazione di qualche prete o vescovo), potrai essere assunto da una multinazionale occidentale che si fiderà di te, mentre ai musulmani, esclusi pochi notabili corrotti non resta che penare come schiavi. Finché il potere nigeriano (tra i più corrotti e sfruttatori dell’Africa) si fregerà di essere cristiano, finché non ci sarà una giustizia sociale, il conflitto sociale continuerà, e continuerà ad indossare panni religiosi.

    Nigeria - Guerra di religione?

  2. #2
    Banda Müntzer-Epifanio
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    Predefinito Rif: Nigeria - Guerra di religione?

    La giusta quota di violenza

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    Dietro la violenza religiosa si nasconde lo spettro di quella etnica, prevedibile esito di una politica basata su sistemi di quote.
    A quasi una settimana dall'assalto a tre villaggi a maggioranza cristiana della Nigeria centrale, molti elementi sono più chiari, tranne - paradossalmente - il numero delle vittime. Attivisti per i diritti umani e leader religiosi parlano di 500 morti, cifra confermata dal commissario all'Informazione dello stato del Plateau, Gregory Yenlong. Secondo la polizia nigeriana i morti sarebbero 109 anche se solo il corrispondente dell'agenzia Reuters ne ha contati 300 .

    La dinamica. Intanto l'elefantiaco e poco affidabile apparato di sicurezza locale si è messo in moto e ha presentato al presidente facente funzione, Goodluck Jonathan, i primi risultati: 200 persone arrestate, 49 delle quali in procinto di essere processate e condannate per aver preso parte all'ultima carneficina.
    "Si tratta prevalentemente di musulmani di etnia Fulani", ha detto alla Bbc il portavoce della polizia Mohammed Lerama.
    Emergono, nel frattempo, ulteriori dettagli relativi alla dinamica dei fatti. Secondo le testimonianze raccolte da Human Rights Watch, gli attacchi di domenica contro i villaggi di Dogo Nahawa, Ratsat e Zot sarebbero cominciati alle tre del mattino e sarebbero partiti in simultanea, segno che non si è trattato di un'azione improvvisata da una banda di ubriachi ma di una macelleria pianificata con metodo. Erano vestiti di nero, alcuni indossavano uniformi simili a quelle militari ed impugnavano mitra e machete. Sono arrivati a piedi, in silenzio, attraverso sentieri che dovevano conoscere bene. Si sono divisi in gruppi, in modo da chiudere le vie di fuga mentre intanto altri miliziani razziavano il villaggio, saccheggiando case, facendo strage di animali e uccidendo chiunque trovassero sulla loro strada.
    "Solo a Dogo hanno ammazzato 130 bambini, 80 donne e 50 uomini", ha raccontato un superstite a Hrw.

    Violenza etnica. Questi numeri fanno riflettere e svelano la vera natura dell'ennesimo massacro consumatosi in un Paese in preda a pericolose convulsioni.
    I massacratori cercavano donne e bambini, ovvero la promessa del futuro per ciascun popolo, chiaro sintomo di una violenza che è barbara ma ha anche un progetto ben preciso: pulire etnicamente un territorio.
    Non si tratta di una guerra religiosa, si è affrettato a dichiarare l'ex presidente nigeriano Olesegun Obasanjo. Ed è vero, ma questa non è necessariamente una buona notizia.
    Alla base sembra esserci la lotta per l'accesso alla risorse che, come accade quasi sempre in un paese povero, vengono soprattutto dalla burocrazia politica e dalla pubblica amministrazione. E il sistema nigeriano, pur cercando di assicurare una convivenza pacifica al suo complesso quadro di etnie e tribù, si è fratturato lungo linee claniche ed etniche. Si è scelto di garantire che non ci fosse una prevalenza di un'etnia su un'altra o una eccessiva concentrazione di persone provenienti dallo stesso stato ai vertici del Paese. Dal 1979, infatti, si è affermato un sistema di quote, stabilito dalla Costituzione, il cui scopo iniziale era quello di bilanciare lo strapotere delle elites del sud, che avevano ricevuto un'educazione d'impronta britannica, e quelle del nord, arretrate, spesso formatesi in scuole coraniche. A livello locale, però, non si è mai vigilato sull'applicazione di questo principio. Danni ulteriori sono stati prodotti dalla decisione di distinguere, in ciascun distretto dello stato, tra la popolazione indigena e quella arrivata successivamente, garantendo alle tribù riconosciute come autoctone l'accesso ai posti di governo locale, agli organi di sicurezza, ai posti da docente ecc...
    Domenica scorsa non sono stati massacrati nigeriani cristiani ma nigeriani Berom, l'etnia riconosciuta come indigena a Jos e maggioranza nello stato del Plateau, ad opera di nigeriani Hausa e Fulani che, incidentalmente, sono anche musulmani.

    Le radici economiche della violenza. Non è un caso che la violenza in Nigeria tenda ad intensificarsi nei periodi di maggiore crisi economica e a scavare trincee lungo linee etniche, partendo sempre da questioni locali di poca rilevanza. Ricostruendo la storia dei massacri più recenti, questo dato emerge chiaramente.
    E' lo stato del Plateau, sulla frontiera tra ilnord musulmano dove le tensioni si condensano e producono i risultati peggiori. Qui negli ultimi anni la violenza ha causato quasi 14 mila morti e oltre 300 mila sfollati.
    Nel 2001, a Jos, la capitale, bastò che una donna cristiana venisse infastidita da un gruppo di fedeli musulmani per accendere la scintilla. Ma il terreno per lo scontro era stato preparato dalla rimozione di un musulmano Hausa dal consiglio locale per la lotta alla povertà. Il bilancio degli incidenti che seguirono fu di 700 morti.
    Nel 2002 e 2003, a Wase, si registrarono tensioni tra i Tarok da una parte e i Fulani e gli Hausa dall'altra, essendo i primi proprietari terrieri prima ancora che cristiani e i secondi tribù seminomadi che vivono di pastorizia. Il bilancio fu di 72 villaggi distrutti e decine di morti. Il confronto tra Tarok e Hausa continuò nel 2004, a causa dei risultati delle elezioni locali.
    A Yelwa, nello stesso anno, fu un furto di bestiame ad innescare la violenza etnica che fece 700 morti.
    Basta davvero pochissimo perché la violenza esploda, quasi un nulla.
    Nel 2006, nel villaggio di Namu, nel distretto di Quaan Pan, entrarono in conflitto i Gomai, riconosciuti come popolazione autoctona e i Pan, divenuti maggioranza. In quel territorio, lo stato avrebbe presto creato un'area di sviluppo, ma chi ne poteva rivendicare la proprietà?
    Quando un abitante di etnia Gomai fu sorpreso mentre prendeva sabbia da un fiumiciattolo che i Pan ritenevano essere loro, fu il finimondo. Nei tre giorni che seguirono, cento persone persero la vita, ottomila abbandonarono le loro case mentre 200 miliziani Pan furono arrestati.
    Altre 700 vittime si contarono al termine di due giorni di follia, nel novembre 2008, a causa di una contesa elettorale.
    Di massacro in massacro, si arriva al penultimo atto, quando il 17 gennaio di quest'anno, 150 Fulani (musulmani) sono stati trucidati da bande Berom (cristiane), al termine di un'ondata di violenza che ha lasciato sul terreno 300 morti.
    Ogni eccidio ne richiama un altro. Non sorprende, allora, che domenica scorsa alcuni abitanti di Dogo Nahawa abbiano riconosciuto, tra i macellai, uomini che fino a pochi anni prima avevano abitato in quello stesso villaggio. Hanno vissuto insieme e in pace, fino a quando il massacro del 2001, o quello del 2004 o del 2008, li ha costretti a fuggire. Adesso sono tornati per pareggiare i conti. Ieri vittime, oggi canefici. Questa trama scontata riassume la miseria e il terrore che affliggono la Nigeria centrale.

    Una violenza che incrina l'architettura statale, costringe al sospetto e mette sulla difensiva le diverse etnie, produce distruzione, paraliza il potere centrale, la cui capacità decisionale decisionale è imbrigliata in un complesso meccanismo tutto giocato su equilibri etnici e tribali, e si ramifica producendo danni collaterali. La violenza scoppiata a gennaio nello stato del Plateau, ad esempio, ha costretto la Croce Rossa nigeriana a rimandare la campagna di vaccinazione contro la polio: a gennaio, infatti, 20 mila persone risultavano disperse (il numero adesso è cresciuto esponenzialmente). Nella sola Jos, l'obiettivo era di vaccinare 250 mila bambini, dal momento che la Nigeria è l'epicentro di un nuovo focolaio dell'epidemia nell'Africa occidentale, dove sono a rischio 85 milioni di bambini sotto i cinque anni.

    Alberto Tundo

    PeaceReporter - La giusta quota di violenza

 

 

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