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  1. #11
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Grazie per i suggerimenti Andrea.

  2. #12
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Giuseppe Garibaldi tra camicie rosse e sottovesti.
    Il caso della contessina Raimondi

    E’ noto come un atto fondamentale per il rafforzamento della politica interna del Piemonte sabaudo e quindi per porre le basi per l’invasione della penisola italiana, fu il famoso “connubio” Rattazzi-Cavour (1852) con la quale il conte piemontese riuscì a formare un governo costituito da esponenti della sinistra moderata e della destra liberale, isolando così nel Parlamento subalpino la destra clericale, baluardo contro la politica anticattolica verso cui aveva intenzione di indirizzarsi il Cavour, allo scopo di attrarre la fiducia dei liberal-massoni. L’evento ebbe sicuramente una certa importanza nel sancire l’esito del biennio 1859-61 (anche se forse di minore rilevanza rispetto alla politica estera e agli interessi economici), ma qui vorremmo occuparci di un connubio ben più prosaico: il matrimonio tra Giuseppe Garibaldi e la contessina Raimondi. L’esito dell’unione tra i due, come vedremo, ebbe una certa importanza nel far sì che il nizzardo scegliesse effettivamente d’intraprendere l’ “impresa” offertagli da Cavour, anche se fin da subito è bene specificare come la spedizione dei Mille, sfrondata del belletto della retorica, risulti molto meno decisiva al fine della sabaudizzazione della penisola rispetto alla pressione diplomatica e operativa dell’Inghilterra e alle esigenze dei poteri economici alleati di Cavour. La vicenda che racconteremo è peraltro pienamente in sintonia con l’esistenza sentimentale del Garibaldi, torbida e passionale, sempre sospesa tra ingenuità e pulsione irrazionale.
    La contessina Giuseppina Raimondi di Fino Mornasco, figlia di un mazziniano esiliato, era nel 1859 una giovane diciottenne che svolgeva, nel teatro degli scontri della Prima Guerra d’Indipendenza, l’attività di portaordini per i patrioti lombardi, intrecciando il patriottismo con una certa facilità a concedersi agli aitanti garibaldini. Il 2 giugno la Raimondi si recò, in compagnia di un prete, a Malnate, dove Garibaldi si era ritirato dopo essere stato respinto da Laveno, per chiedere l’intervento del generale a Como, dato che l’effimera vittoria di San Fermo del 27 maggio aveva solo respinto gli austriaci ma non assicurato il controllo della città alle truppe filo-piemontesi. Dopo la serata passata in romantiche conversazioni con la Raimondi, Garibaldi non temporeggiò e diresse al vice Camozzi uno stringato ma significativo biglietto: “Marcio su Como”. La decisione, presa “sulla base di pulsioni testosteroniche più che tattiche” (G.Oneto), gli permise comunque di evitare l’accerchiamento delle truppe del generale Urban e, ben più importante per lui, di sostare per cinque giorni a casa della Raimondi, dove potè conoscere anche il padre, da poco tornato dall’esilio svizzero e desideroso di guadagnare un seggio in senato con una saggia politica famigliare, incurante dei 34 anni di differenza tra la figlia e Garibaldi. Le vicende belliche lo costrinsero a prendere la via di Bergamo e di Brescia, una passeggiata senza scontri significativi che poco significò nella guerra conclusasi l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe. Con la fine della guerra Garibaldi poté dedicarsi totalmente ai suoi progetti sentimentali intrattenendo relazioni e corrispondenze con almeno quattro donne contemporaneamente: la bolognese Pepoli, la Raimondi, Speranza von Schwartz, che più volte rifiutò di sposarsi col nizzardo, e la servetta Battistina Ravello, che gli aveva appena sfornato la figlia Anna Maria Imeni, detta Anita. Ciò che fermava però l’ “eroe” da un impegno più concreto con una delle tre era però il legame matrimoniale che lo univa ancora alla vera Anita, la morte turbolenta della quale aveva reso impossibile al Garibaldi produrre un certificato di morte che avrebbe sancito il termine legale del connubio. Proprio nell’estate riuscì, riesumando la salma di Anita e trasferendola a Nizza, ad ottenere la possibilità di risposarsi ma i problemi politici lo tennero lontano dalla prospettiva matrimoniale. Era rimasto infatti indispettito da alcuni comportamenti di Vittorio Emanuele e Cavour nei suoi confronti, i quali infatti, dopo averlo lusingato col progetto della Nazione armata, una lega di tutte le associazioni patriottiche messa a disposizione del barbuto generale, impedirono qualunque messa in atto dei progetti garibaldini. Il 28 novembre, mentre stava per imbarcarsi per la Maddalena, un improvviso ed eloquente biglietto della Raimoni (“Ti amo, fammi tua”) lo sorprese a Genova, convincendolo a desistere da un volontario esilio e conducendolo a Fino dove la sorte collaborò con Cupido (o forse con la furbizia della Raimondi) in quanto una caduta da cavallo il 4 dicembre lo costrinse a letto per tre settimane, sempre assistito dall’amorevole e interessato conforto della contessina. Il cuore passionale del Garibaldi a quel punto non poté districarsi dal groviglio amoroso e acconsentì ad unirsi nel vincolo nuziale il 24 gennaio 1860, nella chiesa della stessa cittadina comasca. La gioia della celebrazione imenea fu però turbata da una vicenda tragicomica, che a dire il vero per Garibaldi ebbe ben poco di comico. Immediatamente dopo le nozze a Garibaldi venne comunicato, tramite un foglietto, che la novella moglie era incinta di un altro garibaldino, Luigi Caroli, e che lo aveva tradito (forse anche la sera prima del matrimonio) con almeno un altro uomo. Il generale nizzardo mostrò il biglietto alla sposa che non poté negare il fatto, al che Garibaldi scoppiò in un perentorio: “Signora voi siete una puttana!”. A questo la ragazza rispose con un’orgogliosa quanto infelice risposta: “Pensavo di essermi sacrificato per un eroe, invece non siete che uno zoticone!”. A quel punto Garibaldi partì subito a cavallo non volendo più rivedere per tutta la vita la moglie, che nell’agosto partorì un bambino morto, che teoricamente avrebbe potuto essere frutto delle focose notti di dicembre del convalescente e della Raimondi infermierina. Garibaldi spesa la vita nel cercare di ottenere il divorzio, il che gli avrebbe permesso una nuova cartuccia matrimoniale dopo aver sprecato malamente la seconda, cosa che avvenne solo nel 1880. Si vendicò però facendola pagare a tutti quelli che furono implicati nella vicenda: al Caroli venne impedita qualsiasi partecipazione patriottica, tanto da dover andare a morire in Polonia in una spedizione suicida, mentre il conte Raimondi, già inserito nelle liste delle nomine senatoriali, vide troncata ogni possibile ascesa. Dicevamo che la vicenda ebbe immediate connessioni con la spedizione in Sicilia infatti il Garibaldi affranto dalle vicende personali nei mesi seguenti venne stordito anche da quelle politiche, in particolar modo la cessione di Nizza a cui seguirono le sue dimissioni da deputato. Pressato dagli insorti siciliani, agitato dai mazziniani e intiepidito dal re, Garibaldi, rispetto al suo tipico decisionismo scervellato, si dimostrava stranamente irresoluto e tentennante davanti alla possibilità di guidare una spedizione di volontari per strappare la Sicilia ai Bguelorboni, legandole il cappio sabaudo sotto il pretesto della liberazione dell’isola. Il Cavour nel frattempo, tramite la rete che lo univa ai rivoltosi siciliani e alla marina britannica, aveva già organizzato per filo e per segno la “passeggiata” duo siciliana e aveva solo bisogno di un protagonista: davanti ai dubbi di Garibaldi il ministro piemontese aveva già pensato anche ad un sostituto, Ignazio Ribotti, noto avventuriero nizzardo. Davanti alla possibilità di essere eclissato da un concittadino, Garibaldi in un ultimo sussulto di orgoglio mascolino, troppo abbassato dalle vicende del gennaio, accettò in aprile di guidare la spedizione: Cavour trovò così lo spaventapasseri che cercava mentre Garibaldi trovò pane per i suoi denti, cioè un impresa senza rischi ma utile a far continuare il suo mito.

    a cura di Davide Canavesi (Comunità Antagonista Padana)

  3. #13
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Napolitano e l’intoccabilitA’ del “risorgimento”
    La chiave di lettura per il discorso alla “Scala”
    del 24 aprile 2010

    Le recenti dimissioni di molti eminenti personaggi dal comitato per la celebrazione del 150esimo anniversario dall’invasione sabauda della penisola palesano un certo sfasamento tra le intenzioni del comitato e la disponibilità di collaborazione (economica) del governo ed evidenziano la maniera di agire di certuni lodati intellettuali, sin troppo abituati a pensare e diffondere le loro idee solo in presenza del sostegno economico dei contribuenti. Nonostante questo Napolitano sembra risoluto e imperterrito, in singolare duetto con un Berlusconi commosso dalle sue parole e disposto ad accettare una visione “risorgimentale” come fondamento della nuova Italia “berlusconizzata”. Come ha reso evidente nel suo discorso alla Scala per il 25 aprile Napolitano è disponibile a rendere materia di discussione storica la Resistenza (“ho più volte ribadito come non ci si debba chiudere in rappresentazioni idilliache e mitiche della Resistenza e in particolare del movimento partigiano, come non se ne debbano tacere i limiti e le ombre, come se ne possano mettere a confronto diverse letture e interpretazioni”), arrivando ad accettare persino quello che era un tabù per l’interpretazione comunista della Resistenza, ossia la sua natura di “guerra civile” (parla di “molteplici dimensioni del fenomeno della Resistenza, compresa quella di “guerra civile””); non accetta che venga però messo in discussione il Risorgimento, divenuto pietra angolare di questa nuova identità da costruire (“Quella unità rappresenta oggi, guardando al futuro, una conquista e un ancoraggio irrinunciabili. Non può formare oggetto di irrisione, né considerarsi un mito obsoleto, un residuo del passato”). Straordinaria è la distanza rispetto alle tesi gramsciane: Gramsci considerava il Risorgimento come una rivoluzione imperfetta da completare, qui Napolitano sembra invece voler mitizzare il processo risorgimentale, sottolineando come la Resistenza e la Repubblica non ne dovessero tanto “completare” e “inverare” il contenuto, quanto dovessero riportarne in luce il vero carattere, cioè funzionare ideologicamente un po’ come la Riforma protestante avrebbe voluto essere nei confronti del cristianesimo. La Resistenza e la Repubblica servirono, secondo Napolitano, infatti a riscoprire il vero carattere della Nazione forgiata dal Risorgimento, togliendola dall’appannamento e dalla corruzione causate dalla fascismo e dalla monarchia (“collasso dello Stato sabaudo fascistizzato e di un generale, pauroso sbandamento del paese”), considerate, aderendo alla visione crociana della storia d’Italia, una mera parentesi negativa da condannare moralmente più che da valutare storicamente (“i traumi del fascismo e della guerra”). Curioso è inoltre che non si sottolinei della Resistenza il suo carattere di guerra ideologica, amplificando invece a dismisura quello di “guerra patriottica” (“Si, vedete, amici, il 25 aprile è non solo Festa della Liberazione : è Festa della riunificazione d’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, l’Italia si riunifica, nella libertà e nell’indipendenza”), dando così realizzazione all’auspicio espresso sin dalle prime parole: quello di creare una visione della Resistenza che sappia tenere insieme post-comunisti, altri antifascisti non comunisti e, perché no, post-fascisti (“Naturalmente, l’impegno che sollecito, riferito alla Resistenza, esige – per dispiegarsi pienamente, per ottenere riscontri positivi e suscitare il più largo consenso – la massima attenzione nel declinare correttamente il significato e l’eredità della Resistenza, in termini condivisibili, non restrittivi e settari, non condizionati da esclusivismi faziosi”). La mano tesa di Napolitano anche a coloro che non hanno mai praticato la religione resistenziale, e anzi l’hanno apertamente combattuta, non si estende però a coloro che vogliono contrastare la rinascita dell’idolatria risorgimentale: costoro sono “fuori della storia”, un non senso logico che si può comprendere solo all’interno della matrice hegeliana del pensiero di Napolitano (“Solo se ci si pone fuori della storia e della realtà si possono evocare con nostalgia, o tornare a immaginare, più entità statuali separate nella nostra penisola”). Alla luce di questo il presidente può ignorare tutti coloro che si opposero al processo risorgimentale i quali, in quanto “fuori dalla storia”, non meritano nemmeno considerazioni ma possono essere semplicemente espunti. Peraltro nelle righe finali il discorso di Napolitano sembra assumere un altro tono e l’unità d’Italia, finora giustificata all’interno di una logica “spirituale” (in senso hegeliano), diviene invece improntata a finalità utilitaristiche (“Per contare in Europa e per contare nel mondo di oggi e di domani, la nostra unità nazionale resta punto di forza e leva essenziale”).
    La nuova visione su cui il duo Napolitano-Berlusconi vorrebbero improntare l’Italia del futuro riesce pertanto a tenere insieme tutte le forze scaturite dal crogiuolo della modernità, dal fascismo all’antifascismo comunista, ma respinge di principio coloro che rifiutando la moderiità non ne ammettono i principi, in particolar modo quello del primato della visione “utilitarista”.

    A cura di Davide Canavesi
    Comunità Antagonista Padana
    dell'Università Cattolica di Milano

  4. #14
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
    Comunicato n. 47/10 del 5 maggio 2010, San Pio V

    Risorgimento: massoni e protestanti alla conquista dell’Italia cattolica

    Pubblichiamo alcuni passi della conferenza del pastore valdese Sergio Ribet su una figura significativa del cosiddetto risorgimento: il frate apostata Gavazzi, massone e pastore protestante, cappellano di Garibaldi, a cui è dedicato un tempio evangelico di Roma (un’ex chiesa cattolica posta di fronte al Vaticano). Il testo illustra una delle principali caratteristiche del risorgimento: la rivincita del protestantesimo (favorita dalle logge) sull’Italia cattolica, papale e tridentina.

    Centro Culturale Protestante Alessandro Gavazzi. Testo della conferenza tenuta dal Pastore Sergio Ribet domenica 10 maggio 2009 dal titolo: Alessando Gavazzi: Chi era costui?

    Lo spunto per questa chiacchierata mi è stato dato da un breve scritto di pagine, di Alfredo Taglialatela. Forse un altro sconosciuto, per molti di noi, ma per ora diciamo soltanto che è stato pastore di questa nostra chiesa dal 1904 al 1907. L’opuscolo di Taglialatela ha per titolo “Alessandro Gavazzi. Il cappellano di Garibaldi. 1809 – 1889”. Ecco una prima informazione: Alessandro Gavazzi nasce, duecento anni fa, per l’esattezza il 21 marzo 1809. E nasce a Bologna, allora la seconda città dello Stato Pontificio. Suo padre, che ebbe venti figli (Alessandro era il secondogenito), era professore di diritto all’università di Bologna. E abbiamo anche un indizio: Alessandro Gavazzi era un garibaldino. Ma parlare del nostro come se la qualifica di garibaldino fosse sufficiente per presentarlo, sarebbe estremamente riduttivo. Già i sottotitoli del Taglialatela ampliano la prospettiva:Il Frate. Il Patriotta (sic) e il Cappellano di Garibaldi.Il Protestante.L’Evangelizzatore e il Presidente della Chiesa Libera.Lo Scrittore. A grandi linee, mi atterrò a questi sottotitoli, ampliando qua e là con alcuni dati biografici, e qualche precisazione raccolta da testi vari di Valdo Vinay, Giorgio Spini, Domenico Maselli, e altri.(Le citazioni con virgolette sono copiate dal testo di Taglialatela, se non vi sono altre indicazioni) (…)

    IL PATRIOTTA E IL CAPPELLANO DI GARIBALDI
    (…) Nel gennaio del 1849 la cittadinanza liberale e democratica romana convoca un’Assemblea Costituente, dichiara decaduto il potere temporale dei papi, e, il 9 febbraio 1949, proclama la Repubblica Romana, guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.
    La storia della Repubblica Romana è una pagina importante per il protestantesimo italiano. E’ in questo periodo che “fu stampato per la prima volta a Roma un Nuovo Testamento nella versione italiana di Giovanni Diodati” (V. Vinay, Protestantesimo, 11/1956). Il pastore Théodore Paul, ginevrino, ospite dell’ambasciata di Prussia, quando nella Repubblica Romana fu garantita la libertà di stampa, si adoperò per fare stampare questo Nuovo Testamento, in 4000 copie. Ebbe contatti con Giuseppe Mazzini, pur non condividendo l’uso delle armi non “spirituali” dei rivoluzionari; probabilmente non incontrò né Ugo Bassi né Alessandro Gavazzi, che non si era ancora posto il problema di una riforma religiosa in Italia. (…)
    Proprio in questo periodo il papa si rifugia a Gaeta, e viene proclamata la Repubblica Romana. Gavazzi, dopo una corsa a Venezia, raggiunge Roma. “Fonda un giornale, L’Assemblea, nel quale perora la causa dell’abolizione dell’Inquisizione”, e la Costituente decreta la soppressione di questo tribunale. La Francia, non solo per appoggiare il papa ma anche per la sua strategia antiaustriaca, invia le sue milizie a Roma. E’ in questa occasione che per la prima volta Gavazzi fu cappellano di Garibaldi. Partecipa agli scontri di Porta San Pancrazio, Villa Corsini, Villa del Vascello, e al combattimento di Velletri contro i borbonici. La Repubblica Romana cade il 3 luglio 1849, quando il generale Oudinot, a capo delle truppe francesi, riesce ad entrare a Roma e restaurare il potere temporale dei papi. Pio IX rientrerà in Roma nell’aprile del 1850. Gavazzi, dopo la capitolazione non segue Garibaldi, che tenta di raggiungere Venezia, con Ugo Bassi e Ciceruacchio (Angelo Brunetti). Bassi e Ciceruacchio, caduti nelle mani degli Austriaci, vengono fucilati. Alessandro Gavazzi resta a Roma, a curare i feriti nella chiesa della Nunziatella. Viene arrestato dalle guardie pontificie. Riesce a fuggire nel Consolato americano, e clandestinamente raggiunge Civitavecchia, va a Marsiglia, e di lì in Inghilterra.

    IL PROTESTANTE.
    Gavazzi raggiunge Londra a fine luglio del 1849. Uno studio accurato su “Gli evangelici italiani esuli a Londra durante il Risorgimento”, di Valdo Vinay (Claudiana 1961) testimonia il forte appoggio che gli esuli ebbero presso gruppi evangelici. Approdato a Londra con un’ottica antipapista per patriottismo, ma sostanzialmente cattolica, Gavazzi matura una revisione delle sue convinzioni. Ebbe contatti con Lord Palmerston, ministro degli esteri del governo liberale inglese, che gli offre l’opportunità di presentare la causa dell’indipendenza italiana con molte conferenze (in buona parte pubblicate), non solo in Inghilterra ma anche in Scozia e in Irlanda.
    Nel suo percorso di avvicinamento al protestantesimo, importante fu la sua corrispondenza epistolare con Luigi De Sanctis, esule a Malta dal 1847 (più tardi anche alcuni incontri, nel 1855 a Sheffield, e nel 1859 a Torino) (G. Spini, L’evangelo e il berretto frigio, p. 27). Non era ancora trascorso un anno dal suo arrivo a Londra, che Gavazzi già aveva affittato una chiesa per predicare agli esuli.
    Sulla conversione al protestantesimo di Alessandro Gavazzi i pareri degli storici divergono. Certamente fu in Gran Bretagna che le sue convinzioni religiose mutarono. Per alcuni Gavazzi resta, in sostanza, un polemista anticattolico che però non ha del tutto compreso il protestantesimo. Per altri ha fatto sua la comprensione dell’Evangelo tipica del suo tempo, molto intrisa dalla visione politica soprattutto britannica, e appoggiata fortemente dalla massoneria. G. Spini scrive “Massone era sicuramente il Gavazzi; ed è probabile che lo fossero parecchi altri” dei personaggi che egli incontra tra gli esuli italiani in Gran Bretagna. (op. cit.). Per altri ancora (tra cui il Taglialatela), la sua “conversione” fu sincera, e meditata, anche se non profonda dal punto di vista teologico. A me pare che la sua fede fu, come quella della maggior parte degli evangelici in Italia in quel periodo, assai più evangelica e revivalistica che protestante. Vi fu certamente, peraltro, una svolta importante, che porta Alessandro Gavazzi fuori dal cattolicesimo e dentro l’alveo del protestantesimo, italiano, europeo, e del Nord America.
    Nel 1853 Gavazzi va per la prima volta negli USA, invitato da molti a tenere le sue ormai famose conferenze. Non fu, in questa circostanza, solamente un oratore. Fu anche pastore: spesso predicò nelle chiese, sia di emigrati che di statunitensi. “A New York fondò la prima chiesa evangelica italiana”.Dagli Stati Uniti passò nel Canada. In alcuni luoghi fu ben accolto, in altri, “come a Quebec e a Montreal, fu assalito da turbe fanatiche aizzate dai preti, i quali avevano apertamente dichiarato opera meritoria spedire il frate apostata all’altro mondo”, dice il Taglialatela. Nella prima città i morti furono 14, a Montreal 16.
    Dal Canada A. Gavazzi tornò negli Stati Uniti, ancora con grandi trionfi e onori (due medaglie d’oro conferitegli da due logge massoniche), ma anche, a quanto pare da una fonte che non ho potuto controllare, con una espulsione da parte delle autorità americane, in seguito a manifestazioni di piazza in Cincinnati nel dicembre del 1853, anticattoliche e segnatamente contro Gaetano Bedini, già arcivescovo di Bologna quando era stato fucilato Ugo Bassi (8 agosto 1849).Gavazzi tornò in Gran Bretagna, ancora per cinque anni (scontri vari, a Galway, in Irlanda, ad Oxford…). Nel 1859 rientrò in Italia, a fianco di Garibaldi come cappellano militare, nella seconda guerra d’Indipendenza (aprile – luglio) e poi nell’impresa
    dei Mille, nel 1860.

    L’EVANGELIZZATORE E IL PRESIDENTE DELLA CHIESA LIBERA.
    Taglialatela riconosce che sarebbe stato più utile trattare questi due punti separatamente, ma, come è successo anche a me, si trova a dover riassumere un discorso che stava per diventare troppo lungo …Il giorno d’arrivo in Italia dell’esule Gavazzi coincide con la pubblicazione dell’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), non proprio glorioso per uno spirito ribelle come il Gavazzi, che con sotterfugi era riuscito a giungere in Italia, con complicità delle ambasciate britanniche e statunitensi. “Mi fecero desiderare di nuovo – egli scrisse – la terra d’esilio”. Qualche appoggio lo ottenne, per esempio dai ministri Rattazzi e Ricasoli: quest’ultimo, con molti legami con gli evangelici britannici, gli facilitò la via per un’opera di evangelizzazione in Firenze.
    Ma un’altra chiamata lo dirige altrove. Garibaldi gli chiede di essere cappellano dei Mille. Gavazzi raggiunge i garibaldini a Palermo. Taglialatela dedica alcuni paragrafi per sostenere che Garibaldi sapeva che Gavazzi non era più cattolico, ma lo aveva arruolato come cappellano non per sbaglio, ma volutamente, per favorire l’emancipazione religiosa degli italiani.Gavazzi è con Garibaldi da Palermo, a Napoli, al Volturno. Non solo cappellano, a quanto pare, ma anche uno straordinario collettore: traduciamo nell’inglese oggi predominante, un ottimo esperto di fund raising. A Napoli ogni giorno arringava in camicia rossa il popolo in piazza Plebiscito. Al teatro San Carlo, dopo il primo atto de “La battaglia delle donne”, si buttò in un comizio che spettatori a attori seguirono a tal punto da non badare più alla commedia.
    Sul versante religioso, Garibaldi assegnò ai suoi due chiese dei Gesuiti: al mons. Proteo, della “Società emancipatrice del clero liberale, la chiesa di “Gesù nuovo”, a Gavazzi, per la propaganda evangelica, la chiesa di San Sebastianello. Questi due decreti portano la data del 2 ottobre 1860. Le chiese furono recuperate dai Gesuiti nel maggio del 1961. Garibaldi, da Caprera, si rammarica di questo e incoraggia Gavazzi a non tacere.
    Ma Gavazzi ritiene opportuno trasferirsi a Firenze, dove risiede per 4 anni. Nel 1865, ricordiamo, Firenze diventa la città capitale d’Italia.
    Gavazzi viene chiamato da Garibaldi, se pure per poco, in Tirolo, come cappellano. Siamo alla III guerra dell’Indipendenza italiana (1866). Poi di nuovo a Firenze, e a Venezia. Ancora un viaggio in Inghilterra. Conclusa la terza guerra di indipendenza, si riapre la questione della conquista di Roma. Gavazzi rientra in Italia seguendo Garibaldi per la liberazione di Roma, è presente al combattimento di Monterotondo (26 ottobre 1867) e il 3 novembre trasportò a Terni i feriti di Mentana (1867). “Egli sempre amò ricordare ch’era stato col suo duce anche nell’ora della disfatta”.
    Nel 1869 muore Luigi De Sanctis, che era nato tre mesi prima del Gavazzi. Nel 1870, con l’entrata delle truppe italiane in Roma, Alessandro Gavazzi potrà predicare “nella città eterna nella quale non aveva più messo piede dopo il ‘49”. Le prime prediche le tiene al Colosseo, come aveva fatto, a suo tempo, da frate barnabita.
    Per correre dietro ai ricordi patriottici abbiamo lasciato da parte il percorso sia dell’Evangelizzatore, che del Presidente della Chiesa Libera. Indubbiamente, in ogni luogo in cui andava, Gavazzi fondava una chiesa. A volte era un oratore, a volte evangelizzava, a volte avviava un lavoro pastorale, ma nel complesso, i tempi di guerra, le chiamate di Garibaldi, gli appuntamenti con la storia patria, distraevano Alessandro Gavazzi da un lavoro stabile e capace di radicarsi un una chiesa locale. In questo senso è corretto dire “evangelizzatore”, e non pastore, anche se pastore Gavazzi lo fu, in varie chiese e in diverse denominazioni. Negli ultimi anni sessanta dell’ottocento Gavazzi predicò a Venezia, a Guastalla, a Lucca … Ma probabilmente la sua più prolungata attività pastorale fu quella che egli svolse a Roma, nella chiesa di Piazza Ponte S. Angelo, dal 1877 fino alla sua morte, avvenuta il 9 gennaio 1889.
    Trascrizione della lapide apposta nella chiesa metodista di Piazza ponte Sant’Angelo in Roma:
    A GLORIA DI DIODELLE ANIME A REDENZIONEALESSANDRO GAVAZZIIL CONFRATELLO DI UGO BASSIE CAPPELLANO DI GIUSEPPE GARIBALDICONSACRÒ QUESTO ORATORIOMDCCCLXXVIIE PER DODICI ANNIMDCCCLXXVII MDCCCLXXXIXVI CELEBRÒ FEDEL MINISTERIORIEVOCANDOLA EROICA TESTIMONIANZADEI MARTIRI DELL’EVANGELO.
    La chiesa di Ponte S. Angelo passerà alla chiesa Wesleyana nel 1904.
    Un breve capitolo sul tema “Il presidente della Chiesa Libera” comporterebbe almeno una lettura attenta e interpretativa di una delle opere più complesse di G. Spini, “L’Evangelo e il berretto frigio, storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia 1870 – 1904”, Claudiana 1971.
    Una prima assemblea tra chiese libere si ebbe a Bologna il 17 maggio 1865, la seconda fu a Milano nel 1870, poi a Firenze nel 1871, quindi a Roma nel 1872, ecc. ecc., fino al 1904, quando la Chiesa Libera si sciolse, e le singole chiese aderirono ai due rami metodisti in Italia (episcopale e wesleyano); alcune briciole saggiunsero i battisti o i valdesi. Il problema della Chiesa Libera era la instabilità: ad ogni Assemblea comparivano chiese nuove e si cancellavano chiese che si spegnevano, cambiavano i pastori, che passavano da una denominazione all’altra, non c’erano né una struttura né una visione di fede coerente. D. Maselli (“Tra Risveglio e Millennio – Storia delle Chiese Cristiane dei fratelli, 1836 – 1886”, Claudiana 1974), dopo aver dato conto dei vari movimenti, gruppi, sottogruppi, liti, riappacificazioni e nuovi strappi, tra le tante forme di chiese libere, scrive, a p. 43: “D’ora in poi indicheremo al singolare la chiesa del Gavazzi (Chiesa Libera) e al plurale il movimento del Guicciardini e del Rossetti che prenderà in seguito il nome di “Chiesa Cristiana” (dei Fratelli)”. Gli intrecci fra Chiesa Libera e Chiese libere, tra metodisti, battisti, valdesi e liberi erano infiniti, a volte conflittuali, a volte di collaborazione. Quello che mi preme oggi è sottolineare che tra i nostri “padri fondatori” c’è questa componente, molto italiana, molto patriottica, molto impegnata, molto confusa, molto superficiale, ma molto generosa.

    LO SCRITTORE.
    Taglialatela, in questo suo ultimo capitoletto, conviene che Gavazzi come scrittore non è geniale. “E’ noto che raramente gli oratori sono anche scrittori”. Ma ci dice anche: “gli scritti di Gavazzi riescono preziosi a chiunque voglia farsi una idea precisa dell’uomo, perché provano che egli possedeva una esatta conoscenza del Protestantesimo, e che non era polemista in luogo d’essere credente, ma era polemista perché era credente”. Credo che sia un pensiero corretto, e affettuoso. Lo condivido.

    (Fonte: Centro Culturale Protestante “Alessandro Gavazzi” )

    __________________________

    Il materiale da noi pubblicato è liberamente diffondibile, è gradita la citazione della fonte: Centro Studi Giuseppe Federici

    Archivio dei comunicati: Centro Studi Giuseppe Federici

  5. #15
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    CAMICIE ROSSE, AMMIRAGLI, MASSONI E AFFARISTI: LA PARTENZA DELL’ “AVVENTURA” DEI MILLE

    Vorremmo parlare di un funesto 5 maggio: il 5 maggio del 1860 allo scoglio di Quarto, sempre che l’ormai onnipresente Napolitano (una sorta di Felice Tecoppa del XXI secolo) ci consenta di “dir male” di Garibaldi.

    Dopo le delusioni amorose del “matrimonio” con la contessina Raimondi, un affranto Garibaldi si gettò con il suo solito burbero ma generoso attivismo in un frenetico impegno politico. Allettato dalle offerte di Cavour e Vittorio Emanuele, che facevano a gara nel mostrarsi più amici del generale, Garibaldi pensava di poter dare libera attuazione ai propri progetti tramite le associazioni di cui era stato fatto nominalmente presidente: la Società Nazionale, la Nazione armata e il progetto Fondo per un milione di fucili. In realtà queste associazioni non rispondevano assolutamente a Garibaldi, bensì a Cavour o a qualche suo “fratello” manutengolo. Garibaldi nel frattempo era sempre più incalzato dai patrioti siciliani guidati da Crispi, che all’inizio di aprile erano insorti in varie zone della Sicilia. La sua avventura da deputato invece finì ben presto: eletto nelle consultazioni del 25 e 27 marzo, neanche un mese dopo si dimise, in aperta rottura con Cavour che aveva dovuto regalare Nizza alla Francia in seguito al trattato di Villafranca. A Nizza infatti il solito plebiscito truccato (anche se sembra che i nizzardi fossero ben poco soddisfatti del governo sabaudo che nel XIX secolo le aveva volto le spalle per guardare a Genova) consentì il passaggio della città sabauda a Napoleone III, nonostante Garibaldi avesse provato a forzare la situazione con un maldestro tentativo d’insurrezione. Sarebbe arduo comunque cercare di delineare in poche righe i convulsi preparativi della spedizione in Sicilia, basta sottolineare come Garibaldi rimanesse interdetto e irresoluto in mezzo alle sollecitazioni degli uni e alle brusche frenate degli altri: se i mazziniani lo accusarono di codardia per non aver ancora prestato appoggio agli insorti siciliani, il re fece in modo di rimandare il più possibile la partenza. Lo stesso Rodomonte nizzardo, non ben addotto in tutti i particolari, comunque temeva che l’esito della spedizione si rivelasse alla prova dei fatti fallimentare (come già era successo ai Bandiera e a Pisacane) e, da abile manager della sua immagine, tentennava e fu addirittura tentato di tornarsene nell’eremo di Caprera. A spronare definitivamente il nizzardo fu però la minaccia di Cavour di sostituirlo con un altro avventuriero della sua terra: Ignazio Ribotti. Cavour aveva ormai predisposto la macchina e pertanto l’ “impresa” si sarebbe fatta con o senza Garibaldi. Pungolato sull’orgoglio, il generale risvegliò la sua tempra e attorniato dai fidi collaboratori chiamò a raccolta le sue schiere di volontari per dare avvio alla missione.

    La spedizione era in realtà più che altro una passeggiata e di questo solo Garibaldi e i suoi volontari non ne erano consapevoli, meritando pertanto un certo umano apprezzamento per il coraggio dimostrato, mentre anche i suoi più stretti collaboratori (Bertani, Bixio, Medici), di appartenenza massonica, conoscevano molti retroscena degli eventi. Innanzitutto è da segnalare come la spedizione di Garibaldi e Bixio, volutamente resa avventurosa da una serie di montaggi scenografici volti a darle una patina da romanzo salgariano, fosse in realtà ben protetta dalla flotta britannica dal contrammiraglio Roger Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet, che da tempo pattugliava le acque del Tirreno e del Canale di Sicilia, probabilmente alla ricerca di un casus belli da poter sventolare al momento adatto contro il regno duosiciliano. Allo stesso modo Vittorio Emanuele e Cavour avevano disposto che la spedizione fosse accompagnata, per tutelare gli interessi della corona sabauda, dalle navi della flotta sarda al comando di un raccomandato dal D’Azeglio, l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano che qualche anno più tardi si sarebbe meritato il titolo di “uomo di legno” per la disastrosa sconfitta di Lissa. Persano aveva il compito d’impedire che Garibaldi esagerasse e indirizzasse i suoi uomini verso fini estranei agli interessi governativi, fornendo nel frattempo un indispensabile sostegno economico e logistico alla spedizione, seguita passo passo via mare.

    Un aspetto che ci permette però d’intravedere il ruolo giocato dalla massoneria nella “passeggiata” dei Mille è comunque quello dei finanziamenti. II soldi che servirono per organizzazione della spedizione, armamento e approvvigionamento delle truppe, ma soprattutto per la corruzione in massa degli ufficiali dell’esercito borbonico vennero rispettivamente messi a disposizione dai seguenti finanziatori:

    - 2.000.000 di franchi oro raccolti dal massone Cavour e affidati alla Società Nazionale;

    - 3.000.000 di franchi francesi raccolti dalle logge di rito scozzese della massoneria in Inghilterra, nel Canada e negli Stati Uniti;

    - 90.000 lire provenienti dal fondo del milione di fucili, raccolti in Piemonte, Lombardia e Veneto da privati ma soprattutto da comuni, che applicarono con il benestare del governo una tassa sui fondi rustici;

    - 25.000 lire di provenienza ignota;

    Probabilmente i fondi ufficiali impiegati furono ancora maggiori dato che nel 1864 il ministro delle Finanze Quintino Sella avrebbe registrato nel bilancio del Regno d’Italia un’uscita di 7.900.000 sotto la voce “spese per la spedizione di Garibaldi”.

    Un altro aspetto che mette in luce la preparazione “massonica” dell’avventura dei Mille è legato alla vicenda delle due navi sulle quali i garibaldini compirono la traversata del Tirreno. I due navigli, che ebbero il significativo nome di Lombardo e Piemonte, provenivano dalla flotta dell’armatore genovese Raffaele Rubattino. Tanto per chiarire i termini della questione Rubattino era massone e il direttore generale della sua società di navigazione, Giovanni Battista Fauché, era altrettanto massone e in buoni rapporti con Giuseppe Garibaldi. Rubattino non era d’altronde del tutto estraneo al movimento risorgimentale dato che di sua proprietà era anche la nave Cagliari, che nel 1857 era stata rubata sulla rotta Genova-Tunisi da Carlo Pisacane per il tentativo di sbarco a Sapri, dove avrebbe voluto far insorgere i contadini campani contro i Borboni. In realtà però il furto era stato simulato e Rubattino era stato regolarmente remunerato per il servizio prestato (e l’annessa sceneggiata) e, dopo il fallimento della spedizione, riuscì ad ottenere indietro la sua proprietà dal governo borbonico grazie a pressioni diplomatiche inglesi, in quanto i due macchinisti erano cittadini britannici. L’accordo per il nuovo “furto” da compiere da parte di Garibaldi venne sancito a Modena, dove Vittorio Emanuele e Cavour si accollarono di fronte al Rubattino le spese per il nolo di due navigli adatti per il trasporto dei Mille. Il 4 maggio Garibaldi e Rubattino, in presenza di commissari regi, firmarono presso il notaio il contratto delle due barche, con la condizione del finto furto (che come tale ci viene raccontato anche da Giulio Cesare Abba). Rubattino, certamente convinto massone, era però con ancor più convinzione uomo d’affari: in cambio delle due sgangherate navi (una delle quali in partenza dovette addirittura essere rimorchiata) riuscì ad ottenere, oltre al regolare nolo, anche l’esclusiva per il servizio a vapore verso la Sardegna nel futuro Regno d’Italia e altre concessioni. Negli anni successivi non si sarebbe accontentato degli ampi guadagni già avuti in cambio della sua “militanza patriottica”, anzi avrebbe avuto a più riprese modo di lamentarsi con Bixio di non essere stato ripagato degli sforzi fatti. In realtà già nell’ottobre del 1860 a Rubattino era stato accordato dal Cavour un sostanzioso rimborso per le tre navi “risorgimentali” e negli anni successivi gli vennero fatte ulteriori concessioni che l’imprenditore genovese seppe sfruttare investendo nel commercio col Medio Oriente. Un altro importante evento storico italiano ebbe a che fare con il Rubattino: nel 1869 arrivò ad acquistare la baia di Assab in Eritrea che qualche anno più tardi sarebbe stata ceduta alla monarchia sabauda, in vena di espansione coloniale. A onor del vero vi è da dire che Rubattino seppe comunque dimostrare gratitudine per i suoi benefattori, Garibaldi per primo: a questi venne concesso quasi sempre di viaggiare gratuitamente nei suoi frequenti spostamenti e verso il termine della sua vita il nizzardo riuscì a far assumere nell’azienda del Rubattino, divenuta Società Generale di Navigazione Italiana, il genero Stefano Canzio.

    Davide Canavesi
    Comunità Antagonista Padana
    Università Cattolica del Sacro Cuore in Milano
    Ultima modifica di Luca; 08-05-10 alle 15:25

  6. #16
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
    Comunicato n. 50/10 del 12 maggio 2010, San Pancrazio

    Risorgimento e sionismo

    Fwebmagazine.it, periodico della Fondazione Fare Futuro presieduta dall’on. Gianfranco Fini, ha pubblicato un interessante articolo sui legami tra risorgimento e sionismo.

    Quel legame profondo tra Risorgimento e Sionismo. Analogie e similitudini nella nascita dello Stato italiano e di quello ebraico, di Vito Kahlun

    Quando alle 20.00 del 19 Aprile 2010 cala il buio, si passa da Yom Ha’Azikaron, ovvero il giorno dedicato alla memoria delle vittime di guerra e del terrorismo, alla festa di Yom Ha’Azmaut. Ogni anno il 5 di Iyar, ottavo mese del calendario ebraico, israeliani ed ebrei di tutto il mondo festeggiano la proclamazione dell’indipendenza dello Stato di Israele. Un’indipendenza che in un certo senso ha dei legami con il nostro bel paese. Israele e Italia oltre che a succedersi nell’elenco alfabetico delle nazioni (Islanda, Israele, Italia..), ad avere delle repubbliche democratiche anagraficamente coetanee, a disporre di un patrimonio storico ed artistico di incredibile valore e ad avere al loro interno forti organismi religiosi, sono anche congiunte da un legame ideale ben più profondo: quello tra Risorgimento e Sionismo.
    Nella prefazione al libro di Maurizio Molinari Ebrei in Italia: un problema di identità(1870-1938) Giovanni Spadolini, politico, giornalista e primo docente universitario di storia contemporanea del nostro paese, afferma che «Una cosa è certa. Il sionismo sta al Risorgimento ebraico così come il mazzinianesimo sta al Risorgimento nazionale italiano».
    A partire dal primo Risorgimento infatti «il grande profeta del sionismo – Theodor Herzl – ha sempre guardato all’esempio e all’insegnamento di Giuseppe Mazzini». Se il padre del sionismo ebbe un occhio di riguardo verso il nostro paese fu anche perché «l’Italia – secondo lo storico Arnaldo Momigliano – è forse stato l’unico paese in Europa in cui gli ebrei sono stati bene accetti dall’Esercito e dalla Marina e hanno potuto raggiungere i gradi più alti senza alcuna difficoltà»”. In tal senso basti pensare che nel 1907 Ernesto Nathan divenne sindaco di Roma e che basterà attendere il 1910 perché l’Italia abbia il suo primo Presidente del Consiglio di religione ebraica: Luigi Luzzatti.
    Un legame che traspare anche nel libro Roma e Gerusalemme(1861) di Moses Hess, che oltre ad essere colui che convertì Engels al Comunismo, introdusse Marx ai problemi sociali ed economici e in buona parte fu uno “dei più diretti maestri di Herzl”, ripetendo i ritmi e le cadenze della terza Roma di Mazzini elabora un parallelismo fra la ricostruzione del popolo italiano in unità e il ritorno del popolo ebraico alla “terra promessa”.
    Un sionismo – come ricordava giustamente Spadolini – che nonostante le sue vibrazioni messianiche era comunque destinato ad «emanciparsi, nella sua complessa esperienza politica, da ogni residuo teocratico». «Un processo di trasformazione – prosegue Spadolini – che non mancò nelle stesse file del mazzinianesimo e della democrazia repubblicana italiana senza mai annullare quel valore di fermento profetico e quasi millenaristico che la speranza mazziniana aveva suscitato agli albori in un paese frantumato, proprio nella intuizione di un legame indissolubile fra valori politici e valori di coscienza, fra morale religiosa e morale civile».
    Un apporto quello dell’ebraismo italiano alla costituzione dello Stato d’Israele più qualitativo che quantitativo. Dei quasi quattromila ebrei italiani che contribuirono alla costruzione dello Stato di Israele – scrive Spadolini - molti ebbero ruoli di grande prestigio nel campo dell’università e della cultura «nel nesso profondo fra civiltà ebraica e civiltà italiana, complementari e mai contrapposte, intrecciate e non divise nel corse dei secoli».
    Un apporto quello dello Stato e della politica italiana al sionismo che fu innanzitutto di carattere politico. Vittorio Emanuele III – lo stesso Re che promulgò le leggi razziali – definì la Palestina come «un paese essenzialmente ebraico» anche se poi quando si trattò di muoversi presso Costantinopoli si tirò indietro non andando oltre espressioni di simpatia e di stima verso gli ebrei. Politico perché – come scrisse Spadolini – il movimento democratico italiano, fra primo e secondo Risorgimento, fu sempre dalla parte degli ebrei. Per i democratici integrali infatti «sionismo è sempre stato sinonimo di patriottismo e di fedeltà al diritto di nazionalità».
    A 62 anni dalla nascita di Israele e a 150 anni dall’Unità di Italia il popolo senza terra ha uno Stato e il territorio senza popolo ha una sua identità. Tuttavia troppo spesso si mettono in discussione entrambe le conquiste. Parte del mondo arabo e diverse organizzazioni terroristiche si ostinano a non riconoscere il diritto all’esistenza di Israele senza però rendersi conto che l’ideale che lega un popolo prescinde dall’esistenza su carta di uno Stato.
    Da noi invece la situazione è un’altra. Negli ultimi anni è infatti in atto un processo di delegittimazione del processo politico e culturale che ci ha portato all’Unità. C’è chi senza pudore alcuno, ma soprattutto ingigantendo singoli episodi, osa degli accostamenti tra Risorgimento e medioevo. Larghi settori del Parlamento, e del Governo, sembrano disinteressarsi alle celebrazioni dei 150 anni dall’Unità di Italia che rischiano di trasformarsi in simboli non riconoscibili.
    Se di fatto gli ideali mazziniani furono in grado di ispirare un popolo senza stato oggi, in occasione del 62esimo anniversario dello Stato di Israele, dovremmo riflettere su quella che è la nostra condizione attuale. Quali sono gli ideali e la visione in cui si riconoscono i cittadini e i politici? Quanto investiamo nella formazione di un sentimento patriottico fondato su una visione storica condivisa? Quanto crediamo in noi stessi come italiani e agli ideali alla base della nostra Costituzione?
    Personalmente non ho una visione molto positiva in tal senso. Ciò non toglie che se davvero si vuole riformare un paese, che troppo spesso si sente estraneo a se stesso, è il caso di lavorare prima ai valori che dovrebbero ispirare il cambiamento e poi ai titoli, capi, sezioni, articoli e commi che lo materializzano. Il presente può dare sicuramente delle ottime indicazioni sulle esigenze attuali ma se non si ha una visione del futuro condivisa, o se peggio ancora si rinnega e non si riconosce l’importanza storica del nostro passato, si rischia di costruire un cambiamento fondato sulla pasta frolla.

    (Fonte: Ffwebmagazine - Quel legame profondo tra Risorgimento e Sionismo )

    __________________________

    Il materiale da noi pubblicato è liberamente diffondibile, è gradita la citazione della fonte: Centro Studi Giuseppe Federici

    Archivio dei comunicati: Centro Studi Giuseppe Federici

  7. #17
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
    Comunicato n. 51/10 del 14 maggio 2010, San Bonifacio

    Della kippah d’Isacco s’è cinta la testa

    La Breve storia degli Ebrei d’Italia di Gemma Volli (1961) illustra il ruolo preponderante avuto dall’ebraismo nelle vicende risorgimentali.
    Ne pubblichiamo alcuni passi tratti. A questo link i lettori potranno trovare il testo completo: Breve storia degli ebrei in Italia

    IX. La lotta per l’Indipendenza
    (…) Il Risorgimento italiano non è soltanto un movimento di riscatto nazionale, ma anche e soprattutto un grandioso movimento sociale, che entra nel quadro più vasto di un movimento europeo; e per gli Ebrei, Risorgimento non significava solo unità d’Italia, ma anche e soprattutto emancipazione; la lotta non era solo contro lo straniero che calpestava il suolo nazionale, ma anche contro le classi più retrive della società italiana, preoccupate soltanto di mantenere gli antichi privilegi e lige alle tradizioni di conservatorismo clericale.
    Tutti gli Ebrei d’Italia partecipano a questa lotta: fanno parte di società segrete; a Firenze i fratelli Paggi stampano opuscoli e manifesti clandestini per incitare alla lotta; a Vercelli, il Collegio Foà diventa una vera fucina di patriottismo. Tutti gli Ebrei che viaggiano abitualmente per i loro affari diventano i naturali intermediari fra le varie società segrete; essi offrono continuamente armi e denaro. Fra i primi combattenti ebrei del Risorgimento italiano dobbiamo ricordare: Abramo Fortis, che prende parte ai moti di Faenza nel 1820, Israel Latis, condannato dal duca di Modena alla Rubiera nel 1822, ed Angelo Levi, caduto in battaglia a Salerno nel 1828.
    La Rivoluzione di luglio del 1830 abbatte la monarchia borbonica in Francia, ed anche questa rivoluzione ha le sue ripercussioni in Italia: i moti del 1831. A Modena Angelo Usiglio e suo fratello Enrico sono collaboratori di Ciro Menotti; si può dire che tutto il movimento dei patrioti modenesi è finanziato da banchieri ebrei. Ora la causa degli Ebrei è più che mai legata a quella dei patrioti italiani: se un governo reazionario crolla, le leggi antiebraiche vengono abrogate. Così avvenne a Roma e Ferrara, dove i governi provvisori abrogarono tali leggi; se pure parte della popolazione continuasse a nutrire sentimenti ostili nei riguardi degli Ebrei. Ma i moti del ‘31, soffocati dall’immediato intervento delle milizie austriache, falliscono, e nella città di Ciro Menotti sono rimesse in vigore tutte le restrizioni antiebraiche, compreso il "segno giudaico"; anzi il duca di Modena dimostrò un tale furore contro gli Ebrei, che perfino il comandante austriaco intervenne per consigliargli un po’ di moderazione. Nella dura repressione che seguì ai moti di Modena, patrioti ed ebrei sono accomunati; e questo dimostra ben chiaramente quanto fossero uniti nella lotta.
    Le instabili condizioni politiche caratterizzate in questo tempo, da moti rivoluzionari destinati a fallire per immatura organizzazione, seguiti da rigide a repressioni, si riflettono nelle condizioni degli Ebrei: a Ferrara le porte del ghetto vengono rimesse e poi ritolte; a Lugo e Ancona i portoni del ghetto non vengono rimessi sui cardini, ma gli Ebrei sono costretti ad abitare entro la cinta.
    Intanto il movimento di liberazione va affermandosi nella coscienza degli Italiani; Giuseppe Mazzini fonda la "Giovane Italia". Il Mazzini, da principio, non ha molta simpatia per gli Ebrei - forse per influenza di F. D. Guerrazzi - come apprendiamo, tra l’altro, da una sua lettera inviata da Londra a sua madre nel 1845; ma poi si ricrede e conta tra i suoi migliori amici degli ebrei. Nell’esilio dì Londra egli ha come compagno Angelo Usiglio, il passaporto egli l’ha avuto dal rabbino di Livorno; a Londra egli stringe saldi vincoli di amicizia con la famiglia del banchiere Nathan, la cui casa era aperta a tutti gli esuli italiani. Sarina Nathan diventerà poi la sua fida consigliera, ed egli chiuderà la sua travagliata esistenza a Pisa in casa di Jeannette Nathan Rosselli, figlia di Sarina.
    A Torino il movimento mazziniano è finanziato dalla famiglia Todros. David Levi di Chieri, il banchiere poeta, scrive un’ode in memoria dei fratelli Bandiera, la cui nonna pare fosse un’ebrea di Ancona. A Livorno gli Ebrei continuano ad avere una sia pur parziale libertà. Si fonda colà una società capeggiata da due ebrei (Ottolenghi e Montefiore): "I veri italiani"; ma gli animatori vengono arrestati.
    (…) Ma se tutti gli Ebrei lottavano per l’unità e l’indipendenza d’Italia, anche tutti i patrioti, dal canto loro, erano favorevoli agli Ebrei: l’emancipazione ebraica è considerata un atto di giustizia che fa parte del programma delle rivendicazioni italiane; lo studio della storia ebraica può far comprendere la storia di tutti i popoli se si esamina l’atteggiamento da questi tenuto verso gli Ebrei. Nel 1830 Gabriele Pepe scrive su questo argomento un articolo sull’" Antologia" ; nel 1836 Carlo Cattaneo pubblica uno studio che intitola: "Ricerche economiche sulle interdizioni imposte agli Israeliti"; Vincenzo Gioberti nel suo "Primato civile degli Italiani" sostiene che gli Ebrei devono essere emancipati; Niccolò Tommaseo, Angelo Brofferio, Cesare Balbo, tutti sono ardenti fautori dell’emancipazione ebraica; i due fratelli D’Azeglio (Massimo e Roberto) esplicano la loro attività in favore degli Ebrei, il primo con scritti ("Della emancipazione civile degli Israeliti", dedicato al papa), il secondo adoperandosi con fervore per la emancipazione degli acattolici. Fra gli amici degli Ebrei non dobbiamo dimenticare Ugo Foscolo, di cui si narra questo episodio significativo: quand’egli era ancora ragazzo, la popolazione di Zante voleva un giorno dare l’assalto al ghetto. Già le porte del piccolo ghetto stavano per cedere, quand’egli balzò sul muro di cinta e gridò alla folla: "Vigliacchi, indietro, vigliacchi!". La rampogna del ragazzo Foscolo fece rinsavire la folla inferocita, che rinunciando al proposito di aggredire gli Ebrei, si disperse.
    Atteggiamento ostile agli Ebrei continuano a mantenere i reazionari, che sobillano la plebaglia e questa talvolta si abbandona ad eccessi. Così avvenne a Mantova: nel 1843 ebbe luogo colà un processo, dovuto a violente manifestazioni antiebraiche; processo ricordato anche a Vienna dal dottor Bassano di Mantova, compagno all’avvocato Consolo di Verona nella missione, già ricordata, inviata nella capitale austriaca dalle Comunioni Israelitiche del Regno Lombardo-Veneto. (…)

    X. Il Quarantotto - La prima guerra d’Indipendenza
    1848: l’Europa tutta è percorsa da un fremito di libertà, un fermento liberale agita le coscienze, unite nell’aspirazione comune ai popoli di ottenere dai governi riforme costituzionali. Anche stavolta la scintilla della rivoluzione parte dalla Francia (Rivoluzione dì febbraio a Parigi); è stato il collasso della monarchia a segnarne l’inizio. Ora, in tutta l’Europa si parla di emancipazione politica e di libertà religiosa. In Italia i moti del ‘48 trovano gli ebrei in prima linea.
    Prima a insorgere è Milano (5 giornate, 18-22 marzo); sulle barricate combatte un ragazzo di 15 anni: il mantovano Ciro Finzi, che con ardimento si mette a capo dei rivoltosi, mentre Giuseppe Finzi di Rivarolo ha un comando militare, e giornalisti ebrei, tra cui il triestino Giuseppe Revere, scrivono articoli infiammati per esortare i giovani alla lotta. A Torino i giovani, ebrei partono per il fronte, esortati dal rabbino stesso; e insieme ad ebrei provenienti da altre città, formano la VII Compagnia bersaglieri, che prende parte alla battaglia della Bicocca nella prima guerra d’Indipendenza. A Ferrara si distruggono i pilastrini posti agli sbocchi del ghetto (al posto dei portoni); Salvatore Hanau è nominato segretario del Circolo Nazionale, e poi, inviato quale suo rappresentante a Torino, è membro fra i più attivi del Governo provvisorio. A Venezia, il 23 marzo 1848 è proclamata la Repubblica con a capo Daniele Manin (figlio o, secondo altri, nipote di un ebreo che, tenuto a battesimo dal fratello dell’ultimo doge, Manin, ne aveva preso il nome, essendo consuetudine prima dell’emancipazione che quando un ebreo prendeva il battesimo, assumesse il nome del padrino); del Governo provvisorio entrano a far parte Leone Pincherle, Ministro dell’Agricoltura e Commercio, e Isacco Pesaro Maurogònato, Ministro delle Finanze; mentre i rabbini Samuele Olper e Abramo Lattes sono nominati membri dell’Assemblea. Del rabbino Olper si racconta che baciò il crocifisso in Piazza San Marco, dicendo: "Siamo tutti fratelli". Spirito irrequieto, lo ritroveremo in Piemonte nel 39, a fare opera di salvataggio nella coraggiosa ricerca di ebrei feriti e prigionieri. Nell’agosto del 1848 Daniele Manin proclama nuovamente la Repubblica di San Marco e decide la resistenza ad oltranza. E quando Venezia, assediata per mare e per terra, colpita da un’epidemia di colera, dopo un’eroica resistenza, ultima tra tutte le città d’Italia, rinuncia alla lotta e deve arrendersi (24 agosto 1849), ritornato il governatore austriaco, si dice che questi, dopo avere esaminato attentamente il rapporto finanziario del Maurogònato, esclamasse: "Non avrei mai creduto che questa teppa repubblicana fosse cosi competente".
    Il 9 febbraio 1849 viene proclamata la Repubblica Romana con a capo Mazzini e difesa da Garibaldi; il papa Pio IX fugge a Gaeta. Nell’Assemblea nazionale ci sono tre ebrei: lo scrittore triestino Giuseppe Revere, che da Milano era passato a Venezia e da lì a Roma, Abramo Pesaro, cugino di Isacco Pesaro Maurogònato, e Salvatore Hanau da Ferrara. Si trova a Roma in quei momenti decisivi anche l’economista Leone Carpi. A difendere la Repubblica Romana accorrono anche ebrei stranieri: ricorderemo fra questi Carlo Alessandro Blumenthal di Londra, che militava col nome di Scott. Aveva già combattuto a Venezia; e dopo la caduta della Repubblica Romana, seguirà Garibaldi nella sua ritirata verso l’Italia settentrionale, combatterà con lui nella guerra del ‘59 nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi, e nel ‘60 preparerà un piano, poi non attuato, di rapire il bambino Mortara. Nella Legione lombarda, accorsa in difesa della Repubblica Romana, composta da 172 volontari, si trovano 5 ebrei, tra i quali il giovinetto Ciro Finzi, che aveva combattuto a Milano dalle barricate, e il giovane medico triestino Giacomo Venezian. Tanto Ciro Finzi che Giacomo Venezian cadono nella difesa della Repubblica Romana: il primo triestino morto per la libertà e l’Italia è un ebreo. Caduta la Repubblica Romana malgrado gli atti di valore e la disperata resistenza dei difensori, per opera dell’esercito francese guidato dal generale Oudinot (il segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, aveva sollecitato dalle potenze cattoliche l’invio di eserciti per combatterla) i volontari seguono Giuseppe Garibaldi nella sua marcia verso il nord.
    La prima guerra d’Indipendenza, militarmente sfortunata, non ha mutato la carta politica d’Italia, ma ha risvegliato le coscienze: si chiede a gran voce libertà religiosa per gli acattolici; Ebrei e Italiani hanno combattuto uniti per l’indipendenza d’Italia, e nell’amore per la libertà si sono fusi. La prima guerra d’Indipendenza ha dato agli Ebrei dei Regno di Sardegna l’emancipazione.

    XI. Emancipazione - Seconda e terza guerra d’Indipendenza
    (…) Scoppia la guerra contro l’Austria; al re, in procinto di lasciare Torino, si presenta una deputazione ebraica capeggiata dal poeta banchiere David Levi, da noi già ricordato, per significargli quanta importanza avesse l’esito della guerra per tutti gli Italiani, ma soprattutto per gli Ebrei: sconfitti gli Austriaci, gli ebrei del Lombardo-Veneto avrebbero ottenuto lo stesso trattamento di quelli del Regno Sardo.
    Il 22 marzo, il Ministro degli Interni Vincenzo Ricci presenta un memorandum, in cui chiedeva la completa emancipazione ebraica; ed il 29 dello stesso mese (29 marzo 1848) Carlo Alberto, sul campo dì battaglia di Voghera, firma un decreto col quale concedeva tutti i diritti agli ebrei ed agli altri acattolici. Una grande battaglia era vinta; le sconfitte militari della prima guerra d’Indipendenza non poterono offuscarne la gloria. Curioso particolare storico: il decreto di emancipazione per gli Ebrei del Regno di Sardegna fu firmato nello stesso giorno in cui, nel lontano 1516, era stato istituito in Italia il primo ghetto: quello di Venezia.
    Ovunque accolta con favore questa legge (tranne che ad Acqui, dove elementi reazionari inscenarono tumulti alla vigilia di Pasqua), 15 giorni dopo la sua pubblicazione veniva emanato un editto, in forza del quale gli ebrei erano ammessi nelle Università e nell’esercito (fino a questo momento avevano combattuto come volontari e non come regolari). Il 7 giugno una mozione presentata in Parlamento dai liberali dichiarava che le differenze religiose non dovevano impedire il pieno godimento dei diritti civili e politici.
    (…) In Francia viene fondato da un ebreo, l’ingegner Carvallo, un giornale dello stesso nome: "L’Opinion" , che sostiene la politica cavouriana. Cavour prepara con somma saggezza ed estrema cautela la seconda guerra d’Indipendenza; ottiene da Casa Rothschild i fondi per fare la guerra contro l’Austria, con la scusa apparente che servivano per costruire la ferrovia del Cenisio. Fino al 1880 Casa Rothschild sovvenzionò la costruzione di tutte le ferrovie d’Europa; per principio Casa Rothschild ha sempre rifiutato prestiti per spese militari. (…)
    Alla Spedizione dei Mille (1860) prendono parte otto ebrei fra i quali il capitano veneziano Davide Uziel, il colonnello Enrico Guastalla (da noi già ricordato) e uno studente tedesco, Adolph Moses, che poi andrà in America, dove farà il rabbino. Nello stesso anno, con la battaglia di Castelfidardo del 18 settembre, ha inizio, per opera del generale Cialdini a capo dell’esercito piemontese, la liberazione delle Marche; dopo la vittoria dei Piemontesi, Ancona resiste dieci giorni ancora, assediata per terra e Per mare, e difesa dalle milizie pontifice con a capo il generale Lamoricière; ma il 29 settembre deve capitolare. Durante l’assedio viene distrutto il Tempio Levantino, per dar posto alla costruzione dello scalo Lamoricière; ma forse, oltre che da ragioni belliche, quest’ordine era stato dettato da animosità verso la Nazione ebrea, che doveva ottenere, con l’entrata delle milizie sarde, pieni diritti civili e politici. (…)
    Il 17 marzo 1861 il Regno d’Italia viene solennemente proclamato dal Parlamento italiano, al quale tutte le regioni annesse hanno inviato i loro deputati; lo statuto sardo del 1848 entra in vigore in tutto il Regno. Viene così ratificata l’emancipazione ebraica, già riconosciuta nelle varie regioni con relativi decreti, in forma ufficiale.
    Ma a Roma le condizioni degli Ebrei sono sempre gravi. Pio IX, da quando, dopo il crollo della Repubblica Romana, è ritornato da Gaeta trionfante e pieno di rancore, ha al suo fianco come segretario di Stato il cardinale Antonelli, fiero oppositore dei patrioti e di qualsiasi riforma. Dopo la caduta della Repubblica Romana, il vacillante Stato pontificio si è servito di soldati stranieri per reprimere i moti delle popolazioni: francesi a Roma e austriaci nelle province. E dopo la liberazione delle province, nella Capitale è rimasto il presidio francese. In questa Roma oppressa da inquisitori e presidiata da milizie straniere, tristissime sono le condizioni degli Ebrei: i giornali stranieri del tempo riportano le impressioni dei visitatori del ghetto di Roma, miserabile quartiere, la cui vista suscita pietà; Sir Moses Montefiore, inviato a Roma a capo della "missione Mortara", nella sua relazione al Board of Deputies of British Jews (Assemblea rappresentativa ebraica) dice che le condizioni degli ebrei romani sono pietose oltre ogni dire. E tali continuano ad essere anche dopo la costituzione del Regno d’Italia. Le antiche interdizioni sono state ulteriormente inasprite. Il fanciullo Mortara, ormai divenuto per tutta Europa simbolo della oppressione pontificia, è trattenuto prigioniero a Roma e avviato al sacerdozio. (…)
    L’anno seguente (1867) Garibaldi tenta di liberare Roma coi suoi legionari, fra i quali combattono alcuni ebrei; e infine, nel 1870, ritirate da Roma le milizie francesi in seguito allo scoppio della guerra franco-prussiana, le truppe italiane, al comando del generale Lamarmora, entrano a Roma. Di queste fa parte anche Riccardo Mortara, fratello di Edgardo, che, rapito all’età di meno di 7 anni, è diventato sacerdote cattolico. Presidente della Comunità ebraica di Roma è da molti anni Samuele Alatri; ha rappresentato l’ebraismo romano in tutti i negoziati col Governo pontificio; ha assistito Sir Moses Montefiore nell’infelice "missione Mortara" ; ed ora fa parte della deputazione che deve comunicare al re i risultati del plebiscito. Il 2 ottobre Roma è annessa al Regno d’Italia; 11 giorni dopo un decreto reale abolisce tutte le differenze religiose. (…)

    (Fonte: Breve storia degli ebrei in Italia)

    __________________________

    Il materiale da noi pubblicato è liberamente diffondibile, è gradita la citazione della fonte: Centro Studi Giuseppe Federici

    Archivio dei comunicati: Centro Studi Giuseppe Federici

  8. #18
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    IDENTITA’ ITALIANA E MODERNITA’ IDEOLOGICA

    Ogni riflessione sulle problematiche riguardanti l’identità è costretta a scontrarsi con difficoltà spesso insormontabili. Non è solo difficile darne una definizione, a causa della sfuggevolezza semantica, ma è persino complesso esplicitarne le sue componenti e i suoi rapporti coi singoli e i gruppi che, nondimeno, si trovano in ogni momento storico ad avere un’identità. La questione si complica ancor di più passando dalla considerazione astratta dell’identità ad una concreta, cioè un’identità specifica. Molte sono le domande che sorgono sin dall’inizio della riflessione: quanti tipi d’identità esistono? Hanno tutte lo stesso valore? Sono tra di loro sovrapponibili? Chiaramente tutte queste dipendono dall’approccio iniziale al problema dell’identità, tenendo comunque ben presente che il discorso razionalmente coerente non è in grado di abbracciare completamente una questione che investe anche sfere irrazionali della vita umana.
    Lungi dal voler fornire una definizione, mi limito pertanto a specificare come l’identità non possa essere ristretta al solo fattore etnico, fattore tra l’altro tra i più scivolosi e falsificabili (1) , ma debba abbracciare l’intera dimensione storica di un popolo. Credo infatti che un’adeguata considerazione dell’identità debba guardare ad essa in quanto identità storica, assumendo questo termine nella più seria accezione. Per un popolo farsi erede e tramite di un’identità significa farsi carico dell’intero passato nelle sue glorie e magnificenze, così come nelle sue bassezze ed infamie. Peraltro è bene specificare come l’utilizzo in senso identitario di aggettivi e pronomi possessivi (il “nostro” passato, destino, ecc.) sia giustificato solo all’interno di una concezione tradizionale del passaggio generazionale, mentre sembra assumere un carattere indebito quando afferente a una visione rivoluzionaria o semplicemente neoterica (2) . La dimensione storica dell’identità implica di necessità che questa si realizzi “spontaneamente” e “naturalmente” dalla semplice accettazione della continuità e ciò porta ad escludere quelle identità costruite artificialmente dalla selezione o dalla contraffazione evidente del proprio passato. Questa selezione infatti porta alla rilettura ideologica delle vicende storiche con la finalità di costruire un’identità antistorica e votata a finalità ben precise.
    Non credo di errare se annovero in questo tipo di identità artificiali quella italiana, così come venuta a configurarsi nell’ottocento romantico della penisola. Dico “configurarsi” ma sarebbe meglio esplicitare chiaramente come questa identità sia stata volontariamente costruita in élitari laboratori della sovversione, circoli letterari o logge massoniche, con connotati apertamente rivoluzionari e antitradizionali. Difatti se una reale identità storica scaturisce naturalmente dalle vicende di un popolo e pertanto necessita unicamente la sua accettazione da parte dei singoli e dei gruppi, orgogliosamente legati al proprio passato, un’identità artificiale necessita come substrato una determinata visione filosofica, dato che la rivoluzione è “un tentativo per modellare il mondo in un quadro teorico”(3) . Mentre infatti una concezione tradizionale dell’identità porta a considerare la propria visione del mondo e il proprio grado di consapevolezza come risultato di una storia precedente di cui ci si sente continuatori(4) , un’identità rivoluzionaria vuole apertamente essere palingenetica e utilizzare la propria visione filosofica per accusare d’arretratezza il passato e programmare un’antistorica evoluzione futura. Dato che tutte le identità moderne, in particolare quelle nate sull’onda del romantico spirito nazionale, hanno assunto apertamente questo carattere rivoluzionario esse hanno finito per distruggere la reale identità storica dei popoli, causando l’oblio del senso storico che molti filosofi accusano di vedere nella post-modernità.
    La moderna ideologia italiana prese vita senza dubbio nel pieno Ottocento ma affonda le radici nel Settecento quando, in piena temperie illuminista, il paradigma del progresso andò a sostituire nelle menti degli intellettuali e dei governanti dell’epoca (non certo del popolo) quello della conservazione. Assetti politici ed economici consolidati nei secoli vennero improvvisamente stravolti e cancellati e veniva cambiando la funzione stessa della cultura, non più votata alla difesa di un patrimonio secolare, o alla legittimazione di forme di governo, bensì dedita alla costruzione a tavolino di nuovi e astratti modelli societari che avrebbero dovuto sostituire i precedenti. E’ significativo che nel successivo clima rivoluzionario sono da registrare altri due cambiamenti epocali: la rilettura della propria storia alla luce di schemi storiografici apertamente viziati da pregiudizi ideologici e la riscoperta in senso anticristiano della classicità. Il nuovo schema storiografico da applicare alle vicende della penisola venne elaborato alla luce di un processo d’alternanza di periodi di decadenza e di risorgimento (5) il cui evidente pressapochismo critico non ebbe paragoni nella storia delle storiografie degli altri paesi europei. Allo splendore dei Comuni medievali e delle signorie rinascimentali, rinnovatori della grandezza del repubblicanesimo romano e presunti portatori di valori moderni, sarebbe seguito il grande tracollo dell’epoca moderna, epoca dell’oppressione politica e religiosa nonché della celebre “decadenza spagnola”, a cui avrebbe dovuto far seguito l’auspicato risorgimento nazionale. Come è noto questo schema, proposto nella sua completezza da Sismonde de Sismondi (6) , venne ereditato dalla generazione romantica, desiderosa di farsi artefice della profezia, e abilmente amplificata dai romanzieri ottocenteschi, in particolar modo Alessandro Manzoni.
    Anche la riscoperta della classicità assunse in realtà un significato prettamente ideologico dato che il sapere degli antichi non era stato certo dimenticata dall’Antico Regime, durante il quale la cultura matrice dei collegi gesuitici, formatori di gran parte della classe dirigente, era stata quella del classicismo cristianizzato. La nuova classicità intendeva invece porsi in antitesi alla cultura gesuitica, in senso fondamentalmente anticristiano, basti a pensare ai nomignoli latini assunti dai rivoluzionari francesi e alla celebrazione della Roma Repubblicana da parte del giacobinismo. Queste elaborazioni di epoca rivoluzionaria servirono inoltre da fondamento teorico per il movimento repubblicano italiano, il quale avrebbe ripescato il mito del repubblicanesimo romano allo scopo di distruggere “l’antica baldracca che ardìo dirsi al mondo la sposa di Dio” (G.MAMELI, L’alba), cioè la Chiesa. Il mito della Roma pagana è peraltro sorretto dalla costruzione della nuova identità sulla base della sola latinità, trascurando qualsiasi altro influsso etnico e culturale esercitato dai popoli che abitarono la penisola nei secoli e millenni precedenti.
    Con questi ingredienti la prima generazione romantica, in particolar modo il circolo milanese del Conciliatore, costruì teoricamente la nuova identità a cui i popoli della penisola avrebbero dovuto adeguarsi. Questa nuova identità era peraltro assai difficilmente accettabile a popolazioni sostentate da tre secoli di cattolicesimo tridentino, dato che il paradigma modernizzante con cui si sarebbe voluta la cosiddetta unità d’Italia e nato sulla base di una cultura anticattolica, postulava l’assoluta inadeguatezza del cattolicesimo alla modernità (7) , la quale era infatti scaturita dalla Rivoluzione Protestante (8) . Alla modernità ideologica s’intrecciò anche la volontà di modernizzazione economica e crescita industriale, vivo soprattutto nelle giovani generazioni lombarde le quali mal sopportavano l’ “oppressione” straniera dato che i loro interessi economici sarebbero stati ancor meglio protetti da uno stato a vocazione maggiormente liberale rispetto all’Impero della restaurazione (9) . Questa via moderata capace di tenere insieme un cattolicesimo liberale, pieno d’ammirazione per il percorso storico dei paesi protestanti, e le élites borghesi fu quella che, fiduciosa nei Savoia, riuscì a conseguire i suoi obiettivi, avendo ragione dell’estremismo repubblicano e mazziniano, capace solo di ammucchiare morti su morti senza alcun risultato pratico. Eppure, una volta ottenuta la soddisfazione dei loro disegni politici, i vati del nuovo italianismo si trovarono a dover fare i conti con uno scacco storico: i popoli della penisola tardavano ad adattarsi alla maschera per loro costruita e al sud avevano addirittura dato vita ad una guerra civile. Massimo D’Azeglio, personaggio abbastanza schietto da lasciar intuire nei suoi scritti la vivacità dei suoi moti interiori, lasciò trasparire tutta la sua amarezza in celebri affermazioni quali: “I più pericolosi nemici d’Italia sono gli italiani […] hanno voluto far un’Italia nuova e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima”(M.D’AZEGLIO, I miei ricordi).
    Nonostante il progetto di perversione ideologica fosse sostanzialmente fallito, la necessità di amalgamare la varietà delle identità dei popoli italiani in un paradigma unitario e moderno si sostanziò nella legislazione del nuovo Regno d’Italia: assoluta contrarietà al modello federale, repressione spietata del brigantaggio, leva militare obbligatoria (il più lontano possibile da casa) e, soprattutto, imposizione della scuola dell’obbligo, attraverso le leggi Casati e Coppino. Proprio per la formazione degli scolari Francesco De Sanctis, più volte ministro della pubblica istruzione, scrisse la sua Storia della letteratura italiana, manuale il quale, ben lungi dal voler presentare una pacifica interpretazione dei testi letterari, si propose come vademecum per l’educazione civica del nuovo popolo italiano, che le scuole del Regno avrebbero dovuto plasmare. Pertanto nel manuale desanctisiano piuttosto che giudizi letterari si possono leggere affrettate valutazioni storiche, basate su un pregiudizievole odio anticattolico, dato che il suo non celato obbiettivo era quello di costituire una cultura moderna come alternativa alla cultura clericale in vista della laicizzazione della società, ossia dare vita ad un Kulturkampf italico. Famoso è l’auspicio con cui l’”idealista militante” De Sanctis concluse, in pieno senso hegeliano, l’adeguamento della cultura italiana a quella moderna: “Guardare in noi, nelle nostre idee, nei nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro,studiandolo, assimilandolo e trasformandolo. Questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna[…] Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non ai secondi posti” (F.DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana).
    E’ significativo che l’eredità di De Sanctis venne rivendicata nel corso del primo Novecento da tutte e tre le correnti culturali egemoni: il liberalismo crociano, il marxismo gramsciano e soprattutto il fascismo gentili ano (10) . Credo che l’attenzione vada rivolta soprattutto all’ultimo per la grande influenza di cui egli poté disporre in quanto ministro della pubblica istruzione e principale ideologo del fascismo, soprattutto perché nella teorizzazione di Gentile la nuova identità da proporre/imporre agli abitanti della penisola si arricchì e si complicò (11) . Gentile fin dall’inizio della sua riflessione era conscio della necessità di raggiungere la modernità, da cui il popolo della penisola si teneva ancora ben distante, ma che tale impresa non poteva essere compiuta semplicemente imitando il percorso già compiuto da altri popoli europei bensì trovando la propria strada. Rifiutando dialetticamente il concetto di rivoluzione marxista, Gentile credette che l’analogo della Rivoluzione francese per il popolo italiano andasse ritrovato nella categoria di Risorgimento, il quale doveva essere rivoluzione ma tale da conservare la tradizione del popolo italiano, cioè il cattolicesimo. Pertanto Gentile sognò una riforma del cattolicesimo che lo rendesse compatibile con la modernità e immaginò che i semi di questa riforma fossero stati gettati da due pensatori risorgimentali, Gioberti e Rosmini. Naturalmente la visione dei due era parziale e doveva trovare la sua definitiva realizzazione nel pensiero gentiliano e, nella prassi, con l’adesione al fascismo,movimento che avrebbe permesso la definitiva modernizzazione delle coscienze italiane. E’ interessante proprio la vicinanza della riflessione gentiliana con quella mussoliniana: mentre Gentile elaborava la categoria di Risorgimento come rivoluzione-conservazione, Mussolini trovò nella distinzione tra italiani risorgimentali e italiani non risorgimentali la vera chiave per superare la lotta di classe socialista.
    La categoria di Risorgimento pertanto per Gentile non doveva annientare il cattolicesimo bensì immanentizzarlo all’interno del culto dello Stato, ma evidentemente questo processo non poteva che portare alla cattiva comprensione dello stesso cattolicesimo, ricondotto all’interno di una visione hegeliana antitetica alla philosophia perennis cattolica.
    L’ideologia risorgimentale italiana è sicuramente sopravvissuta al fascismo ed è ancora egemone nella cultura italiana la quale non ha saputo ancora fare i conti con il passato, preferendo la bella immagine costruita a tavolino. Ne risulta che l’insegnamento e la ricerca storica sono state profondamente sviate e solo negli ultimi anni alcuni storici hanno maturato la comprensione che il pregiudizio ideologico italiano ha impedito di ricercare la vera storia dei popoli italiani e ha portato invece a scrivere solo la storia delle eccezioni, dei “pochi ma buoni” che si sono fatti portatori di presunti valori moderni. In modo tale da conoscere tutto sui marginali movimenti ereticali del Cinquecento nella penisola (profeti sconfitti della modernità) ma poco sulla società cattolica dell’età barocca.
    Dopo questo excursus, evidentemente sommario, la domanda da porsi non può essere altro che questa: cosa farsene dell’identità italiana? Ho cercato nell’articolo di specificare chiaramente che mi riferivo alla “nuova” identità italiana ma se eliminiamo la componente neoterica rimane qualcosa dell’italianità? Esiste un’identità italiana tradizionale, non moderna? Molti la pensano così, credendo che ad un substrato d’identità reale il romanticismo abbia sovrapposto una patina ideologica (12) , ma questa visione mi rende piuttosto dubbioso. Mi pare che la questione dell’identità vada studiata non tanto nelle élites culturali o di governo, dove si possono scorgere dei connotati culturali comuni in tutta la penisola almeno dal Rinascimento, quanto negli strati popolari, i più numerosi eppure i più “silenziosi” e, per questo, meno facilmente studiabili. Non credo inoltre che l’identità comune possa essere ristretta alla cattolicità, dato che il fattore religioso è certo importante, soprattutto in determinati contesti, ma non sufficiente, considerato che la religione cattolica aspira all’universalità.
    D’altronde ogni discorso razionale sull’identità mi pare scorra su un binario completamente diverso da quello attraverso il quale l’identità reale si comunicava da generazione a generazione nelle società tradizionali. Interrogati sulla loro identità probabilmente i nostri antenati non avrebbero saputo dare alcuna risposta e forse non avrebbero neppure compreso la domanda, eppure avrebbero avuto un’identità salda: è lo stesso concetto d’identità, così come da noi razionalmente concepito, ad essere inevitabilmente figlio della modernità!

    Davide Canavesi


    Note

    (1) W.POHL, Le origini etniche dell’Europa: barbari e romani tra antichità e medioevo, Viella, Roma 2000.
    (2) Per neoterismo intendiamo l’ “ideologia del nuovo”, ossia l’aprioristica e acritica concezione di una superiorità del nuovo sul tradizionale, che è ben visibile in molti campi del pensiero moderno. Il termine, originariamente legato alla storia della letteratura latina, è ripreso in altro contesto da R.AMERIO, Iota Unum, Ricciardi, Napoli 1989.
    (3) A.CAMUS, L’homme revolté, Gallimard, Paris 1951, p.134.
    (4) Mi sembra proprio questo il significato della celebre frase del medievale Bernardo di Chartres: “Nos quasi nani super humeros gigantium sumus”.
    (5) C.MOZZARELLI, Introduzione, in C.MOZZARELLI (a cura di), Identità italiana e cattolicesimo: una prospettiva storica, Carocci 2003, p.13.
    (6) Nel libro di grandissimo successo internazionale Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1805). Cfr. A.MUSI, Antispagnolismo come mito negativo della fondazione italiana: il ruolo di Sismondi, in A.QUONDAM-G.RIZZO (a cura di), L’identità nazionale. Miti e paradigmi storiografici ottocenteschi, Bulzoni 2006, pp 21-30.
    (7) C.MOZZARELLI, Identità religiosa e identità nazionale, in IDEM, Tra terra e cielo. Studi sulla religione, identità e società moderna, Bulzoni 2008, pp. 83-92.
    (8) Il legame strettissimo tra Risorgimento e Protestantesimo è materia ben conosciuta. Cfr. G.SPINI, Risorgimento e protestanti, Claudiana 2008.
    (9) Signorotto intravede questa manifestazione d’insoddisfazione economica persino nei Promessi Sposi: Renzo, trasferitosi a Venezia (il contraltare positivo dello spagnolesco Ducato di Milano) diventa un piccolo imprenditore cfr. G.SIGNOROTTO, Aperture e pregiudizi nella storiografia italiana del XIX secolo, in «Archivio storico italiano», CXXVI, 2000, p. 526-29.
    (10) Riguardo alla sostanziale identità della cultura liberale, fascista e antifascista italiana alla luce dell’identica interpretazione che danno del hegel-marxismo cfr. A.DEL NOCE, Il suicidio della rivoluzione, Aragno 2004.
    (11) Per una visione completa del pensiero gentiliano e del suo rapporto col risorgimento e col fascismo cfr. A.DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino 1990.
    (12) Così P.MARIANI, L’accademia e la loggia. Rivoluzione e massoneria alle origini dell’Italia moderna: i “casi letterari”, Il Cerchio 2007, p.7. Allo stesso modo il più volte citato Cesare Mozzarelli (1947-2004) e il gruppo di storici legato al benemerito ISIIN (Istituto di studio sulle insorgenze e l’identità nazionale).

    Fonte: Il Cinghiale Corazzato, foglio di informazione e cultura a cura della Comunità Antagonista Padana dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, numero 30-31 dicembre 2009

  9. #19
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Citazione Originariamente Scritto da Guelfo Nero Visualizza Messaggio
    IDENTITA’ ITALIANA E MODERNITA’ IDEOLOGICA

    La categoria di Risorgimento pertanto per Gentile non doveva annientare il cattolicesimo bensì immanentizzarlo all’interno del culto dello Stato, ma evidentemente questo processo non poteva che portare alla cattiva comprensione dello stesso cattolicesimo, ricondotto all’interno di una visione hegeliana antitetica alla philosophia perennis cattolica.
    Non è cosa convenevole lo schifare di accordarsi a simile oppenione.
    Ultima modifica di Nessuno; 15-05-10 alle 22:02

  10. #20
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Pallottole e polizze:
    la “battaglia di Calatafimi”

    La vulgata risorgimentale ama ricordarci come la prima vera battaglia dei Mille in Sicilia sia stata combattuta, in una disperata condizione d’inferiorità numerica e bellica, nel luogo detto “Pianto Romano” presso Calatafimi. Precedute dalla Mediterranean Fleet di sir Roger Mundy, le navi garibaldine il giorno 11 maggio 1860 avevano scelto come luogo di sbarco il porto di Marsala: approdo non casuale data la nutrita presenza e influenza inglese nella città, che dai tempi dell’occupazione napoleonica del Portogallo era stata scelta per la produzione di un surrogato del vino Porto, il Marsala. Pertanto i rappresentanti inglesi nella città siciliana avevano predisposto tutto per prestare ausilio all’arrivo di Garibaldi, a patto che i suoi militi non attentassero alle proprietà degli inglesi, ben segnalate da una visibile Union Jack sulla facciata (come il segno del sangue dell’agnello sulle porte ebree in Egitto per scongiurare l’arrivo dell’Angelo Sterminatore). Il giorno 12 il generale Garibaldi con la sua variopinta schiera si era recato a Salemi da dove il giorno 13 diresse alla popolazione il famoso Proclama, col quale assumeva l’incarico di dittatore dell’isola. Immediatamente ne aveva ricevuto l’omaggio vassallatico dei capicosca della mafia locale, come sembra chiaro dalla descrizione che Abba dà dei primi siciliani che avevano aderito alla chiamata alle armi di Garibaldi: “Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. E hanno bande che suonano d'un gusto! Ho veduto dei montanari armati fino ai denti, con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota”. Da qui Garibaldi decise di puntare con la truppa dei Mille, rafforzata da 500 inaffidabili membri della mafia locale, verso Palermo ma già il giorno 15 incontrò sul suo tragitto, a Calatafimi, un esercito borbonico di 2500 fanti e uno squadrone di cavalleria al comando del generale Landi. Nonostante l’impresa si prospettasse come folle il nizzardo decise, anche dopo il primo attacco dei cacciatori napoletani, di non retrocedere neanche di fronte alla possibilità di una facile e dignitosa ritirata consigliatagli dal Bixio, bensì rimase fermo nei suoi propositi, cosicché la retorica patriottarda avrebbe avuto agio nel stampargli sulle labbra il famoso: “Qui si fa l’Italia o si muore!”. Evidentemente Garibaldi era stato ben avvertito dai suoi confidenti della “condiscendenza” che avrebbe avuto il generale borbonico verso le sue truppe. Nonostante la resistenza dei garibaldini si fosse dimostrata tenace, le sorti della battaglia erano saldamente in mano ai napoletani quando, con una decisione tanto inaspettata da sorprendere lo stesso Garibaldi, Landi decise di far ritirare le sue truppe, nel malcontento generale. Sul campo rimanevano 32 morti tra le camicie rosse e 36 tra i napoletani: numeri che comunicano certamente uno scontro giocato al risparmio più che una battaglia epocale. Dubbi sulla condotta di Landi vennero avanzati sin da subito da un maggiore che aveva combattuto sul campo, lo Sforza, tanto che inchieste interne all’esercito portarono Francesco II a condannarlo all’esilio su Ischia per tradimento. Il caso di Landi non è da considerarsi unico in un esercito come quello borbonico, dove i generali di carriera, spesso vecchissimi come il Landi (che aveva iniziato nell’esercito napoletano del re Giuseppe Bonaparte), non avevano mai dovuto dimostrare la loro abilità sul campo né l’attaccamento al sovrano, considerando la carriera militare come mero segno di distinzione sociale. In mezzo a una tale genia di ufficiali, l’ammiraglio Persano non ebbe difficoltà ad adempiere il compito di cui Cavour l’aveva incaricato: corrompere gli ufficiali e gli ammiragli borbonici in cambio di soldi e reclutamento a pari grado nell’esercito sabaudo. Non è un caso pertanto che nel 1861 il Landi ottenne una pensione come generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo, nel quale vennero assunti anche i cinque figli, tutti ex-ufficiali borbonici. Nello stesso anno comunque un caso di cronaca interessò il Landi: recatosi al Banco di Napoli per riscuotere una polizza di 14.000 ducati, scoprì che in realtà questa ammontava a soli 14 ducati. In seguito a questo piccolo incidente il Landi fece scalpore sui giornali perché accusò Garibaldi della truffa che lo aveva visto come vittima, ma la vicenda si concluse di lì a poco con la morte per ictus del Landi.

    Davide Canavesi
    A cura della Comunità Antagonista Padana
    dell'Università Cattolica

 

 
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