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  1. #21
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    L'eroina fa male

    Per fare un pò di penitenza, ecco il testo completo de "La morte di Anita Garibaldi" (di Massimo Dursi), scevro da ogni retorica, fulgido esempio di patriottismo risorgimentale, sublime inno all'eroismo garibaldesco...

    Noi t'aspettiamo nell'alba fiorita
    camicia rossa, fiore di vita
    ...noi t'aspettiamo nell'alba fiorita
    camicia rossa, piena di vita.
    Per i tuoi figli sola a morire
    o sposo mio mi devi lasciare.
    Se gli occhi miei ti voglion mirare
    tu con un bacio li chiuderai.
    Sale la febbre nella laguna
    come l'allodola trema l'Anita.
    Tende allo sposo la mano sfinita,
    la guarda e prega con un sospir.
    «Per il tuo cuore questo sospiro
    per i miei figli questo sorriso...»
    Ma della morte sul tuo bel viso
    è già discesa l'ombra crudel.
    La barca nera sulla laguna
    porta l'Anita come una cuna.
    Canta nel cielo l'Ave Maria
    che l'accompagna nell'agonia.
    È morta Anita all'Ave Maria
    quando la rondine scende dal cielo.
    Il Generale la bacia e piange. Deve lasciarla.
    Deve salvarsi, [=deve scappare, come scappò a Mentana dopo aver blaterato 'o Roma o morte'..., NdR] per riportarci la libertà.
    E chi lo salva e dai Tedeschi,
    e tutta Italia la salverà,
    e chi lo salva e dai Tedeschi
    e tutta Italia la salverà.

    Fonte: centro studi giuseppe federici
    Ultima modifica di Guelfo Nero; 29-05-10 alle 18:30

  2. #22
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    palermo 1860: una conquista "All'italiana"

    Tra qualche giorno l’occasione della festività giacobina del 2 giugno riverserà sulla carta stampata e sugli schermi televisivi gli sproloqui patriottardi dei politici e in particolar modo di Napolitano il quale, sicuramente, non verrà meno nel segnalare il (fantasioso?) legame Risorgimento-Repubblica. Nel frattempo non ci resta che ricordare come negli ultimi giorni di maggio di centocinquanta anni fa (26-30 maggio 1860) uno dei fatti più importanti e paradigmatici dell’avanzata garibaldina a sud aveva luogo nella città di Palermo. Importante perché la presunta vittoria garibaldina a Palermo consegnò alle camicie rosse l’isola, paradigmatica perché alcuni fatti e dati inoppugnabili dipingono con esattezza le cause della facile penetrazione in Sicilia del generale Garibaldi. Innanzitutto è significativo segnalare la disparità delle forze in campo: il generale borbonico Lanza aveva nelle sue schiere 21.000 soldati, guidati da ottimi ufficiali come Beneventano dal Bosco e Von Mechel, mentre il nizzardo poteva contare su 900 dei suoi volontari e qualche migliaio di pavidi picciotti forniti dalla mafia. La disparità di numero e preparazione non giustificherebbe ad alcuna condizione normale la vittoria delle camicie rosse. Infatti tale vittoria sarebbe inspiegabile anche qualora si tenesse conto del successo di alcune manovre diversive di Garibaldi, capaci di depistare Beneventano dal Bosco e Von Mechel. Nemmeno ci si può basare sul coraggio garibaldino: non tutti i volontari erano come Bixio che continuò ad attaccare Porta Termini levandosi un proiettile conficcato nella spalla. Qualche ragione sarebbe da ricercare negli evidenti errori del generale Lanza che a una disamina dei fatti paiono in verità più che altro palesi misfatti. Il settantacinquenne generale non aveva sicuramente guadagnato i gradi sui campi di battaglia, dove le sue prestazioni erano state perlopiù disastrose, come nel 1849 a Palestrina sempre contro Garibaldi. Era d’altronde una condizione tipica dell’esercito borbonico quella della gerontocrazia ma Lanza aveva una carta in più da spendere: la sua affiliazione alla massoneria inglese. Le logge massoniche palermitane erano cresciute a dismisura negli ultimi anni schierandosi tutte dalla parte della Rivoluzione italiana e, come è noto, anche Garibaldi aveva collezionato affiliazioni sin dagli anni della sua residenza sudamericana. Una volta entrato a Palermo Garibaldi e avrebbe ottenuto una promozione dal 4°al 33° grado dal Grande Oriente e la nomina a Gran Maestro della loggia di rito scozzese. Se Lanza quindi preferiva l’obbedienza di loggia a quella al legittimo sovrano, Garibaldi poteva contare sul sostegno logistico inglese: mentre molte navi del generale Mundy transitavano per il porto di Palermo, un agente britannico con la tessera di corrispondente del Times, Ferdinand Eber, faceva la spola dalla città all’esercito garibaldino, fornendo al Garibaldi preziose informazioni belliche e gli ordini provenienti dal Mundy. La mattina del 26 maggio addirittura tre ufficiali del vascello Iroquois, che al termine dello scontro avrebbero rifornito le camicie rosse di polvere da sparo, andarono in visita presso l’accampamento di Garibaldi a Mislimeri. Quella notte stessa, sfruttando la sguarnita difesa di Porta Termini, Garibaldi portò l’attacco a Palermo, riuscendo il giorno successivo a guadagnare il centro della città e prendere tranquillamente dimora nel Palazzo Pretorio, senza che Lanza nei tre giorni successivi utilizzasse alcuna delle sue truppe per scacciare i rivoluzionari da Palermo, addirittura lasciando sulla nave i rinforzi provenienti da Napoli il 29 maggio e bloccando il tentativo di conquista della città da parte di Von Mechel e Del Bosco. Se aggiungiamo che, senza alcun palese motivo, Lanza ordinò di cannoneggiare i quartieri popolari facendo 600 morti tra i civili e nemmeno uno tra i garibaldini, possiamo tranquillamente affermare che l’agire del generale borbonico è il tipico comportamento, nemmeno troppo celato, del traditore. E che tradimento sia stato ce lo conferma il fatto che, senza aver più sparato un colpo di fucile dal 27 maggio, il 30 maggio chiedesse un armistizio a Garibaldi, con la “disinteressata” mediazione dell’ammiraglio Mundy, e decidesse il 6 giugno di capitolare definitivamente domandando il solo onore delle armi. Tra le condizioni di resa l’occupazione del palazzo del Banco delle Due Sicilie è sicuramente originale ma del tutto giustificata: Garibaldi fece prelevare da Crispi una cifra da 1.000.000 a 5.000.000 di scudi, perlopiù da depositi di privati cittadini, rilasciando addirittura un’ironica ricevuta con causale “spese di guerra”. Così nelle successive settimane le truppe napoletane furono costrette a lasciare l’isola con aperta diffidenza per l’operato del Lanza e anche un po’ di seccatura per la misera scena recitata di fronte alle scalcagnate truppe di occupazioni. A Lanza non vennero risparmiati sberleffi dalla truppa e, come vogliono alcune testimonianze, nel momento di partire un soldato del reggimento Calabria avrebbe esternato tutto il suo disappunto: “Eccellenza, vi quante simmo? E ce ne jammo accussì?”. L’epilogo della storia è l’ennesimo finale agrodolce che forse può lasciare un amaro sorriso sulle labbra ma anche una grande rabbia tra i pugni: qualche tempo più tardi, nell’ottobre del 1860, troviamo Lanza a Napoli con l’incarico di preparare i festeggiamenti per l’ingresso di Garibaldi in città. Considerando i magri risultati militari, speriamo che almeno nella veste di organizzatore di eventi il Lanza si sia guadagnato degnamente la pagnotta!

    Davide Canavesi
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  3. #23
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Gianfranco Fini: uno storico improvvisato alla corte dei poteri forti

    In occasione di un convegno dal titolo “Nazione e Stato. L’Italia di Ricasoli e di De Gasperi” anche il presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, ha deciso di unire la sua voce ai latrati filo-risorgimentali che ormai da qualche mese riempiono la penisola di una fastidiosa cagnara, cui ha dato il via Giorgio Napolitano. La defezione di molti “revisionisti”, sedotti dalle fusa governative se non attratti dal tintinnare dei soldi e dalla “serietà” dei convegni incravattati, ha tolto molte baionette all’assalto critico che il revisionismo avrebbe potuto fare con assoluta serietà e serenità. La mancanza di una presenza sostanziale di queste voci permette invece alle sirene filo risorgimentali di strillare in continuazione e, per giunta, di assumere atteggiamenti che se non si possono dire disonesti sono quanto meno diseducativi. Se infatti i discorsi filo-risorgimentali non volessero essere dei peana e delle autoincensazioni dovrebbero quanto meno attenersi a due norme di “buona educazione” storiografica: distinguere con chiarezza i fatti storici dall’interpretazione degli storici ed evitare di cercare di influenzare il giudizio storico col ricorso ai fatti del presente, spesso presentati in chiave sentimentaloide più che realistica. A queste norme non si è mai attenuto Napolitano nei numerosi discorsi sull’argomento e nemmeno Fini nell’occasione del suddetto convegno per la celebrazione del bicentenario dalla nascita di Bettino Ricasoli. La prolusione in questione, per quanto breve, mette in rilievo questioni di un certo interesse e perciò merita qualche menzione. Seppur nel contesto dell’ordinario insignificante vaniloquio d’occasione (“futuro di coesione, di libertà e di progresso”;”valori fondamentali […] di progresso economico e rigore morale, tra identità culturale e laicità dello Stato”; “combattere la disaffezione verso la politica […] colmare i ritardi nella modernizzazione del sistema-Paese”), Fini, o chi per lui ha scritto il discorso, ha lasciato trasparire la mens con cui interpreta il Risorgimento. Sembra nel complesso che Fini, forse in virtù del suo incarico istituzionale, sia dominato da un eclettismo di fondo dagli ampi contenuti culturali che riesce a fare stare insieme in un’unica visione Ricasoli, de Gasperi, Mazzini, Cattaneo e Volpe. Fini rivendica un ruolo liberatorio e palingenetico alla costituzione dell’Italia unita tanto da addivenire ad alcune affermazioni vacillanti se non addirittura ridicole. Dire che i valori del Risorgimento “sono i valori di una sovranità nazionale che persegue una via di affermazione non contro ma in armonia con la civiltà dell’Europa liberale”, di fatto significa rendersi colpevole di un’affermazione che o è del tutto evidente oppure è una chiara mistificazione. E’ infatti evidente che i nazionalismi siano stati lo strumento utilizzato dai liberalismi per imporsi ed è altrettanto evidente che la vittoria finale dei nazionalismi liberali europei coincida con la Prima Guerra Mondiale e la distruzione dell’Impero Austro-Ungarico. Ma un eloquio così entusiasta sembra nascondere che il progetto della civiltà liberale europea, ben lungi dall’essere stato conseguito pacificamente, sia stato realizzato attraverso rivoluzioni, guerre e sconvolgimenti che costarono la vita a milioni di persone: molto difficile pare pertanto parlare di “armonia”. D’altronde se consideriamo rettamente i nazionalismi europei (liberali o di altro colore ideologico poco cambia), tra i quali è sicuramente da annoverare il nazionalismo risorgimentale italiano, non possiamo non constatare come essi abbiano avuto una funzione destabilizzante e non armonizzante dell’ordine continentale così come esso era stato realizzato nel Congresso di Vienna, tanto che la storia dell’Ottocento è stata storia di rivoluzioni nazionalistiche e liberali, più che di guerre. A questi nazionalismi non si può peraltro non attribuire la responsabilità principale dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, alla quale è legata necessariamente anche la Seconda per il tramite dell’umiliazione della Germania voluta dal nazionalismo revanscista francese.
    La cosa realmente interessante del disegno che soprassiede all’intero discorso è che l’ex-post-fascista Gianfranco accetta in pieno l’interpretazione continuista di Risorgimento-Repubblica già proposta in più occasioni da Napolitano (“Momento cruciale nel processo di trasmissione dei valori del Risorgimento nell’odierna Italia democratica e repubblicana è certamente stata la fase dell’Assemblea Costituente e della ricostruzione economica e civile nel dopoguerra.”). Questa visione, del tutto ideologica e ridicola dal punto di vista storico, avrebbe dovuto essere completata con la terza R di mediazione tra le due, la Resistenza, di cui però Fini evita di parlare, anzi sembra addirittura voler avvalorarne una tesi contrapposta usando en passant il termine “guerra civile”. Pare così che la visione finiana proponga una sorta di pacificazione nazionale che elide totalmente il problema del fascismo, comunque considerato negativamente (si cita solo di passaggio il carattere di “dittatura”), e che ritrova nell’Italia repubblicana, considerata in tutte le tendenze politiche, l’avveramento delle promesse risorgimentali (“La classe dirigente della ricostruzione avverte comunque il bisogno di riannodare i fili con l’Italia del Risorgimento. Il richiamo alla stagione fondativa dello Stato unitario era avvertito, in vario modo, in tutte le culture politiche che concorsero alla scrittura della Carta costituzionale.), tesi che avvalora citando dalla sua parte anche De Gasperi, che si riteneva a sua volta continuatore dei cattolici liberali ottocenteschi (ne cita un discorso: “La libertà difesa dai cattolici […] ha integrato e sostanziato il pensiero della libertà politica che fu propria dei cattolici del 1848. E’ per questo che possiamo dire che questo secondo Risorgimento della patria si può riallacciare al Risorgimento nazionale”). La vera chiave della lettura del pensiero finiano sul Risorgimento potrebbe essere però il riferimento esplicito a Gioacchino Volpe (“uno storico che mi è caro”), grande storico del Novecento, il quale come è ben noto aderì al Partito Nazionale Fascista ma guadagnò, anche grazie alla protezione accordata ad alcuni intellettuali antifascisti, una patente di benevolenza anche in seguito alla caduta del regime. Volpe, molto vicino a Giovanni Gentile, nel 1927 scrisse un volume intitolato L’Italia in cammino nel quale dava la sua particolare interpretazione della funzione del fascismo nella storia italiana: questo doveva portare a compimento quella rivoluzione “liberale” che i liberali avevano abbandonato, votandosi a cause di partito o ad interessi personali. In seguito ai Patti Lateranensi le speranze di Volpe nel Regime fascista vennero calando, essendo la pacificazione con la Chiesa in totale contraddizione col fascismo risorgimentalista da lui auspicato. L’itinerario seguito da Volpe non fu raro nella cultura italiana dell’epoca: molti intellettuali legati al fascismo, tra cui anche molti discepoli di Gentile, si staccarono dal filosofo ministro dopo i Patti Lateranensi per passare poi, durante o dopo la guerra, all’antifascismo militante . L’itinerario seguito da questi, come ha ben documentato e giustificato filosoficamente Augusto del Noce, è tutt’altro che incoerente in quanto segue il filo del risorgi mentalismo liberale anticattolico, che invece Gentile aveva abbandonato in quanto dominato dall’idea della pacificazione del Risorgimento (fascista) con il cattolicesimo. In questa luce non può non apparire anche una certa somiglianza col cammino politico di Fini, riguardo al quale certamente va però tenuto in conto un opportunismo politico sicuramente superiore alla coerenza teoretica. Ad ogni modo Fini non si esime anche dallo strizzare l’occhio a Vittorio Messori, cattolico conservatore sicuramente ostile al Risorgimento, il cui “Grazie all’Italia” citato, va però letto in chiave totalmente avulsa da ogni simpatia per il processo rivoluzionario risorgimentale, esprimendo più che altro una visione di italianità più vicina anche a quella proposta dal compianto professore Cesare Mozzarelli.
    La mano tesa a tutti del presidente della Camera però si ritrae immediatamente stizzita di fronte a coloro che criticano il processo risorgimentale e la creazione del Regno d’Italia: nulla salus per i revisionisti! Fini infatti dichiara con una certa convinzione: “E’ bene però chiarire che la consapevolezza dei problemi storici del nostro Paese non deve in alcun modo fornire il pretesto per revisionismi antirisorgimentali fuorvianti e anacronistici”. Ovvero studiate quanto volete tanto la conclusione è già scritta e a nessuno è permesso di oltraggiarla! L’Ipse dixit finiano rincara inoltre la dose: non solo non è possibile criticare ma chiunque deve accettare l’assioma fondamentale del risorgimentalismo italiano. Questo assioma, del tutto indimostrato, viene enunciato nella seguente frase: “deve rimanere chiara l’idea che l’impresa compiuta dalla generazione dei Cavour, dei Ricasoli e di tutti coloro che realizzarono l’unità d’Italia fu un’impresa grandiosa nella storia italiana ed europea”. Che il risultato conseguito sia di grande portata (il che non vuol dire per forza di cose buono) è fuori discussione ma l’argomento postulatorio di Fini trascura del tutto i mezzi e le cause che portarono alla conquista sabauda della penisola, analizzando sbrigativamente solamente alcuni degli effetti. L’unificazione amministrativa, varata proprio sotto il governo di Ricasoli nel 1865, è una delle scelte del governo italiano meno comprensibili alla luce della storia precedente e più che una sana scelta, sembra un’indebita applicazione del sistema francese delle prefetture a un tessuto sociale e storico totalmente differente. La costruzione delle ferrovie, unico primato che l’indebitato Piemonte cavouriano poteva vantare rispetto agli altri stati italiani, fu una delle più lucrose risorse servite sul piatto d’argento dell’imprenditoria massonica “italiana” ed “europea” (tra coloro che ne ebbero l’appalto troviamo i nomi di Adami, Bastogi, Lemmi e Rotschild). Il sistema scolastico e universitario unitario fu costruito tramite l’estromissione e la soppressione delle congregazioni religiose che fino ad allora l’avevano esercitato, in primis la Compagnia di Gesù, e votato fin da subito all’ideologizzazione delle masse più che all’educazione (vedi ad esempio la Storia della letteratura italiana di De Sanctis o le Lezioni di Settembrini). Ancor più sprovveduta sembra l’affermazione che tutto questo sia stato fatto “confutando lo scetticismo di molti”; se tra questi molti intendiamo infatti anche gli insorgenti del sud, la frase assume addirittura un aspetto sinistro in relazione al fatto che è ben noto come lo “scetticismo” dei “briganti” sia stato “confutato” con fucilazioni in massa, deportazioni e condanne a morte decretate con sentenze lombrosiane. L’unico aspetto che può parere condivisibile è quello sulla rettitudine morale della Destra storica (trascurando evidentemente le implicazioni morali degli eccidi perpetrati al sud) che risplende però soprattutto in opposizione alla corruzione della Sinistra, addestrata da quel “Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamoci gli affari nostri” mirabilmente messo per iscritto dalla caustica penna di De Roberto.
    Più seria e attenta sembra invece la riflessione sulla realizzazione del modello centralista anziché quello autonomista e federalista. Fini evita di esprimere il giudizio personale sull’opzione centralista (“Non c’è dubbio che si tratti di una seria questione storica, che deve essere affrontata nella sede che le è propria, cioè quella della scienza storiografica. Spetta agli studiosi rispondere alla domanda del perché fu scelta una strada invece che un’altra”), la quale comunque gli pare giustificata da “minacce all’unità” e “condizioni sociali e politiche”. Quest’ultima espressione pare del tutto indeterminata: quali sono queste presunte condizioni? Parrebbe che anche in questo caso il riferimento sia alla guerra civile scoppiata al sud che fu evidentemente anche una minaccia all’unità. Ad ogni modo, pur ricordando come “una parte significativa della prima classe dirigente dell’Italia unita sarebbe stata favorevole all’autonomia e al decentramento”, il presidente della Camera evita di segnalare come la sconfitta delle tendenze federaliste, e in particolar modo del progetto redatto da Minghetti che avrebbe sancito un assetto federale in cinque macroregioni, fosse stata una delle cause di una profonda rottura all’interno della classe dirigente. Indubbia mi pare invece la pretesa finiana di riportare, contro ogni acritica fantasia leghista, Cattaneo al suo giusto milieu risorgimentale: il federalismo di Cattaneo non è assolutamente in antitesi con l’unificazione italiana ma rappresenta unicamente un modello di organizzazione territoriale all’interno di una cornice italiana. In definitiva anche il discorso di Fini ha un pregio evidente: il federalismo avrebbe potuto essere una proposta accettabile (non è comunque possibile valutare quanto migliori sarebbero stati gli effetti) ma è inutile fantasticare e sproloquiare su di esso come fa la Lega!

    Davide Canavesi
    a cura della Comunità Antagonista Padana
    dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
    Ultima modifica di Guelfo Nero; 11-06-10 alle 15:21

  4. #24
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Il vero volto del conte di cavour

    Fatta piazza pulita delle mistificazioni patriottarde e delle evidenti distorsioni delle vicende risorgimentali operate da chi voleva, e vuole tuttora con meschina caparbietà, proporci l’idea di un Risorgimento oleografico,molti dubbi insorgono comunque su alcune delle figure che continuano a popolare le pagine dei libri di storia e a riempire le bocche dei politicanti. Tra queste vi è sicuramente la figura del conte di Cavour, celebre ministro sabaudo, solitamente considerato il vero trionfatore del Risorgimento in virtù dell’imposizione della forma monarchica, sconfiggendo il repubblicanesimo mazziniano e blandendo le velleità garibaldine. Non v’è dubbio che Camillo Benso conte di Cavour sia stato il demiurgo del processo risorgimentale ma ciò non implica che effettivamente il suo progetto abbia trionfato in toto, anzi alcuni indizi potrebbero spingerci a pensare che egli si sia dovuto adeguare a certi compromessi che hanno quanto meno viziato il suo piano iniziale, cosa che lo stesso conte è stato comunque abile a mascherare. Peraltro la memoria storica del Cavour si perpetua illibata anche perché la sua prematura morte, il 6 giugno 1861 a soli 51 anni, gli permise di godere del periodo trionfante del Risorgimento e di non avere sulla coscienza invece le difficoltà dei primi decenni di Regno. Cerchiamo comunque di tracciare un quadro riassuntivo della figura del Cavour.
    E’ singolare notare come alla base dell’esperienza esistenziale e delle scelte politiche di Cavour vi sia, come per tanti altri personaggi del Risorgimento, l’influenza della cultura e del pensiero calvinista ginevrino. Dalla città svizzera proveniva infatti la madre del Cavour, Adele di Sellon, andata in sposa a Michele e, in seguito, convertitasi al cattolicesimo nella forma eterodossa del giansenismo. Non bisogna trascurare infatti l’influenza religiosa del calvinismo ginevrino nelle vicende risorgimentali, spesso tramite l’ “innocuo” medium della cultura, tanto che lo storico Giorgio Spini si è spinto a dire che “per la maggior parte degli spiriti magni del primo liberalismo italiano […] non sia neppure pensabile una biografia, ove si prescinda da influenze ginevrine”. Oltre al Cavour, bisognerebbe ricordare le biografie di Manzoni o Viesseux, o ancora con maggiore evidenza la circolazione e il successo che ebbe tra i futuri patrioti risorgimentali il famoso Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo di Sismonde de Sismondi, nel quale la storia degli stati italiani dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) era tracciata semplicisticamente come storia di una decadenza da cui si doveva risorgere in un processo unitario. Ad ogni modo il giovane Cavour, compiuta la sua istruzione nel Genio militare,preferì far precedere alla carriera politica un formativo grand tour alla rovescia: se nel XVII e XVIII secolo i nobiluomini inglesi scendevano attraverso la Francia per visitare i principali centri della penisola, Cavour, che mai si sarebbe spinto a sud di Firenze, preferì visitare Francia e Inghilterra per apprendere dal vivo le nuove teorie economiche, i nuovi sistemi di produzione e le tecnologie da importare nelle sue terre. In realtà le conoscenze acquisite nei paesi già toccati dalla rivoluzione industriale non risultarono nell’immediato particolarmente proficue per il giovane ambizioso piemontese. Nel 1837, quando ancora abitava a Parigi, il Cavour aveva incominciato a giocare in Borsa ricavandone anche discreti profitti sennonché due soli anni dopo un azzardato investimento speculativo, in una situazione di incertezza economica generata dalla crisi politica legata alla politica estera francese, azzerò l’intero profitto di tre anni d’investimento. Il conte aveva infatti creduto nella risolutezza del governo francese nel ricercare il conflitto, tentando così una speculazione al ribasso, ma pochi giorni dopo prevalse la linea pacifica suggerita dall’Inghilterra cosicché Cavour vide sparire la sua fortuna e si vide inoltre caricato di un debito di 45.000 franchi, che prontamente il padre si premurò di saldare in seguito alle disperate invocazioni epistolari del figlio. Negli stessi anni fu poco felice anche l’esordio del conte nell’imprenditoria, in particolare in quella ferroviaria e di navigazione fluviale. Si lasciò attrarre infatti dalla fortuna che stavano ottenendo in Savoia alcune società che già avevano sperimentato la navigazione sul Rodano e si accingevano a entusiasmanti progetti consistenti nello scavo di canali e di ferrovie sulla terraferma. Acquistò così 20 azioni della società Savoyarde diventando anche rappresentante degli azionisti piemontesi e milanesi. Purtroppo la società si dovette scontrare con problemi finanziari e tecnici enormi tanto da accontentarsi di utilizzare i binari con carrozze a trazione animale anziché locomotive e alla fine di abbandonare anche la navigazione fluviale, per la quale erano stati acquistati due battelli, a causa dell’abbassamento del livello delle acque. Non sazio della cocente sconfitta nel 1842 Cavour si aggiudicò i beni della disciolta società per fondarne un’altra al fine di costruire una ferrovia tra Chambery e il lago di Bourget. Per qualche tempo la ferrovia funzionò ma presto i costi di manutenzione si assestarono ad un livello molto superiore rispetto ai profitti, tanto da spingere il consiglio d’amministrazione a sciogliere la società, smantellare la ferrovia e vendere il materiale.
    L’attività che invece consentì a Cavour di imporsi alla pubblica attenzione e, in tal modo, di obnubilare i precedenti vergognosi insuccessi, fu invece la proficua amministrazione e la gestione della tenuta agricola di Leri nel Vercellese, insieme alla fondazione del periodico “Risorgimento” in compagnia di Cesare Balbo. Nel 1848 così Camillo Benso poté ottenere uno scranno parlamentare, acquisendo fin da subito un notevole prestigio tanto da essere nominato nel 1850 ministro dell’agricoltura, del commercio e della marina nel governo d’Azeglio, e l’anno successivo anche ministro delle finanze. Il vero capolavoro politico di Cavour, che l’accreditò come guida del Piemonte sabaudo per i successivi dieci anni, fu però la spregiudicata tessitura politica che portò al celebre connubio con Rattazzi, cioè un accordo tra la destra e la sinistra moderata al fine di escludere la rappresentanza clericale, accordo che Denis Mack Smith ha considerato l’archetipo del trasformismo che avrebbe insudiciato la vita parlamentare del Regno d’Italia. Naturalmente però la storiografia filo-risorgimentale ha sempre mostrato una certa ritrosia a giudicare le opere dello statista in maniera assolutamente spassionata: il fine guadagnato dall’azione politica cavouriana, cioè la conquista della penisola da parte della monarchia sabauda, è sufficiente a rendere intrinsecamente giusta ogni singola mossa dello statista. Pertanto davanti ad orecchie turate dalla cera del nazionalismo italiota sfrenato, o anche semplicemente dall’opposizione allo status quo ante (che aveva ancora in sé barlumi della società d’ancien régime e controriformistica), risulta persino inutile segnalare quanto l’operazione di Cavour che più servì a guadagnare la simpatia francese e inglese al progetto sabaudo, cioè la partecipazione alla Guerra di Crimea, sia in sé non troppo diversa dall’intervento italiano nella Seconda Guerra Mondiale fortemente voluto da Mussolini. In entrambi i casi si trattò della partecipazione ad uno scontro non tanto in relazione alle finalità dello scontro stesso, quanto per ottenere guadagni territoriali del tutto marginali rispetto alla guerra stessa. Anzi, per certi versi, mentre la Seconda Guerra Mondiale non poteva che coinvolgere, direttamente o indirettamente, tutti gli stati europei, la guerra di Crimea risultava uno scontro molto più limitato territorialmente che il piccolo Piemonte avrebbe potuto tranquillamente ignorare, anziché mandare un contingente di 15.000 uomini solo per sedersi al tavolo dei vincitori nella Conferenza di Parigi. La spregiudicatezza di Cavour non pare troppo differente da quella di Mussolini, diverso fu solo l’esito della partecipazione, che tanto spesso decide della sorte della memoria storica dei personaggi.
    Per una valutazione storica equilibrata ci si dovrebbe porre inoltre una domanda che è stata sempre elusa: tenuto per vero (e tale forse non lo è necessariamente) che a causa di un indirizzo generale della politica europea gli stati della penisola avrebbero dovuto andare incontro ad un processo di unificazione, per meglio resistere economicamente e militarmente, perché proprio il Regno di Sardegna avrebbe dovuto avere la funzione di guida e accentratore (o meglio quella di conquistatore)? Di solito si adducono motivazioni legate ad una supposta superiorità politico/economica rispetto agli altri stati italiani. Sono veritiere? In realtà la superiorità politica non è altro che la forma liberaleggiante e massonica assunta dal Regno Sabaudo nel decennio preunitario, e il conseguente rigurgito anticattolico che emerge dalla legislazione del periodo, atta ad accattivarsi la simpatie delle élites massoniche europee che in quel trono di tempo governavano in Inghilterra e Francia. Sulla superiorità economica invece ci sarebbe molto più di che discutere in quanto è vero che Cavour aveva impresso, in coerenza con gli esempi che aveva potuto osservare nei suoi viaggi giovanili, una decisa svolta modernizzatrice all’assetto economico del paese, sviluppando per esempio la più estesa e capillare rete ferroviaria della penisola, ma è anche vero che gli interventi in campo infrastrutturale ed economico avevano svuotato le casse sabaude tanto da fare del Regno di Sardegna lo stato col più alto debito pubblico della penisola (dal 1848 al 1860 ben 1.024.970.595 lire di debito). Cavour fu certo il personaggio che più di tutti ebbe il “merito” (o meglio la colpa) della formazione del Regno d’Italia ma credo si possa dire che, pur dovendogli riconoscere una capacità politica fuori dal comune, egli ebbe il coraggio di rischiare, a volte oltre il limite del buon senso proprio come nei suoi giovanili investimenti: la sua fu una scommessa in larga parte vinta, ma non si può evitare di valutare l’azzardo di tale scommessa. La metafora dell’investimento è comunque molto più icastica e questa visione coincide peraltro con quella espressa in quel periodo da un politico molto addentro nelle vicende politiche sabaude, Pier Carlo Boggio. Amico e sostenitore di Cavour, Boggio nell’aprile del 1859 nel pamphlet Fra un mese sostenne la necessità di entrare in guerra contro l’Austria a tutti i costi e il più presto possibile, alla luce di un ragionamento molto semplice: tutte le spese che erano state affrontate nel decennio precedente e che rischiavano di strangolare la monarchia erano giustificabili solo come investimento per un risultato di ampia portata,ossia la conquista di nuovi territori, che avrebbero inoltre permesso di ripianare queste spese. L’intero pamphlet si basa su un’affermazione di una semplicità e sincerità ammirevole: “La pace ora significherebbe per il Piemonte la reazione e la bancarotta” e continua “La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte – o improvvida, avventata e temeraria, secondo che ora avremo guerra o pace [...] Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico: il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo; il Piemonte spostò la propria azione dal suo centro primitivo; il Piemonte impresse a sé medesimo un impulso estraneo alla sua orbita naturale; il Piemonte arrischiò a più riprese le sue istituzioni; il Piemonte sacrificò le vite di numerosi suoi figli, sempre in vista della gloriosa meta che si è proposto: il Riscatto d’Italia”. Al di là dell’ultima parte, piuttosto ideologica e ipocrita, il resto illustra bene quale fosse stato l’azzardo di Cavour che sarebbe risultato poi, come a noi è ben noto, del tutto positivo.
    E’ bene porsi però un’ultima domanda: davvero il Risorgimento come si è realizzato corrisponde ai piani di Cavour? E’ difficile a dirsi e non è spesso semplice districarsi nelle parole di un politico abituato all’uso del doppio registro, privato delle lettere e pubblico dei discorsi, ma bisogna spendere alcune parole riguardo a questo argomento. Come è ben noto dopo l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), col quale la Francia di Napoleone III lasciava il conflitto senza adempiere completamente alle condizioni degli accordi di Plombières, Cavour si dimise in segno di protesta. Le dimissioni di Cavour non possono essere ridotte ad un semplice e astuto capriccio ma costituiscono bensì il segno di uno scacco che il conte riteneva potesse essere esiziale per l’adempimento del suo progetto. Siamo soliti infatti pensare che i Savoia avessero voluto fin da subito mettere le mani sull’intera penisola e che quindi le condizioni pattuite a Plombiéres, cioè la divisione del territorio italiano in tre parti e l’attribuzione ai Savoia solo della parte settentrionale, fossero in realtà un inganno ordito contro l’ingenuo Napoleone III. In realtà è molto probabile che le ambizioni e gli interessi di Cavour si limitassero solamente alla formazione di un Regno dell’Alta Italia, con la conquista del ricchissimo Lombardo-Veneto, le cui condizioni economiche e infrastrutturali erano omogenee a quelle avanzate del regno sabaudo con in più l’assenza del forte debito pubblico. Il Cavour infatti temeva che un regno unitario peninsulare avrebbe costituito un’entità del tutto ingovernabile, data l’incompatibilità dei popoli, delle loro condizioni e del loro sviluppo. Ciò è evidente nelle parole scritte all’ambasciatore sabaudo a Firenze, Villamarina: “La razza cis-appenninica e non ha nessuna analogia con la razza etrusca. Non si saprebbe come fonderle insieme. Ciò che darebbero i trattati in questo senso sarebbe presto distrutto dalla forza delle cose”. Cosa portò allora alla conquista della penisola? Il tradimento francese perpetrato dopo la battaglia di Solferino e il forte interessamento strategico e commerciale che l’Inghilterra aveva sulla penisola, convinsero Cavour nei mesi successivi ad ascoltare i richiami britannici e ad appoggiarsi all’unica potenza che avrebbe potuto offrire una soluzione all’impasse politico. Per questo lo statista sabaudo acconsentì a ritornare alla guida del governo e, appoggiandosi sulla Gran Bretagna, si convinse di dover seguire l’unica via possibile: la conquista dell’intera penisola, di cui forse il Cavour continuava a non essere particolarmente convinto ma che la Gran Bretagna caldeggiava per eliminare l’ultima potenza concorrente nel Mediterraneo, il Regno di Napoli. La prematura morte l’avrebbe poi tolto dall’imbarazzo di dover gestire quella situazione, tanto diversa dal progetto che aveva sostenuto.

    Davide Canavesi
    a cura della Comunità Antagonista Padana
    dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
    Ultima modifica di Guelfo Nero; 21-06-10 alle 19:44

  5. #25
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Centro studi Giuseppe Federici - Per una nuova insorgenza
    Comunicato n. 64/10 del 21 giugno 2010, San Luigi di Gonzaga

    Inni risorgimentali

    L’inno della repubblica italiana porta il nome di Goffredo Mameli, un mazziniano che ingrossò le file della (effimera) repubblica romana per combattere Pio IX. Come illustra l’articolo non è l’unica composizione musicale partorita dalla retorica risorgimentale e, forse, neppure la peggiore.

    Il Nabuco a Masnada, di Viviana Kasam

    Avete mai visto un direttore d’orchestra che, dopo aver fatto suonare il bis di una celebre aria, interrompe la rappresentazione, prende in mano il microfono, spiega al pubblico perché quella musica lo emoziona e significa tanto per lui, e poi invita i 6.500 spettatori ad ascoltarla per la terza volta, unendo le proprie voci a quelle del coro?
    E’ successo a Masada, durante la prima del Nabucco, diretto da un ispiratissimo Daniel Oren, presente il presidente Shimon Peres, una buona parte del governo e del corpo diplomatico internazionale.Meraviglioso lo spettacolo, costumi sontuosi, giochi di luce, effetti speciali, bravissimi i cantanti, dalla soprano greca Dmitra Theodossiou agli italiani Tiziana Carraro, Alberto Gazale, Nazzareno Antinori, nonostante l’handicap del palcoscenico all’aperto e di un vento che, se alleviava il caldo torrido della notte sul mar Morto, non favoriva certo l’acustica.Ma non è stata solo la sapiente regia di Joseph Rochlitz, la bravura della Israeli Opera di Tel Aviv, dei cantanti, del coro, a rendere il Nabucco a Masada un evento eccezionale.
    Il Nabucco, fin dalla sua nascita, è stata un’opera a forte valenza simbolica, tanto da diventare il vessillo del Risorgimento italiano. Abbiamo tutti imparato a scuola che il nome dell’allora giovane e non ancora celebre compositore (anzi, la sua opera precedente, “Un giorno di regno” era stata un fiasco clamoroso), serviva agli irredentisti come acronimo per acclamare Vittorio Emanuele Re D’Italia.
    E’ anche un’opera fortemente ebraica. Non tanto per l’ambientazione in tempi biblici e per la fantasiosa ricostruzione della caduta del primo Tempio per mano di Nabuccodonosor nel 587 a.e.v e la conseguente deportazione del popolo di Israele. E’ un’opera ebraica per il contenuto sociale e religioso, dalla difesa del credo monoteistico, al caparbio rifiuto dell’idolatria, all’amore per quel fazzoletto di terra nel deserto e per Gerusalemme dalle aure dolci. E Va’ pensiero potrebbe essere definito l’emblema della diaspora ebraica, e di tutte le diaspore, la sintesi, al massimo livello artistico ed emotivo, di duemila anni di nostalgia.
    Quale luogo migliore per rappresentarla di Masada, roccaforte della più strenua resistenza ebraica all’invasore straniero, 660 anni dopo la distruzione del Tempio per mano di Nabuccodonosor, e un anno dopo la seconda distruzione del Tempio, questa volta per mano romana? Masada, con i suoi mille combattenti, tra cui donne, anziani e bambini, che riuscirono a tener testa a 10 mila legionari romani per parecchi mesi, e che alla fine preferirono il suicidio collettivo alla resa, è diventata il simbolo dell’ebraismo combattente e arbitro del proprio destino, l’emblema dell’anti Shoah, lo spirito di Israele che rifiuta il vittimismo della diaspora e, se deve morire, sceglie di morire combattendo.(…). Una emozione a cui nessuno si è sottratto. Lunghi applausi, anche a scena aperta, commenti entusiastici e soprattutto l’impressione di aver assistito a un evento irrepetibile.
    Luigi Mattiolo, ambasciatore italiano in Israele, era presente con la moglie Stefania allo spettacolo.

    Che effetto le ha fatto il Nabucco, così simbolico per il nostro Risorgimento, ambientato a Masada?
    Proprio la sera precedente la Prima di Nabucco a Masada, nel rivolgere il mio saluto alle centinaia di ospiti affluiti in Residenza per celebrare la Festa nazionale italiana del 2 giugno, avevo ricordato quanto siano profondi e solidi i legami storici tra Risorgimento e Sionismo, i due movimenti fondanti dello Stato italiano e di quello di Israele, entrambi ispirati dal bisogno condiviso di vivere liberamente la propria storia e di affermare la propria identità.L’aver scelto Masada, luogo simbolo della resistenza del popolo ebraico, per rappresentare l’opera lirica che meglio esprime l’epopea degli ebrei liberati dall’esilio di Babilonia ha permesso di raggiungere il massimo livello di suggestione.

    Le é piaciuto lo spettacolo?
    Certamente. Lo scenario irripetibile del deserto alle pendici di Masada, la regia accorta e grandiosa, la valenza dei cantanti e del coro, il rigore interpretativo dell’orchestra e la straordinaria capacità del Maestro Daniel Oren, autentico catalizzatore di emozioni, hanno reso indimenticabile questa edizione del capolavoro verdiano.

    L’operazione artistica assume anche una valenza politica?
    Credo che - dopo la straordinaria tournée del Teatro alla Scala di Milano dello scorso anno - il Teatro dell’Opera di Tel Aviv abbia consacrato con il “Nabucco” a Masada la propria collocazione tra i maggiori teatri lirici del mondo per qualità e popolarità delle sue produzioni. Penso di poter ritenere che dal 2010 Masada puo’ essere annoverata tra i grandi appuntamenti lirici estivi, accanto ad esempio alle stagioni all’Arena di Verona ed alle Teme di Caracalla. La valenza politica é indiretta, ma non per questo meno significativa: Israele si conferma un Paese aperto e partecipe della cultura europea, un luogo di attrazioni e di emozioni.

    E l’anno prossimo, il festival di Masada che ha in cartellone l’Aida prodotta dall’Arena di Verona, consoliderà ancora di più il rapporto artistico tra Italia e Israele.

    (Fonte: Moked - il portale dell´ebraismo italiano » Blog Archive » Il Nabuco a Masada)

    _____________________________


    Il materiale da noi pubblicato è liberamente diffondibile, è gradita la citazione della fonte: Centro Studi Giuseppe Federici

    Archivio dei comunicati: Centro Studi Giuseppe Federici

  6. #26
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    All'isola di Ponza s'è fermata. La maschera e il volto di Carlo Pisacane

    La vera storia di Carlo Pisacane, che i libri di scuola non hanno mai voluto raccontare. Conosciamo tutti la storia di Carlo Pisacane, che, partito da Genova con 26 uomini, raggiunse prima la colonia penale di Ponza per imbarcare 323 galeotti e, quindi, proseguire per Sapri dove, scontratosi più volte con la popolazione, fallì nel suo intento di innescare la rivoluzione nel sud Italia.
    Altrettanto conosciamo la famosa “Spigolatrice di Sapri”, patetica poesia di Luigi Mercantini che, insieme alla storiografia ufficiale, contribuì ad infondere alla piratesca impresa un alone di misticismo teso a sfruttare, per fini risorgimentali liberal-monarchici, tra l’altro ben lontani dalle teorie politiche del Pisacane, il fallimento della spedizione. Al di là delle controversie ideologiche, che sono tuttora oggetto di accesi dibattiti, appare invece interessante soffermarsi su un aspetto trascurato ma sicuramente importante dell’intera impresa: lo sbarco a Ponza. Negli stessi versi del Mercantini troviamo che la nave a vapore “all’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco poi è ritornata”. Cosa esattamente accadde nell’Isola in quel “poco” né il poeta né la storiografia ufficiale lo dicono. Invece un’analisi dei fatti isolani risulta fondamentale per comprendere i veri motivi del fallimento politico e “militare” della “storica spedizione” e le reali cause della reazione violenta delle popolazioni meridionali contro chi andava “ . . . . a morir per la Patria bella”. Il 27 giugno del 1857 a Ponza vi era una gran calura, il mare era calmo e nel cielo splendeva un sole estivo senza precedenti. Alle ore 15 tutta l’isola era impegnata nella quotidiana siesta: i Ponzesi, i detenuti del bagno penale, i militari addetti alla loro sorveglianza, i relegati in semilibertà: tutti dormivano. Nella rada del porto, di fronte alla batteria “Lanternino”, apparve ed accostò lentamente una enorme e bella nave a vapore dal nome in oro : “Cagliari”. Non issava la bandiera tricolore, come dice il Mercantini, bensì la “bandiera rossa” di avaria alle macchine. Stancamente, dal porto mosse una lancia, che accostò all’inconsueta nave per parlamentare ed offrire assistenza secondo le regole marinare. Quella dell’avaria fu solo uno stratagemma per prendere degli ostaggi. E funzionò. Il Pisacane, accompagnato dai compagni armati di fucili e pistole, sbarcò con la stessa lancia aggredendo la guarnigione portuale ed intimando la resa, pena la morte degli ostaggi trattenuti sulla nave. Nonostante le minacce, alcuni militari del presidio reagirono prima di arrendersi, generando un vivace conflitto a fuoco, che causò morti e feriti. Gli echi dello scontro ruppero il silenzio pomeridiano e la gente, destata di soprassalto, raggiunse incuriosita le finestre, i balconi ed i tetti per osservare cosa stesse accadendo al porto. Il gran trambusto, gli spari, il fermento di uomini, divise e bandiere mai viste prima di allora fecero emergere nella mente dei Ponzesi un ricordo antico e tremendo: i pirati. Terrorizzati, cominciò un fuggi fuggi generale in un crescente panico, che, in breve, fece perdere la calma anche a chi non sapeva cosa stesse esattamente accadendo. Isolani, militari e relegati in regime di semilibertà scappavano per ogni dove a cercare un nascondiglio sicuro. Mentre il Pisacane raggiungeva il quartier generale presso la Torre di Ponza, ponendolo in assedio ed intimandone la resa, i suoi compagni, Giovanni Battista Falcone e Giovanni Nicotera, issarono una bandiera rossa nella piazza principale e quindi, a gran voce, cominciarono a dar spiegazioni di quanto stava accadendo. Ripresisi dallo spavento, si affacciarono timidamente dapprima i relegati in semilibertà e quindi i residenti che, comunque diffidenti, si mantennero a distanza di sicurezza. Ma quelle teorie politiche così lontane dalla realtà del popolo non attecchirono, anzi causarono sgomento e maggior timore. Addirittura reazione quando il Falcone, con dire sicuro e sprezzante, inveì contro la religione, il re e le terre demaniali. I Ponzesi solo sette giorni prima avevano celebrato solennemente il Santo Patrono Silverio e le parole dissacranti del Falcone non piacquero affatto. Inoltre a Ponza, così come in tutte le regioni del sud, i contadini coltivavano le terre demaniali, quali usi civici loro assegnati GRATUITAMENTE come beni provenienti dallo smantellamento graduale degli antichi feudi [ foedus = patto ]. Essi sfruttavano terreni dello stato in “enfiteusi perenne”, tuttavia senza divenirne mai veri proprietari. Una specie di “sistema comunista” [ di "metodo" ! ] ante litteram. Sconvolgere quel delicato equilibrio, che comunque ASSICURAVA la vita, la pace e la giustizia SOCIALE, spaventò i Ponzesi ancor più dei pirati, tanto che, alla chetichella, lasciarono il luogo della riunione per vedere il da farsi. [ il 'latifondo', mai esistito nel Regno delle Due Sicilie, fu poi creato dai masson-sabaudi invasori : la 'cartina_di_tornasole' è che, regnante S.M. Ferdinando IIº di Borbone, nessun DuoSiciliano { nessuno ! } fu mai spinto ad una forzosa, epocale e selvaggia EMIGRAZIONE da una sopravvenuta miseria, provocata dalla conquista masson-sabauda, Intanto i rivoluzionari, infervorati dai loro stessi discorsi, parlavano di repubblica e di fantomatiche rivolte a Napoli, Roma, Genova, Livorno e Reggio Calabria ed alcuni militi della “compagnia_di_disciplina”, relegati a Ponza, sembravano dar credito a quelle parole. Ma ciò non bastava a Pisacane : egli aveva bisogno di far scattare sul serio la scintilla della rivolta generale, non limitarsi a fare un comizio in quella semideserta ed ambigua piazza isolana. Avrebbe voluto cominciare proprio da Ponza la sua rivoluzione, coinvolgendo la popolazione di quella sperduta isola, estremo confine dello Stato Napoletano, per poi sbarcare lungo le coste e propagare i moti. Pisacane ben presto si rese conto però che, nonostante i suoi incitamenti, proprio la popolazione non c’era. Ignorando i veri motivi di quella defezione, pensò di riuscire a coinvolgere tutti con l’azione e l’esempio, innescando lui stesso la scintilla della rivolta. Per rendere la cosa più coinvolgente, la scintilla la fece partire proprio da dove si governava la popolazione : gli uffici del Comune. Qui Giovanni Nicotera, futuro Ministro dell’Interno dello Stato Unitario, dopo essersi impossessato della cassa del Comune, appiccò il fuoco agli archivi ed all’antica biblioteca dei monaci Cistercensi, quindi, guidato dai relegati in semilibertà, fece il resto assaltando il dazio ed il giudicato ( la pretura ). Ma, com’era prevedibile, fu peggio : i Ponzesi, presi da maggior sgomento, si rinchiusero a doppia mandata nelle case e nelle caverne poste sulla sommità del Monte Guardia. Il Pisacane, innervosito, deluso e disperato dall’atteggiamento di « quella strana popolazione, a cui non andava di rivoltarsi contro il tiranno », aprì i cancelli del bagno penale della 'Parata', che allora accoglieva circa 1800 delinquenti comuni. Una minacciosa torma di individui invase vicoli e strade come un torrente in piena. I loro zoccoli crepitavano sul lastricato ed il brusio iniziale diventò man mano un vociare sguaiato e terrificante. Anni di lavori forzati, rabbia repressa, mista ai più profondi e bestiali istinti, avevano trasformato quegli uomini in belve dai lineamenti vagamente umani. Il paese fu messo a ferro e a fuoco da quei forsennati : gli spari, le violenze, le urla, i lamenti echeggiarono per molte ore. Il fumo soffocante degli incendi, propagatisi fino ai vigneti ed agli uliveti delle colline, contribuì a rendere ancora più tremendamente infernale quella notte di anarchia. Il Pisacane, per inibire ogni reazione contro la sua operazione, si era preoccupato sin dallo sbarco di prendere in ostaggio il comandante della guarnigione Magg. Antonio Astorino ed i suoi ufficiali, ma non pensò al prete : Don Giuseppe Vitiello. Questi, di fattezze minute, ma di una furbizia ed un temperamento fuori da ogni immaginazione, comprese immediatamente la natura e gli intenti di quegli uomini. Già dallo sbarco, senza perdere tempo e, soprattutto, senza perdersi d’animo, si era dato da fare per creare una vera e propria linea difensiva a metà isola, raggruppando gendarmi e civili, impedendo così che il Pisacane ed i detenuti del bagno penale, ormai liberi, dilagassero su tutto il territorio isolano, causando ben maggiori danni. Grazie alla prontezza del parroco, figura emblematica e vero eroe ponzese dimenticato, parte della popolazione poté mettersi in salvo, raggiungendo anche a nuoto la zona nord dell’isola. Don Giuseppe, inoltre, ordinò un’incursione notturna per l’affondamento silenzioso delle imbarcazioni, risparmiate dai rivoltosi, ancora galleggianti ed all’ancora nel porto, per evitare fughe di massa ed, infine, organizzò un equipaggio che, con una lancia forte di 8 remi, comandata da Ignazio Vitiello, partì alla volta di Gaeta, per dare l’allarme e chiedere aiuto. Fallita la rivolta popolare, il Pisacane si preoccupò di reclutare tra i relegati stessi quanta più gente possibile per lo scopo primario della sua missione : lo sbarco a Sapri. Ma anche questa volta la sua delusione fu tanta. Oltre alla diserzione dei ponzesi, di quelle migliaia di detenuti solo pochi si fecero avanti e nei volti di quei pochi si leggeva l’unico e vero obiettivo : raggiungere il continente per darsela a gambe. La maggior parte dei forzati, che accettarono di seguire la spedizione, erano di Sapri e dintorni ; essi si erano macchiati di crimini e violenze di ogni genere e pertanto condannati ad espiare la loro pena ai lavori forzati nel bagno penale di Ponza. Gli altri preferirono restare ed accontentarsi di quella inaspettata ed insolita festa. Infatti, molti relegati, dopo aver abusato di vino, cibo, canti, balli e violenze, si disseminarono lungo spiagge, grotte e campi per abbandonarsi in un profondo sonno. Molti altri, alle prime luci dell’alba, rientrarono prudentemente nel bagno penale. Fatto giorno, lo spettacolo era raccapricciante, ma Don Giuseppe, come al solito, non si perse d’animo. Assicuratosi che il Pisacane fosse effettivamente ripartito, fece liberare il comandante della guarnigione, gli ufficiali, i graduati ed il resto della gendarmeria, che immediatamente si diede a riacciuffare qua e là i relegati ormai fiaccati dai bagordi notturni. Si spensero gli incendi, si recuperarono le masserizie e le suppellettili, si risistemò alla meglio la chiesa, si recuperarono gli animali, si ritirarono su le imbarcazioni, si aprì l’infermeria ai feriti, si ripulirono le strade e le piazze, fu issata la bandiera sulla Torre. Nel frattempo arrivò una nave da guerra, che sbarcò alcune centinaia di militari con il compito di completare la bonifica ed arrestare i più ostinati ancora barricati e nascosti nelle campagne e negli anfratti.
    Intanto il Pisacane ed i suoi trecento sbarcavano a Sapri, ma qui la popolazione non stava facendo la siesta come a Ponza, anzi fu molto arguta a riconoscere tra quegli “eroi” gli artefici di abominevoli delitti e non esitò ad imbracciare forconi e schioppi e, come il Mercantini recita : « eran trecento erano giovani e forti e sono morti ». Fu una vera e propria carneficina, il preludio dell’enorme tragedia, che dopo qualche anno investì il Meridione d’Italia, preda della sanguinosa e devastante conquista militare del Piemonte, che vide la disperata reazione armata dei contadini del Sud, che poi « scrittori salariati tentarono di infamare con nome di briganti » ( Gramsci ). (autore Alessandro Romano)



    Affisso il 16 luglio 2010 a cura della Comunità Antagonista Padana dell'Università cattolica del Sacro Cuore

  7. #27
    In memoriam F. Spadafora
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    Maledetti Savoia, Savoia benedetti - Lorenzo Del Boca,- Emanuele Filiberto di Savoia | Edizioni Piemme - € 18,50

    ma sarà davvero emanuele filiberto il coautore materialiter, oltre che formaliter, di questo libro?

  8. #28
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"

    A naso, tra una gara di ballo, un festival di Sanremo e uno show da presentare, il tempo per scrivere di storia deve essere piuttosto poco...

  9. #29
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    Predefinito Rif: La grande menzogna del "Risorgimento italiano"



    Affisso il 20 luglio 2010 a cura della Comunità Antagonista Padana dell'Università cattolica del Sacro Cuore


    "....deghe drento, Nino, che la ciapemo" così si rivolse l'ammiraglio Tegetthoff (nella foto L'ammiraglio Tegetthoff nella Battaglia navale di Lissa nel quadro di Anton Romako) a Vincenzo Vianello da Pellestrina, capo timoniere della nave "F. Max" e, all'annuncio della vittoria gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando "Viva San Marco!!"

    A Lissa il 20 luglio 1866 gli eredi della Serenissima (veneti, giuliani istriani e dalmati) ossatura della marina asburgica sconfissero clamorosamente la marina tricolore (che brillava per la rivalità tra le tre componenti, sarda, siciliana e napoletana) che tanto baldanzosamente aveva affrontato la battaglia, forte della propria superiorità numerica e bellica, e quel "navi di legno con equipaggi di ferro contro navi di ferro con equipaggi d legno" fotografa mirabilmente lo scontro navale.
    Le sconfitte di Lissa e di Custoza caratterizzarono la III guerra di indipendenza dell'Italia. E il Veneto fu prima passato dall'Austria alla Francia e da questa "girato" ai Savoja proprio per rendere palese il "prestigio" internazionale del regno tricolore in quegli anni.
    Per non parlare di quel plebiscito-truffa (21-22 ottobre 1866) attraverso il quale il Veneto venne annesso al Regno d'Italia che rimane negli annali della storia come una delle votazioni più truccate, e che si tenne, tra l'altro, due giorni dopo che il Veneto era già stato "passato" ai Savoia in una oscura stanza dell'Hotel Europa lungo il Canal Grande.

    Ettore Beggiato
    Unione Nordest



    "Navi di legno con equipaggi di ferro
    contro navi di ferro con equipaggi di legno"
    Lissa isola nel mare Adriatico è la più lontana dalla costa dalmata, conosciuta nell'antichità come Issa, più volte citata dai geografi greci. Fu base navale della Repubblica Veneta fino al 1797.
    Il "fatal 1866" iniziò politicamente a Berlino con la firma del patto d'Alleanza fra l'Italia e la Prussia l'otto di aprile.
    Il 16 giugno scoppiò la guerra fra Prussia e Austria e il 20 giugno con il proclama del re l'Italia dichiarò guerra all'Austria; la baldanza degli italiani fu però prontamente smorzata poche ore dopo (24 giugno) a Custoza ove l'esercito tricolore fu sconfitto dall'esercito asburgico (nel quale militavano i soldati veneti). Fra il 16 e il 28 giugno le armate prussiane invasero l'Hannover, la Sassonia e l'Assia ed il 3 luglio ci fu la vittoria dei prussiani a Sadowa. Due giorni dopo l'impero asburgico decise di cedere il Veneto alla Francia (con il tacito accordo che fosse poi dato ai Savoia) pur di concludere un armistizio. In Italia furono però contrari a tale proposta che umiliava le forze armate italiane e, viste le penose condizioni dell'esercito dopo la batosta di Custoza, puntarono sulla marina per riportare una vittoria sul nemico che consentisse loro di chiudere onorevolmente (una volta tanto) una guerra.
    Gli italiani non potevano certo pensare di trovare sul loro cammino i Veneti, ossatura della marina austriaca.
    La marina militare austriaca era praticamente nata nel 1797 e già il nome era estremamente significativo: "Oesterreich-Venezianische Marine". Equipaggi ed ufficiali provenivano praticamente tutti dall'area veneta dell'impero (veneti in senso stretto, giuliani, istriani e dalmati popoli fratelli dei quali non possiamo dimenticare l' attaccamento alla Serenissima) (1) e i pochi "foresti" ne avevano ben recepito le tradizioni nautiche, militari, culturali e storiche. La lingua corrente era il veneto, a tutti i livelli.
    Nel 1849 dopo la rivoluzione veneta capitanata da Daniele Manin c'era stata, è vero, una certa "austricizzazione" : nella denominazione ufficiale l'espressione "veneta" veniva tolta, c'era stato un notevole ricambio tra gli ufficiali, il tedesco era diventato lingua "primaria". Ma questo cambiamento non poteva essere assorbito nel giro di qualche mese; e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerava Lissa l'ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica. (2) (Ultima almeno per il momento aggiungo io: cosa sono 130 anni di presenza italiana in territorio veneto di fronte ai millenni della nostra storia, dell'autogoverno veneto?).
    I nuovi marinai infatti continuavano ad essere reclutati nell'area veneta dell'impero asburgico, non certo nelle regioni alpine, e il veneto continuava ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall'ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia e che era stato "costretto" a parlar veneto fin dall'inizio della sua carriera per farsi capire dai vari equipaggi. La lingua veneta contribuì certamente ad elevare la compattezza e l'omogeneità degli equipaggi; estremamente interessante quanto scrive l'ammiraglio Angelo Iachino (3) : " ... non vi fu mai alcun movimento di irredentismo tra gli equipaggi austriaci durante la guerra, nemmeno quando, nel luglio del 1866, si cominciò a parlare della cessione della Venezia all'Italia."
    Né in terra, né in mare i veneti erano così ansiosi di essere "liberati" dagli italiani come certa storiografia pretenderebbe di farci credere. Pensiamo che perfino Garibaldi "s'infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!"(4).
    La marina tricolore brillava solamente per la rivalità fra le tre componenti e cioè la marina siciliana ( o garibaldina), la napoletana e la sarda. Inoltre i comandanti delle tre squadre nelle quali l'armata era divisa, l'ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda ostilità.
    E la lettura del quotidiano francese "La Presse" è estremamente interessante:
    "Pare che all'amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc. Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro".(5)
    Si arrivò così alla mattina del 20 luglio.
    "La Marina italiana aveva, su quella Austriaca, una superiorità numerica di circa il 60 per cento negli equipaggi e di circa il 30 per cento negli ufficiali. Ma il nostro personale proveniva da marine diverse e risentiva del regionalismo ancora vivo nella nazione da poco unificata e in particolare del vecchio antagonismo fra Nord e Sud." (6)
    E così in circa un'ora l'abilità del Tegetthoff ed il valore degli equipaggi consentì alla marina austro-veneta (come la chiamano ancor oggi alcuni storici austriaci) di riportare una meritata vittoria. Le perdite furono complessivamente di 620 morti e 40 feriti, quelle austro-venete di 38 morti e 138 feriti (7).
    La corazzata "Re d'Italia", speronata dall'ammiraglia Ferdinand Max, affondò in pochi minuti con la tragica perdita di oltre 400 uomini, la corvetta corazzata Palestro colpita da un proiettile incendiario esplose trascinando con se oltre 200 vittime.
    E quando von Tegetthoff annunciò la vittoria, gli equipaggi veneti risposero lanciando i berretti in aria e gridando: "Viva San Marco" (8).
    Degno di menzione è anche il capo timoniere della nave ammiraglia "Ferdinand Max", Vincenzo Vianello di Pellestrina, detto "Gratton", il quale agli ordini di Tegetthoff manovrò abilmente la nave per speronare ed affondare l'ammiraglia "Re d'Italia", guadagnandosi la medaglia d'oro imperiale assieme a Tomaso Penso di Chioggia.
    Famoso è nella tradizione il comando che Tegetthoff diede a Vianello:
    " ...... daghe dosso, Nino, che la ciapemo". (9)
    Alla fine, nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all'Italia.
    E a Napoleone III, imperatore dei francesi, non resterà che dire riferendosi agli italiani:
    "Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi". (10)
    E Giuseppe Mazzini su "Il dovere" del 24 Agosto 1866:
    "E' possibile che l'Italia accetti di essere additata in Europa come la sola nazione che non sappia combattere, la sola che non possa ricevere il suo se non per beneficio d'armi straniere e concessioni umilianti dell'usurpatore nemico?"

    Ettore Beggiato

    Note :
    1) A. Zorzi - La Repubblica del Leone - RUSCONI (pag. 550)
    2) S. Meccoli - Viva Venezia - LONGANESI (pag. 122)
    3) A. Iachino - La campagna navale di Lissa 1866 - IL SAGGIATORE (pag. 133)
    4) D. Mack Smith - Storia d'Italia - LATERZA
    5) Mario Costa Cardol - Và pensiero ....su Roma assopita - MURSIA (pag. 5)
    6 e 7) A. Iachino - Storia Illustrata 06/1966 (pagg. 113-119)
    8) Vedi anche A. Zorzi - Venezia austriaca - LATERZA (pag. 138)
    9) Alberto Vedovato - Il Leone di Lissa cosa è legittimo fare - Quaderni del Lombardo-Veneto n. 48, Aprile 1999.
    10) Mario Costa Cardol - Ingovernabili da Torino - MURSIA (pag. 349)
    Ultima modifica di Guelfo Nero; 12-02-14 alle 13:58

  10. #30
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