Indonesia - 25.9.2007 Tutto un altro climaLa ricetta indonesiana contro le vacue promesse del Protocollo di Kyoto

Dopo Stati Uniti e Cina, il terzo Paese responsabile per il riscaldamento globale è l'Indonesia. Una sorpresa alla quale se ne accompagna un'altra: l'Indonesia è anche il secondo esportatore mondiale di olio di palma, ovvero il più redditizio combustibile di origine biologica. Per chi è poco esperto di questioni ecologiche, il terzo motivo di stupore potrebbe essere costituito dal fatto che il Paese asiatico è al primo posto al mondo per il tasso di deforestazione. Presi isolatamente, questi tre dati significherebbero ben poco. Ma dalla loro connessione discende un fatto che può a buon diritto definirsi paradigmatico della complessità, del paradosso e dell'inutilità degli accordi internazionali adottati per ridurre le emissioni di gas serra e contrastare il riscaldamento globale.

Il mercato delle quote. Uno di questi accordi è notoriamente il Protocollo di Kyoto, sottoscritto da 160 Paesi e concepito per ridurre le emissioni nocive (registrate nel 1990) del 5,2 percento, nel periodo 2008-2012. Altrettanto notoriamente, il Protocollo si è rivelato un mezzo fallimento. Sia perché tra i Paesi non aderenti ci sono gli Stati Uniti, responsabili del 36 percento delle emissioni di gas serra. Poi, perchè strumenti cosiddetti 'flessibili', come le quote-emissione (se io inquino meno, vendo a te, che produci più emissioni, le mie quote di 'aria pulita'), sono diventati oggetto di scambio e speculazioni che non hanno fatto altro che arricchire gli organismi preposti alla loro gestione. Inoltre, i progetti cosiddetti di 'beneficio ambientale' che i Paesi più inquinanti hanno realizzato o dovrebbero realizzare tra loro o nei Paesi in via di sviluppo, oltre ad essere la classica goccia nell'Oceano, hanno evidenziato episodi di corruzione, scarsa trasparenza negli appalti e debolezza degli organismi governativi, soprattutto per quanto concerne la gestione di un processo ormai diventato 'globale'. E come tale, impietosamente assoggettato alle stesse regole del libero mercato.

Foresta pluviale. Ma torniamo al paradosso indonesiano. L'Indonesia, con le foreste di Papua Nuova Guinea, Borneo e Sumatra, è il secondo polmone verde dopo l'Amazzonia. L'estensione di tale manto tropicale è di 120 milioni di ettari. Incendi e deforestazione illegale stanno trasformando questo patrimonio in un'arma a doppio taglio. I roghi che si sono verificati alla fine degli anni '90 hanno distrutto il 30 percento della foresta del Borneo. La maggior parte di materiale vegetale andato in fiamme era costituita da torba, la principale riserva superficiale di carbonio organico terrestre. Secondo gli studiosi della University of Leicester, nel 1997, nell'atmosfera vennero rilasciati oltre due miliardi di tonnellate di CO2 (biossido di carbonio), pari al 30 percento dell'inquinamento prodotto in quell'anno dai combustibili fossili. Ma gli incendi non sono la sola minaccia alla sopravvivenza della foresta pluviale indonesiana.

Il bio-verde. Il taglio illegale di legname produce un duplice effetto: profitto immediato (ingenti le esportazioni clandestine verso Cina e Malesia, per un volume di affari di 4 miliardi di dollari) e possibilità di piantare nuove coltivazioni nelle aree deforestate. Uno dei cavalli di battaglia di molte organizzazioni ecologiste (oltre che di una schiera di Paesi occidentali poco versati a politiche ambientali responsabili) per contrastare l'uso di combustibili fossili è il biocarburante a base di soja, mais, etanolo, colza o olio di palma. Quest'ultimo è diventato la coltura più redditizia in Indonesia, estesa su superfici di milioni di ettari un tempo ricoperte di foresta pluviale. Una grande impresa indonesiana, la Sinar Mas Group, sta pianificando per il 2008 la costruzione a Sumatra di due impianti per la produzione di biodiesel dall'olio di palma. Produrranno mezzo milione di tonnellate di biocarburante all'anno, che verrà destinato prevalentemente ai mercati europei e statunitensi. Con danni colossali per la foresta vergine.
Yusuf Irwandi. Così, mentre 150 nazioni partecipano (nella giornata di ieri) alla più grande conferenza sul clima organizzata dal Segretario dell'Onu, Ban Ki-Moon, c'è chi, alle vacue promesse, alle sterili esortazioni e agli estenuanti negoziati ambientali, risponde con i fatti. E' il governatore della provincia di Aceh, Yusuf Irwandi, che a marzo ha dichiarato una moratoria sul taglio illegale delle foreste di Sumatra, proponendo un ambizioso, ma concreto, programma di riforestazione e di ripristino del manto di torba del polmone verde acehnese. "Entro sei anni avremo avviato il più grande programma di ripristino ambientale del mondo", ha annunciato la settimana scorsa. Il programma - secondo Irwandi - si inserirà con successo nel piano per la lotta contro il saccheggio della foresta indonesiana, che Giakarta sta preparando in vista della prossima riunione mondiale sul clima, in programma a Bali nel dicembre prossimo. Un programma che consentirà a una provincia ancora in ginocchio per lo tsunami del dicembre 2004 di disporre di un patrimonio di 'quote-emissione' tale da poter rimpinguare adeguatamente le proprie casse. E di costituire un esempio per tutto il mondo.