Fonte:http://www.gregpalast.com Data: 10.12.2006



Titolo: Campanellino, Pinochet e la favola del Miracolo CilenoAutore: Greg Palast

Traduzione: Bernardino Tolomei


La Fata Madrina di Cenerentola, Campanellino e il generale Pinochet avevano molto in comune. Tutti e tre compivano buone azioni magiche. Nel caso di Pinochet gli era universalmente riconosciuto il Miracolo Cileno, l’esperimento di libero mercato, privatizzazioni, de-regulation ed espansione economica svincolata dai sindacati, i cui germi ultra-permissivi si diffusero con enorme successo da Valparaiso alla Virginia. In realtà la zucca di Cenerentola non si è mai trasformata in una carrozza. Anche il Miracolo Cileno non è stato che una favola. La pretesa che il generale Pinochet abbia dato il via ad un boom economico è stata una di quelle affermazioni la cui verità risiede solo nella sua ripetizione. Il Cile ha potuto vantare qualche successo economico, ma questo è dovuto all’opera di Salvador Allende, che salvò il suo paese, miracolosamente, un decennio dopo la sua morte.

Nel 1973, l’anno in cui il generale Pinochet prese brutalmente il potere, il tasso di disoccupazione in Cile era del 4,3%. Nel 1983, dopo dieci anni di modernizzazione liberista, la disoccupazione aveva raggiunto il 22%. Sotto il governo militare i salari reali erano scesi del 40%.

Nel 1970 il 20% della popolazione cilena viveva in stato di povertà. Nel 1990, l’anno in cui il “Presidente” Pinochet lasciò l’incarico, il numero degli indigenti era raddoppiato al 40%. Proprio un miracolo.

Ma Pinochet non ha distrutto l’economia cilena tutto da solo. Ci sono voluti nove anni di duro lavoro delle menti più brillanti del mondo accademico, un manipolo di seguaci di Milton Friedman, i Chicago Boys. Sotto l’incantesimo delle loro teorie, il generale abolì il salario minimo, mise fuori legge il diritto alla trattativa sindacale, privatizzò il sistema pensionistico, abolì ogni tassa sui patrimoni e sui profitti d’impresa, tagliò l’impiego pubblico, privatizzò 212 industrie statali e 66 banche, e creò un surplus fiscale.

Liberato dalla morsa della burocrazia, delle tasse e del controllo sindacale, il paese fece un enorme balzo in avanti… verso la bancarotta e la depressione. Dopo nove anni di “Chicago style” economico l’industria cilena andò a fondo definitivamente. Nel 1982 e 1983 il PIL diminuì del 19%. L’esperimento liberista era kaput, le provette erano andate in pezzi. Sangue e vetri coprivano il pavimento del laboratorio. Eppure, con notevole faccia tosta, gli scienziati pazzi di Chicago festeggiarono il successo. Negli USA, il Dipartimento di Stato del presidente Reagan pubblicò un rapporto che concludeva: “Il Cile è un manuale di sano management economico”. Lo stesso Milton Friedman coniò la frase “Miracolo Cileno”. Il braccio destro di Friedman, l’economista Art Laffer, si pavoneggiò per il fatto che il Cile di Pinochet era “una vetrina di quello che l’economia ’supply-side’ (1) può fare”.

Certamente lo era; più esattamente il Cile era la vetrina di una de-regulation scatenata.

I Chicago Boys persuasero la giunta che rimuovere le restrizioni sulle banche del paese avrebbe permesso di attrarre capitali stranieri per finanziare l’espansione industriale.

Pinochet svendette le banche pubbliche – con uno sconto del 40% sul valore reale – che caddero subito nelle mani di due imperi finanziari controllati dagli speculatori Javier Vial e Manuel Cruzat. Dalle banche da loro controllate, Vial e Cruzat prima spremettero tutto il liquido per acquistare delle imprese, poi le caricarono di prestiti di investitori stranieri, che sgomitavano per prendersi la loro parte di regali dello stato.

Le riserve delle banche si riempirono di inutili garanzie delle imprese a loro collegate(ci ricorda qualcosa….ndr) . Pinochet lasciò che gli speculatori se la spassassero. Era convinto che i governi non devono intralciare la logica del mercato.

Nel 1982 il gioco della piramide finanziaria era finito. I “grupos” di Vial e Cruzat erano insolventi. Le industrie chiusero, le pensioni private persero valore, la valuta crollò. Scioperi e sommosse da parte di una popolazione troppo affamata per aver paura delle pallottole costrinsero Pinochet a invertire la rotta: licenziò i suoi amati sperimentatori di Chicago. Con riluttanza il generale ripristinò il salario minimo e il diritto alla trattativa sindacale. Pinochet, che prima aveva decimato i ranghi del pubblico impiego, autorizzò un piano per creare 500 mila nuovi posti di lavoro.
In altri termini, il Cile fu tirato fuori dalla depressione dai banali vecchi rimedi keynesiani, tutto Franklin Roosevelt, zero Reagan/Thatcher.
Le tattiche del New Deal salvarono il Cile dal panico del 1983, ma da allora la ripresa e la crescita a lungo termine del paese sono il risultato di – tappate le orecchie dei bambini – una buona dose di socialismo.

Per salvare il sistema pensionistico nazionale, Pinochet nazionalizzò banche ed imprese su una scala impensabile per il Comunista Allende. Il generale espropriò a volontà, offrendo poco o niente a compensazione. Mentre la maggior parte di queste risorse venivano alla fine ri-privatizzate, lo stato mantenne la proprietà di una industria: il rame.

Per quasi un secolo rame aveva significato Cile, e Cile aveva significato rame. L’esperta di metalli Janet Finn, dell’Università del Montana, nota: “E’ assurdo definire un paese come un miracolo della libera impresa quando il motore dell’economia rimane nelle mani del governo”.
Il rame ha fornito dal 30 al 70% degli utili dalle esportazioni del paese. Questa è la valuta pregiata che ha costruito il Cile di oggi, il ricavato dalle miniere sottratto nel 1973 ad Anaconda e Kennecott: il dono postumo di Allende al suo paese.

L’economia agricola è la seconda locomotiva della crescita cilena. Anche questa è un’eredità degli anni di Allende. Secondo il professor Arturo Vasquez della Georgetown University, Washington DC, la riforma agraria di Allende, lo smantellamento della proprietà feudale (che Pinochet non poté ripristinare del tutto), creò una nuova classe produttiva di coltivatori-proprietari, insieme a società e cooperative, che ora porta un flusso di utili dalle esportazioni tale da competere col rame. “Per avere un miracolo economico,” dice Vasquez, “forse prima ci vuole un governo socialista che realizzi una riforma agraria”.

Così eccovi serviti: Keynes e Marx, non Friedman, hanno salvato il Cile.

Ma il mito del Miracolo del libero mercato persiste, perché svolge una funzione quasi religiosa: nella mistica dei reaganauti e dei thatcheristi, il Cile offre il necessario mito originario, il simil-Eden da cui il dogma del laissez-faire sbocciò trionfante e splendente.

Nel 1998 la Banda dei Quattro della finanza internazionale, la Banca Mondiale, il Fondo Monetaro Internazionale, l’Inter-American Developement Bank e l’International Bank for Settlements, offrirono 41,5 miliardi di dollari di credito al Brasile. Ma prime di gettare il salvagente a quel paese che stava per affondare, chiesero che il Brasile si impegnasse ad inghiottire la stesse medicine economiche che avevano quasi ucciso il Cile. Conoscete l’elenco: privatizzazioni a prezzi stracciati, mercato del lavoro flessibile (cioè demolizione dei sindacati) e riduzione del deficit mediante tagli nei servizi pubblici e nella sicurezza sociale. (ci ricorda qualcosa…ndr)

A Sao Paulo il pubblico fu assicurato che queste misure severe alla fine avrebbero fatto bene al brasiliano medio. Quello che sembrava colonialismo finanziario fu venduto come la panacea testata con risultati miracolosi in Cile. Ma quel miracolo era in realtà una bufala, una frode, una fiaba nella quale alla fine non tutti vissero felici e contenti.



(1): Teoria economica secondo la quale la riduzione delle tasse incrementa i guadagni, i risparmi e gli investimenti, facendo così espandere l’attività economica e di conseguenza aumentare le entrate fiscali.



da democraziaelegalitá.it