Diritti ma severità
CARLO FEDERICO GROSSO
Cristoforo Piancone, componente della direzione strategica delle Brigate rosse, condannato all’ergastolo per concorso in sei omicidi e due tentati omicidi, imputato per la strage di Via Fani e l’omicidio di Aldo Moro, ammesso al regime di semilibertà per decisione dell’autorità giudiziaria, è stato arrestato ieri per tentata rapina.

Nel corso del suo arresto ha minacciato gli agenti puntando contro di loro una delle quattro pistole di cui era in possesso. Il ministro dell’Interno ha commentato duramente l’episodio, osservando che i magistrati, nell’applicare i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, devono essere «consapevoli di esercitare una responsabilità enorme». Una nota del ministero della giustizia ha precisato a sua volta che «si provvederà a verificare che la decisione di concedere la semilibertà all’ex brigatista sia stata assunta previa attenta e completa valutazione delle condizioni richieste». Durissimo, a sua volta, il commento del questore di Siena, dove è avvenuta la rapina: «Se fosse morto un poliziotto, avrei avuto qualche difficoltà a spiegare ai suoi familiari perché un ex brigatista fosse in regime di semilibertà. Siamo stati fortunati».

In astratto il provvedimento assunto a suo tempo dall’autorità giudiziaria nei confronti di Piancone rientra nei casi contemplati dalla legge. Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato di trascorrere parte del giorno fuori dal carcere per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al suo reinserimento sociale e può essere concesso, previa valutazione della sua personalità, dopo l’espiazione di una parte consistente della pena inflitta. Anche il condannato all’ergastolo, secondo la legge penitenziaria, può essere ammesso a tale beneficio quando ha espiato almeno venti anni di pena. Piancone, ergastolano, se aveva scontato venti anni di pena, e sembra che li avesse scontati essendo stato arrestato nel 1978 e sottoposto al regime di semilibertà nel 2004, aveva pertanto, teoricamente, titolo ad ottenere il provvedimento di favore. Il problema è valutare se erano, per altro verso, presenti i requisiti sostanziali che rendevano legittimo il provvedimento.

La semilibertà, come le altre misure alternative alla detenzione, risponde alla funzione rieducativa della pena prevista dall’art. 27 comma 3 della Costituzione. Si tratta di un principio irrinunciabile di civiltà giuridica. La pena deve essere seria e proporzionata alla gravità del reato, deve essere certa ed applicata inflessibilmente in tempi sufficientemente rapidi. Quando è possibile, cioè quando si intravedono possibilità di rieducazione del condannato e costui non appare socialmente pericoloso, occorre tuttavia scommettere sulla possibilità di rieducarlo e di reinserirlo emendato nella società. In questa prospettiva l’esecuzione penitenziaria in carcere deve essere organizzata in modo da favorire la rieducazione del condannato. Al fine di assicurare il suo reinserimento sociale può essere d’altronde talvolta opportuno sperimentare forme di esecuzione penale fuori dal carcere anticipate rispetto al fine pena.

Quando il condannato ammesso ad un regime di libertà anticipata o di semilibertà commette un reato, nasce quasi sempre lo scandalo e si manifestano le proteste. Può darsi che esse siano giustificate. Può darsi che il magistrato che ha concesso il beneficio abbia sbagliato nel valutare la personalità del beneficiato ed abbia assunto un provvedimento giudiziario che non doveva assumere. Può darsi che la nostra legislazione penitenziaria sia troppo permissiva ed occorra cambiarla. Quando si affronta il problema politico-criminale della riforma delle misure alternative al carcere occorre essere comunque cauti.

Io credo che, effettivamente, la nostra legislazione in tema di benefici penitenziari debba essere rimeditata riducendo i casi in cui essi possono essere concessi. Il clima politico è cambiato rispetto a quello che ha favorito, anni fa, la moltiplicazione degli istituti penitenziari di favore. Il tema della sicurezza dei cittadini è diventato, a torto o a ragione, uno dei motivi dominanti del dibattito politico in materia di giustizia penale. L’opinione pubblica preme. Su di un punto occorre essere tuttavia in ogni caso sufficientemente fermi: la democrazia, che il nostro Paese si è data nel 1948 approvando la Costituzione, non tollera strappi rispetto ad alcuni principi fondamentali di civiltà, fra i quali, appunto, la funzione rieducativa della pena.

Ed allora attenti. La sicurezza è esigenza primaria dei cittadini. Essa deve essere comunque conciliata con la salvaguardia di tutti i diritti costituzionali riconosciuti, compresi quelli riconosciuti ai condannati. È uno dei costi della democrazia. Si tratta, comunque, di individuare una linea accettabile di giusto equilibrio fra i due interessi contrapposti.

Tornando al caso di ieri, fa specie che un ex brigatista condannato all’ergastolo per una sequenza impressionante di omicidi e di fatti eversivi, irriducibile, non pentito, non dissociato, abbia potuto ottenere il beneficio della semilibertà. Valutino le autorità competenti se il provvedimento è stato assunto nel rispetto dei requisiti sostanziali oltre che di quelli formali che legittimano oggi la sua emanazione. Se ciò non è accaduto, si sanzionino eventualmente i responsabili.

Si colga, soprattutto, l’occasione per suggerire una revisione in senso restrittivo della legge Gozzini, sia pure nella cornice costituzionale indicata. Mantenendo fermo il concetto della rieducazione in carcere, ma circoscrivendo, nella prospettiva della difesa sociale, i casi di esecuzione penale fuori dal carcere alle situazioni in cui appaia ragionevolmente certo, sulla base della personalità del condannato, del tipo di reato per cui vi è stata condanna, di quant’altro possa essere utile, che la persona alla quale il beneficio viene concesso non commetterà trasgressioni.
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