Dollaro ed euro hanno poco da guadagnare dalla rivalutazione dello yuan
dal corrispondente Luca Vinciguerra
18 marzo 2010
SHANGHAI –
La rivalutazione dello yuan avrebbe effetti disastrosi sulle migliaia di aziende cinesi labour intensive che esportano i loro prodotti in giro per il mondo. È l'allarme lanciato dal China Council for the Promotion of International Trade. Dopo aver girato a lungo intorno al problema, Pechino va al nodo della questione e spiega perché si oppone tanto risolutamente allo sganciamento dello yuan dal dollaro.
Oggi come dieci anni fa, il punto di forza della Cina è sempre lo stesso: la capacità di un esercito sterminato di piccole aziende di produrre merci e di venderle sui mercati esteri con margini di profitto ridotti all'osso, contando su costi della manodopera bassissimi. "Se lo yuan dovesse apprezzarsi, queste imprese rischierebbero il fallimento poiché lavorano già con profitti molto compressi", avverte chiaramente la potente associazione imprenditoriale cinese.
Effetti pesanti anche da un ritocco modesto
Insomma, un ritocco verso l'alto della moneta cinese, anche di dimensioni modeste, oggi ridurrebbe drasticamente la competitività delle società cinesi ad alta intensità di lavoro ed elevata propensione all'export, tagliandole fuori dai mercati internazionali. A pagarne il prezzo non sarebbero solo le aziende che producono magliette, scarpe, mobili, piastrelle e gadget da detersivo. Ma anche i settori manifatturieri posizionati più in alto nella catena del valore, come per esempio la cantieristica navale.
Per la nomenklatura pechinese, che sta giusto tirando un sospiro di sollievo assistendo alla ripresa del made in China dopo un 2008 da dimenticare, sarebbe una sciagura. Ecco perché Pechino continua a respingere ostinatamente tutte le pressioni sul dossier yuan in arrivo dagli Stati Uniti. E il fatto che, negli ultimi giorni, anche l'Unione Europea e la Banca Mondiale si siano accodati a Washington reclamando una rivalutazione in tempi rapidi del renminbi non cambia i termini della questione. I destini economici, politici e sociali della Cina restano legati alla capacità di penetrazione delle sue esportazioni. Almeno per ora, quindi, il valore dello yuan non si tocca.
Costo del lavoro che cresce a vista d'occhio
È vero, il paradigma labour intensive sul quale la Cina ha costruito le proprie fortune sta cambiando. Per diverse ragioni. Perché il costo del lavoro in Cina sta lievitando a vista d'occhio, giacché le braccia a basso costo prestate generosamente per due decenni dalle campagne ai grandi bacini industriali iniziano a scarseggiare.
Perché la prima rivalutazione dello yuan dell'estate 2005 (da allora fino all'agosto 2008, quando Pechino ha de facto riagganciato la propria moneta al dollaro, la moneta cinese ha guadagnato il 18% sul biglietto verde)
ha già costretto molte imprese a cambiare pelle e a spostarsi su produzioni a più in alto valore aggiunto. E perché il Governo, volendo assolutamente spezzare la dipendenza del paese dalle esportazioni, ha fatto una chiara scelta politica in questa direzione.
Gli effetti controproducenti delle lezioni di libero mercato
Il processo è avviato. Ma servirà ancora tempo. E in questo quadro fragile e incerto, le pressioni e le lezioni di libero mercato impartite a getto continuo da Washington rischiano di avere solo effetti controproducenti.
Con ogni probabilità, se le esportazioni cinesi continueranno a tirare anche nei prossimi mesi, prima dell'estate Pechino sgancerà lo yuan dal 'peg', cioè l'aggancio al dollaro, e tornerà a farlo flottare dentro una banda di oscillazione, magari anche più ampia rispetto a quella vigente tra il 2005 e il 2008.
Rischio delusione
Ma niente di più. Chi si attende rivalutazioni consistenti della moneta cinese resterà deluso. E resterà ancor più deluso chi pensa che l'apprezzamento del renminbi sia destinato a cambiare i termini di scambio internazionali delle merci: se, come ammonisce Pechino, è vero che la rivalutazione dello yuan rischia di mettere fuori mercato migliaia di aziende cinesi, a beneficiarne non saranno certo le loro concorrenti americane, europee o giapponesi, ma quelle vietnamite, indonesiane e cambogiane.