Risultati da 1 a 3 di 3
  1. #1
    Anarcocapitalista
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    Li dove ho inalzato mura solide a difesa dell'agressore Socialista. Li dove la strada ha il mio nome. Li dove ho costruito una torre bene armata in difesa della Libertà. Li dove sono Sovrano e i messi dello Stato non sono i benvenuti.
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    Cool Liberali, e quindi Anarchici.

    Sarei grato a tutti i liberali che dovessero leggere questo importante articolo di Carlo Lottieri. E' illuminante.



    Liberali, e quindi anarchici
    In quest'epoca di crisi degli Stati, non sono soltanto l'unità italiana o quella britannica ad essere messe in discussione. In qualche circolo culturale, e soprattutto grazie ad alcuni intellettuali controcorrente, la stessa idea dello Stato comincia ad essere contestata. Sotto certi aspetti pare di tornare indietro di quasi un secolo. Allora il panorama intellettuale presentava le utopie anarchiche di un Francesco Saverio Merlino o di un Camillo Berneri, oltre alle agitazioni libertarie di quei sindacalisti rivoluzionari che Filippo Turati accusa appunto di essere più anarchici che socialisti. Negli stessi anni, soprattutto, fiorivano studi e ricerche fortemente influenzati dall'ultra-liberalismo del Giornale degli Economisti e di quegli studiosi (da Gustave de Molinari a Yves Guyot, da Vilfredo Pareto a Maffeo Pantaleoni) che Léon Walras definì efficacemente con l'espressione "anarchici della cattedra". Tanto liberali e tanto coerenti da immaginare, in qualche caso, una società interamente basata sulla proprietà privata e sul contratto. Se il vecchio anarchismo europeo di matrice socialista è oggi ormai in disarmo e ha perso ogni attrattiva, è soprattutto sul versante liberale che l'anti-statalismo sta prendendo piede, in particolare tra i giovani. Ma si tratta di un liberalismo del tutto estraneo ai complessi d'inferiorità da cui erano affetti i liberali post-crociani e i cultori italiani di Ralf Dahrendorf, gli economisti keynesiani e i politologi abituati a considerare la democrazia parlamentare un orizzonte insuperabile: tutti intellettuali in diverso modo attratti dall'azionismo, dal liberalsocialismo, da un gobettismo tanto ingenuo quanto maldigerito. Il liberalismo libertario non vuole avere nulla a che fare con la tradizione italiana e, più in generale, con il giacobinismo, il nazionalismo e il laicismo che hanno segnato la cultura politica dell'Europa continentale. Al punto che l'unico liberale del Novecento che sta veramente a cuore a questi estremisti del liberalismo è Bruno Leoni: un intellettuale sicuramente geniale e molto apprezzato negli Stati Uniti, che ha scritto in lingua inglese il proprio lavoro più importante (La libertà e la legge, del 1961) e ha dovuto attendere più di trent'anni prima di vedere quest'opera tradotta in italiano. Il merito di questa iniziativa è di un piccola casa editrice di Macerata, la Liberilibri, e del professor Raimondo Cubeddu, studioso della scuola austriaca ed anche autore di un Atlante del liberalismo (edito da Ideazione) che al libertarismo dedica molte e illuminanti pagine. A parte Leoni, però, sono ben pochi gli autori italiani in cui i libertari si riconoscono: lo stesso Luigi Einaudi, d'altra parte, appare troppo timido e moderato a questi innamorati della libertà individuale e della concorrenza di mercato. I pensatori di riferimento, allora, sono prevalentemente americani. E questo non è certo casuale, se si considera che soltanto negli Stati Uniti è veramente sopravvissuta quella tradizione giuridico-politica che ha origine in John Locke e che è basata sulla tesi che gli individui possiedono diritti naturali inviolabili. Per un americano, è normale pensare che le istituzioni politiche debbano servire unicamente alla tutela dei diritti della persona e, in particolare, alla salvaguardia della vita, dell'incolumità e della proprietà. Alle orecchie di un californiano o di un cittadino del Vermont non suona certo strana né estremistica quella frase del presidente Jefferson secondo cui il miglior governo è quello che governa meno, né quell'altra di Thoreau, che aggiunse che il governo ideale è dunque quello che non governa per nulla. Oltre Oceano queste idee hanno sempre avuto buona accoglienza e hanno sempre suscitato interesse. Perfino negli anni del dirigismo roosveltiano, così, i luoghi comuni dell'ugualitarismo di Stato sono stati messi a dura prova da un intellettuale coraggioso come Albert Jay Nock, mentre è proprio durante il dopoguerra welfarista che sono state poste le premesse per quella rivolta culturale libertaria che ha avuto in Murray N. Rothbard il suo protagonista più significativo. Ed è proprio nel nome di Rothbard che oggi, anche da noi, il liberalismo torna a scoprire quanto lo Stato sia illegittimo e quanto l'ordine che emerge spontaneamente in una società libera, priva di monopoli legali e di minoranze impadronitesi del potere, sia superiore ad ogni sistema pianificato. Per Rothbard, insomma, lo Stato è una semplice banda di ladri e di prepotenti che pretende di disporre della nostra vita e delle nostre risorse, impedendoci di costituire imprese e stipulare contratti. Grazie alle iniziative editoriali di Aldo Canovari, responsabile della Liberilibri, questa letteratura liberale comincia ad essere conosciuta. Oltre a Leoni e a Rothbard (L'etica della libertà, del 1982, e Per la nuova libertà, del 1973), Canovari ha pubblicato Nock (Il nostro nemico, lo Stato), Bastiat (Contro lo statalismo), David Friedman (L'ingranaggio della libertà), Block (Difendere l'indifendibile), Jouvenel (L'etica della redistribuzione), Trenchard e Gordon (Cato's Letters), Novak (Verso una teologia dell'impresa), ecc. E sono in cantiere testi di Ayn Rand, di Lysander Spooner e di altri autori fondamentali della tradizione libertaria. Questa esplosione di traduzioni è accompagnata dal lavoro di alcuni nostri studiosi, che stanno in vario modo divulgando e rielaborando le teorie del liberalismo classico e - in alcuni casi - dello stesso anarco-capitalismo rothbardiano. Oltre al già ricordato Cubeddu, vanno ricordati quegli studiosi della Luiss di Roma che (per merito, in particolare, di Dario Antiseri, di Lorenzo Infantino e dell'editore Rubbettino di Soveria Mannelli) stanno portando all'attenzione del mondo intellettuale nostrano le ragioni della prasseologia di Ludwig von Mises (maestro di Rothbard), del fallibilismo di Karl Popper e dell'individualismo metodologico di Raymond Boudon. Dopo decenni di calma piatta e, insomma, dopo il gran proliferare di una cultura variamente neo-marxista, strutturalista e progressista, la scena intellettuale comincia ad animarsi. Articoli e saggi di intonazione libertaria sono facilmente riconoscibili anche su alcune importanti riviste di cultura politica: da Biblioteca della Libertà (diretta da Angelo M. Petroni) a Federalismo & Società (diretta da Mauro Marabini), a Ideazione (diretta da Domenico Mennitti). Ed è su queste pagine che alcuni giovani ricercatori dichiaratamente avversi allo Stato moderno propongono critiche sempre più aperte nei riguardi della fiscalità (considerata una rapina bella e buona), della solidarietà pubblica (usata per legittimare lo strapotere dei politici e dei burocrati), della regolamentazione (giudicata un'aggressione alla libertà contrattuale), dell'ecologia di Stato (colpevole di ostacolare un'oculata gestione dei beni ambientali), ecc. Queste discussioni teoriche, certamente, conoscono pure qualche ricaduta politica, nel senso più ristretto del termine. Il cielo della teoria e il terreno della pratica militante, insomma, finiscono in più di un'occasione per venire a contatto. Una delle prime occasioni di dibattito tra anarchici "tradizionali" e anarco-liberali si ebbe quando su "A - rivista anarchica" apparve una lunga lettera di un giovane libertario bolognese, Guglielmo Piombini, che sul numero di maggio del 1995 argomentò a difesa del mercato e della proprietà privata, giudicati strumenti fondamentali per salvaguardare l'autonomia della società civile e porre solidi argini di fronte alla prepotenza degli apparati di Stato. Fece seguito una risposta di Pietro Adamo e, nei numeri successivi, il dibattito si ampliò, contribuendo a fare venire alla luce molte idee e tradizioni culturali che fino a quel momento non avevano avuto alcuna cittadinanza all'interno della nostra cultura.

    Carlo Lottieri



    http://www.liberidiscegliere.org/2.html

  2. #2
    Fiamma dell'Occidente
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    Citazione Originariamente Scritto da JohnPollock Visualizza Messaggio
    Sarei grato a tutti i liberali che dovessero leggere questo importante articolo di Carlo Lottieri. E' illuminante.



    Liberali, e quindi anarchici
    In quest'epoca di crisi degli Stati, non sono soltanto l'unità italiana o quella britannica ad essere messe in discussione. In qualche circolo culturale, e soprattutto grazie ad alcuni intellettuali controcorrente, la stessa idea dello Stato comincia ad essere contestata. Sotto certi aspetti pare di tornare indietro di quasi un secolo. Allora il panorama intellettuale presentava le utopie anarchiche di un Francesco Saverio Merlino o di un Camillo Berneri, oltre alle agitazioni libertarie di quei sindacalisti rivoluzionari che Filippo Turati accusa appunto di essere più anarchici che socialisti. Negli stessi anni, soprattutto, fiorivano studi e ricerche fortemente influenzati dall'ultra-liberalismo del Giornale degli Economisti e di quegli studiosi (da Gustave de Molinari a Yves Guyot, da Vilfredo Pareto a Maffeo Pantaleoni) che Léon Walras definì efficacemente con l'espressione "anarchici della cattedra". Tanto liberali e tanto coerenti da immaginare, in qualche caso, una società interamente basata sulla proprietà privata e sul contratto. Se il vecchio anarchismo europeo di matrice socialista è oggi ormai in disarmo e ha perso ogni attrattiva, è soprattutto sul versante liberale che l'anti-statalismo sta prendendo piede, in particolare tra i giovani. Ma si tratta di un liberalismo del tutto estraneo ai complessi d'inferiorità da cui erano affetti i liberali post-crociani e i cultori italiani di Ralf Dahrendorf, gli economisti keynesiani e i politologi abituati a considerare la democrazia parlamentare un orizzonte insuperabile: tutti intellettuali in diverso modo attratti dall'azionismo, dal liberalsocialismo, da un gobettismo tanto ingenuo quanto maldigerito. Il liberalismo libertario non vuole avere nulla a che fare con la tradizione italiana e, più in generale, con il giacobinismo, il nazionalismo e il laicismo che hanno segnato la cultura politica dell'Europa continentale. Al punto che l'unico liberale del Novecento che sta veramente a cuore a questi estremisti del liberalismo è Bruno Leoni: un intellettuale sicuramente geniale e molto apprezzato negli Stati Uniti, che ha scritto in lingua inglese il proprio lavoro più importante (La libertà e la legge, del 1961) e ha dovuto attendere più di trent'anni prima di vedere quest'opera tradotta in italiano. Il merito di questa iniziativa è di un piccola casa editrice di Macerata, la Liberilibri, e del professor Raimondo Cubeddu, studioso della scuola austriaca ed anche autore di un Atlante del liberalismo (edito da Ideazione) che al libertarismo dedica molte e illuminanti pagine. A parte Leoni, però, sono ben pochi gli autori italiani in cui i libertari si riconoscono: lo stesso Luigi Einaudi, d'altra parte, appare troppo timido e moderato a questi innamorati della libertà individuale e della concorrenza di mercato. I pensatori di riferimento, allora, sono prevalentemente americani. E questo non è certo casuale, se si considera che soltanto negli Stati Uniti è veramente sopravvissuta quella tradizione giuridico-politica che ha origine in John Locke e che è basata sulla tesi che gli individui possiedono diritti naturali inviolabili. Per un americano, è normale pensare che le istituzioni politiche debbano servire unicamente alla tutela dei diritti della persona e, in particolare, alla salvaguardia della vita, dell'incolumità e della proprietà. Alle orecchie di un californiano o di un cittadino del Vermont non suona certo strana né estremistica quella frase del presidente Jefferson secondo cui il miglior governo è quello che governa meno, né quell'altra di Thoreau, che aggiunse che il governo ideale è dunque quello che non governa per nulla. Oltre Oceano queste idee hanno sempre avuto buona accoglienza e hanno sempre suscitato interesse. Perfino negli anni del dirigismo roosveltiano, così, i luoghi comuni dell'ugualitarismo di Stato sono stati messi a dura prova da un intellettuale coraggioso come Albert Jay Nock, mentre è proprio durante il dopoguerra welfarista che sono state poste le premesse per quella rivolta culturale libertaria che ha avuto in Murray N. Rothbard il suo protagonista più significativo. Ed è proprio nel nome di Rothbard che oggi, anche da noi, il liberalismo torna a scoprire quanto lo Stato sia illegittimo e quanto l'ordine che emerge spontaneamente in una società libera, priva di monopoli legali e di minoranze impadronitesi del potere, sia superiore ad ogni sistema pianificato. Per Rothbard, insomma, lo Stato è una semplice banda di ladri e di prepotenti che pretende di disporre della nostra vita e delle nostre risorse, impedendoci di costituire imprese e stipulare contratti. Grazie alle iniziative editoriali di Aldo Canovari, responsabile della Liberilibri, questa letteratura liberale comincia ad essere conosciuta. Oltre a Leoni e a Rothbard (L'etica della libertà, del 1982, e Per la nuova libertà, del 1973), Canovari ha pubblicato Nock (Il nostro nemico, lo Stato), Bastiat (Contro lo statalismo), David Friedman (L'ingranaggio della libertà), Block (Difendere l'indifendibile), Jouvenel (L'etica della redistribuzione), Trenchard e Gordon (Cato's Letters), Novak (Verso una teologia dell'impresa), ecc. E sono in cantiere testi di Ayn Rand, di Lysander Spooner e di altri autori fondamentali della tradizione libertaria. Questa esplosione di traduzioni è accompagnata dal lavoro di alcuni nostri studiosi, che stanno in vario modo divulgando e rielaborando le teorie del liberalismo classico e - in alcuni casi - dello stesso anarco-capitalismo rothbardiano. Oltre al già ricordato Cubeddu, vanno ricordati quegli studiosi della Luiss di Roma che (per merito, in particolare, di Dario Antiseri, di Lorenzo Infantino e dell'editore Rubbettino di Soveria Mannelli) stanno portando all'attenzione del mondo intellettuale nostrano le ragioni della prasseologia di Ludwig von Mises (maestro di Rothbard), del fallibilismo di Karl Popper e dell'individualismo metodologico di Raymond Boudon. Dopo decenni di calma piatta e, insomma, dopo il gran proliferare di una cultura variamente neo-marxista, strutturalista e progressista, la scena intellettuale comincia ad animarsi. Articoli e saggi di intonazione libertaria sono facilmente riconoscibili anche su alcune importanti riviste di cultura politica: da Biblioteca della Libertà (diretta da Angelo M. Petroni) a Federalismo & Società (diretta da Mauro Marabini), a Ideazione (diretta da Domenico Mennitti). Ed è su queste pagine che alcuni giovani ricercatori dichiaratamente avversi allo Stato moderno propongono critiche sempre più aperte nei riguardi della fiscalità (considerata una rapina bella e buona), della solidarietà pubblica (usata per legittimare lo strapotere dei politici e dei burocrati), della regolamentazione (giudicata un'aggressione alla libertà contrattuale), dell'ecologia di Stato (colpevole di ostacolare un'oculata gestione dei beni ambientali), ecc. Queste discussioni teoriche, certamente, conoscono pure qualche ricaduta politica, nel senso più ristretto del termine. Il cielo della teoria e il terreno della pratica militante, insomma, finiscono in più di un'occasione per venire a contatto. Una delle prime occasioni di dibattito tra anarchici "tradizionali" e anarco-liberali si ebbe quando su "A - rivista anarchica" apparve una lunga lettera di un giovane libertario bolognese, Guglielmo Piombini, che sul numero di maggio del 1995 argomentò a difesa del mercato e della proprietà privata, giudicati strumenti fondamentali per salvaguardare l'autonomia della società civile e porre solidi argini di fronte alla prepotenza degli apparati di Stato. Fece seguito una risposta di Pietro Adamo e, nei numeri successivi, il dibattito si ampliò, contribuendo a fare venire alla luce molte idee e tradizioni culturali che fino a quel momento non avevano avuto alcuna cittadinanza all'interno della nostra cultura.

    Carlo Lottieri



    http://www.liberidiscegliere.org/2.html

    Bellissimo , Carlo Lottieri ha centrato in pieno il punto e questo articolo costituisce una pagina sintetica e perfetta che merita una citazione nelle "letture Liberali" tra gli articoli "importanti", per la sua semplicità riassuntiva e non per un contenuto innovativo il quale è forse proprio e solo che qualcuno finalmente riassuma e parli del Rinascimento Liberale che in questi anni crediamo finalmente di vedere
    _
    P R I M O_M I N I S T R O_D I _P O L
    * * *

    Presidente di Progetto Liberale

  3. #3
    Anarcocapitalista
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    R.MODUGNO CROCETTARhotbard La frontiera dell'anarco capitalismo Il "libertarismo" punta a sostituire lo Stato con comunità regolate dal mercato e legate da vincoli di solidarietà individuale"Se si volesse capire come il libertario considera lo Stato e le sue azioni, basterebbe considerare lo Stato una banda criminale. ( ). Nell'opporsi a qualsiasi aggressione o di gruppo contro i diritti delle persone o delle proprietà, il libertario è consapevole che in tutta la storia e fino ai nostri giorni c'è stato un solo aggressore centrale, dominante e potente che ha offeso tutti questi diritti: lo Stato. Lo Stato commette abitualmente omicidio di massa chiamandolo "guerra", o talvolta "eliminazione dei sovversivi"; lo Stato pratica la schiavitù nelle proprie forze militari, e la chiama "coscrizione"; vive e giustifica la propria esistenza attraverso la pratica della rapina, chiamata "tassazione". Il libertario sostiene che il fatto che tali nefandezze vengano o no sancite dalla maggioranza della popolazione non altera la loro vera natura: ossia, a prescindere dalla ratifica popolare, la guerra è e rimane omicidio di massa, la coscrizione è schiavitù, la tassazione è rapina. Il libertario, in breve, è quel bambino della favola che con insistenza ribadisce che "l'imperatore è nudo". Questa è la vigorosa critica di Murray Rothbard allo Stato.
    Murray Newton Rothbard (1926-1995) è il principale esponente dell'anarco-capitalismo americano, la versione più radicale del pensiero liberale. Come mai giunge a un critica così forte dello Stato? Partendo dall'assioma di non aggressione, cioè a dire il principio secondo il quale nessuno deve essere aggredito nella persona e nella proprietà, Murray Rothbard conclude che lo Stato è un'istituzione illegittima e, per sua stessa natura, calpesta i diritti dei cittadini. Lo Stato è l'unica istituzione che si sostiene attraverso la tassazione, vale a dire, attraverso l'aggressione e la violazione dei diritti di proprietà degli individui, mentre tutti gli altri soggetti all'interno della società si sostengono tramite la produzione e lo scambio. Lo Stato non è solo un'istituzione immorale ma, con i suoi innumerevoli monopoli, è anche un'istituzione inefficiente riguardo la fornitura di beni e servizi. Ad avviso di Rothbard lo Stato dovrebbe semplicemente cessare di esistere e cedere il posto a una pluralità di agenzie protettive, liberamente finanziate e in competizione tra loro. Avere servizi di protezione in regime di libero mercato "significherebbe mantenere l'assioma della società libera, vale a dire, che non deve esserci alcun uso di forza fisica eccetto che per la difesa contro coloro che usano la forza contro la persona o la proprietà. Questo mondo implicherebbe l'assenza completa di un apparato statale o di governo. I servizi di difesa, come tutti gli altri servizi, dovrebbero essere vendibili e solo vendibili". In questo sistema anche giudici e tribunali sarebbero in concorrenza tra loro sul mercato e non sarebbero altro che arbitri privati, esperti in legge, con il compito di applicare ai vari casi il Codice Giuridico Libertario, basato su norme di common law, adeguate al fondamentale principio di non aggressione.
    Negli anni cinquanta il giovane Murray si accosta alla Old Right isolazionista che si era opposta al New Deal di Roosevelt e agli interventi americani nei conflitti mondiali. Sono gli anni della collaborazione a riviste quali National Review e Freeman, espressioni della cultura conservatrice americana. Ancora studente, Murray Rothbard frequenta il seminario sul marginalismo della Scuola Austriaca di Economia, tenuto da Ludwig von Mises, dal 1949 al 1969, presso la New York University. Il seminario, le convention nei caffè del Greenwich Village e l'entusiasmo di Rothbard contribuirono alla formazione di un vero e proprio circolo intellettuale intorno alla figura di Mises. Per Rothbard, già sostenitore del libero mercato, l'incontro con Mises fu decisivo. A questo punto, il giovane studioso si trova di fronte a un bivio: se è vero, come sostiene Mises, che l'economia di libero mercato è il migliore strumento per raggiungere il maggior benessere per tutti, se è il sistema economico più efficiente e consente la realizzazione della più vasta gamma di obiettivi, perché occorre tollerare il monopolio dello Stato per la produzione di beni quali la sicurezza, la protezione e i servizi giudiziari? Ebbene ben presto Rohtbard, come egli stesso ricorda, si trova sospinto da una logica stringente verso quello che chiamerà anarco-capitalismo. Inizia così la lettura delle opere degli anarchici individualisti americani del diciannovesimo secolo, Lysander Spooner, Benjamin Tucker e Auberon Herbert. Nello stesso periodo Rothbard incontra Ayn Rand, accesa sostenitrice del capitalismo e, per un certo periodo frequenta il suo gruppo "oggettivista". Se ne distaccherà poco dopo a causa di dissapori con la stessa Rand. Murray Rothbard non si accontenta di sopportare il libero mercato con argomenti logici e avalutativi. Egli vuole costruire un'etica della libertà. Il libero mercato non è soltanto il sistema più produttivo. A detta di Rothbard è l'unico tipo di organizzazione sociale davvero coerente con la natura umana e in quanto tale è l'unico sistema eticamente corretto. Per fornire un fondamento etico alla libertà Murray Rothbard si rivolge alla tradizione tomista del diritto naturale.
    Quest'ultimo è per Rothbard una guida che consente di comprendere ciò che è bene per l'uomo in quanto tale, vale a dire che cosa sia conforme alla natura umana. L'intento di Rothbard è quello di dare maggiore forza persuasiva ai propri argomenti a sostegno della libertà. Il fondamento teorico del principio della non aggressione nei confronti dell'individuo e della sua proprietà è, a sua volta, il diritto di self-ownership, il diritto alla proprietà di se stessi, che Rothbard rinviene nel pensiero di John Locke. Da un forte diritto alla proprietà di sé discende il diritto naturale di proprietà privata. Quest'ultimo deriva dall'unione del lavoro individuale con le risorse della terra. E' esattamente in questo modo che il principio dell'homesteading attribuì ai coloni americani il possesso delle terre che costoro avevano coltivato.
    Nessuna teoria è isolata ed avulsa dal proprio contesto storico. Gli anni Cinquanta del Novecento segnarono la ricoperta dei valori del liberalismo classico negli Stati Uniti. L'era del New Deal era ancora un'esperienza recente e uno dei temi centrali dei dibattiti politici rimaneva la presenza del governo nell'economia e nella vita dei cittadini. In politica estera la guerra fredda e la constatazione del totalitarismo della Russia stalinista crearono un clima adatto allo sviluppo delle idee libertarie e alla ripresa dei valori dell'individualismo. Non era forse preferibile la mano invisibile rispetto alla troppo visibile mano della burocrazia? In una delle intime riflessioni Murray Rothbard sottolinea il valore delle nazioni per consenso, vale a dire di comunità basate su un consenso effettivo, su tradizioni storiche, culturali e linguistiche. Ebbene Rothbard individua nella libera espansione di tali comunità una via concreta alla società libertaria.

    http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010326.htm

 

 

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